Enzo Bianchi "La gioia della Pasqua"
Mi domando sovente in questi giorni prepasquali cosa possano comprendere oggi molti non più cristiani di quel che vivono nella cosiddetta “settimana santa” coloro che scelgono di essere discepoli di Gesù di Nazareth.
Sì, perché per una settimana questi ultimi pregano diversamente dal modo abituale, compiono riti che vogliono essere rappresentazioni evocative, vivono ore di tristezza e poi prorompono in canti di gioia, si scambiano abbracci festosi. So che questo incontra soprattutto indifferenza e, se desta interesse, viene trattato come un evento folcloristico. Così la Settimana Santa con le sue “Passioni viventi” diventa addirittura un’occasione di forte richiamo turistico.
Se si va nelle chiese dove si celebrano le liturgie che vogliono rendere partecipe il cristiano delle vicende della Passione e morte di Gesù si constata la presenza di poca gente. Certamente oggi la vita sembra trascorrere nei giorni della Settimana Santa, come negli ultimi giorni dell’anno, sotto un unico segno: l’acquisto e il dono delle colombe, l’equivalente del panettone di Natale. Ma per i cristiani vivere questi giorni in modo autentico significa dare la propria presenza in chiesa, alla propria comunità, per formare un unico corpo che celebra la Passione del Signore.
Non è imitazione, né operazione dolorista, ma è contemplazione, esempio di fede, più profonda conoscenza di una vita offerta agli umani tanto amati: Gesù, che è vissuto amando, ha amato fino alla fine accettando la morte senza difendersi, solidale con tutte le vittime della storia, vittime dell’ingiustizia e della malvagità degli uomini loro fratelli. Ciò che la Pasqua di Gesù ci testimonia è il suo lasciarsi catturare senza opporre resistenza armata, è il suo silenzio eloquente di fronte al re Erode, che non meritava neppure una parola di Gesù, è il suo interrogatorio da parte del Sommo sacerdote.
Gesù resta mite sempre, lontano da ogni tentazione di violenza. La sua non è resa, ma sottomissione compiuta liberamente. Fino all’ultimo, anche torturato e flagellato e infine crocifisso, Gesù vede i suoi aguzzini come gente che non sa quel che dice e quel che fa, e certo non è lui a concedere il perdono, ma chiede a Dio suo Padre di perdonarli. Quella di Gesù era una morte annunciata perché come profeta sapeva che il rifiuto fino all’eliminazione era ciò che lo attendeva tra i suoi, da parte dei suoi. Era il venerdì 7 aprile del 30, alle 3 del pomeriggio!
Ma questa morte, ultimo esito di un cammino di mitezza e non violenza, di servizio e cura dei più deboli e poveri che incontrava, ultima tappa che lo vedeva annoverato tra i peccatori, “maledetto da Dio e dagli uomini”, e per questo appeso alla croce, era una morte che non poteva essere l’ultima parola su di lui. E dopo un giorno di aporia, un sabato santo di silenzio muto, vuoto, in cui non sono previste liturgie, ecco che Dio risolleva dai morti Gesù, vivente, in mezzo ai suoi. È il Kýrios, il Signore vivente, risorto! E qui esplode la festa.