Alessandro D’Avenia "Promossi o rimossi? La scuola e l’educazione al tempo degli smartphone"
In Inghilterra è stato vietato l’uso dei cellulari nelle scuole allo scopo di migliorare la disciplina, l’attenzione e il rendimento degli studenti (lo hanno più dell’80% dei ragazzi tra 12 e 15 anni).
La psicologa e sociologa Sherry Turkle scriveva nel 2017 una nuova prefazione al famoso libro del 2010, Insieme ma soli, dedicato al cambiamento delle interazioni sociali dovuto alle recenti tecnologie (il primo smartphone è del 2007 e oggi lo abbiamo in quasi 5 miliardi): «Gli studi mostrano che se due persone stanno pranzando, un cellulare sul tavolo fa virare la conversazione su temi più leggeri, e i due commensali si sentono meno coinvolti reciprocamente. Chi partecipa alla conversazione sa che, con un telefono in vista, si può essere interrotti in qualunque momento. La nostra distrazione ha un prezzo». Perché lo facciamo? Le relazioni sono faticose: argomenti di conversazione, momenti impegnativi, il peso della verità, sentimenti complessi... Preferiamo fuggire o almeno avere una via di fuga. Quando scrivo un libro non sono connesso a internet, perché avrei un alibi nei momenti di fatica: devo restare lì, proprio dove la pagina resiste e mi costringe ad essere ancora più presente a me stesso. La verità si trova solo nella e con la carne. Nell’ambito delle relazioni non è diverso: le relazioni sono impegnative come le pagine bianche. E trovare un alibi nelle relazioni comporta la perdita di una capacità: amare. Una ricerca, racconta Turkle, ha rilevato «un calo del 40% negli indicatori dell’empatia tra gli studenti universitari. E siccome la maggior parte di quel calo è avvenuto nell’ultimo decennio, è ragionevole collegare il divario di empatia alla presenza delle comunicazioni digitali». L’alibi perfetto per non sentire il peso dell’altro, con la conseguente perdita delle abilità corporee da cui sorge l’empatia: sguardi, espressioni, silenzi, tono... (e infatti poi introduciamo fantomatici corsi sulle cosiddette soft skill). Turkle dice: «La tecnologia ci fa dimenticare ciò che sappiamo della vita. Le persone ammettono che nella conversazione vis-à-vis comprendono meglio i loro figli, coniugi, genitori e partner e imparano come relazionarsi con gli altri. Eppure vi diranno anche che sono contente di usare la tecnologia per evitare quelle conversazioni, perché sono difficili... Un giovane mi spiega che farebbe qualunque cosa pur di evitare una conversazione: “Si svolge in tempo reale, e non puoi controllare quel che dirai”. Quando ci viene offerto qualcosa che può semplificarci la vita, dimentichiamo i nostri scopi umani». Queste considerazioni mi sono tornate in mente guardando il film Perfect Days di Wim Wenders, candidato all’Oscar. Il protagonista vive in un mondo analogico e di assoluta presenza: pulisce i bagni di Tokyo, ascolta audiocassette (la colonna sonora vale il film), scatta foto su pellicola... E non a caso è dotato di un’empatia che lo rende una calamita per le relazioni, soprattutto per i ragazzi, che nel film hanno sempre un telefono in mano e lo cercano proprio perché non ha «alibi»: c’è, sta nel presente e risponde alle sue chiamate (emblematica la scena in cui uno sconosciuto gli confida che ha un cancro e si mettono a giocare come bambini). Nel film, in cui si avverte la mancanza del motivo profondo per cui il protagonista vive così se non per un rigore quasi monastico, c’è una bella sequenza fissa sul suo volto, sul quale passano tutti i colori della vita. Avremo sempre più nostalgia di questa «presenza» di carne, ma intanto, scrive Turkle: «dobbiamo chiederci se una tecnologia espanda le nostre capacità e possibilità o se sfrutti i nostri punti deboli. Se pensiamo che faccia entrambe le cose, qual è il saldo? La tecnologia ci ha offerto acqua gasata zuccherata, e noi l’abbiamo adottata. Abbiamo impiegato più di cento anni a decidere che non ci faceva bene. E quando l’abbiamo dichiarata nociva, era ormai parte integrante delle immagini più convincenti del sogno americano... e sorprendentemente, ancora oggi, ogni volta che una nuova tecnologia sfrutta una profonda vulnerabilità, ci comportiamo come se non avessimo mai sentito questa storia. La tecnologia, alimentare o digitale, può farci dimenticare ciò che sappiamo della vita. E oggi offre tentazioni sempre maggiori di farci imboccare la strada dell’oblio».
Nella scuola in cui insegno abbiamo deciso di vietare i cellulari (a meno che non servano per scopi didattici), decisione sulla quale ero combattuto, ma evidenze scientifiche ormai copiose e dati osservabili direttamente (i ragazzi, al suono della campana dell’intervallo, prima rimanevano seduti a controllare il telefono, ora si fiondano fuori) hanno fugato i dubbi. L’oblio del corpo è un prezzo troppo alto da pagare (chi di noi ha «ricordi» di un pomeriggio passato sui social? E non avere ricordi significa essere alienati dalla vita: alibi e alieno hanno la stessa radice), tanto che è semplice buon senso limitare l’uso di questa tecnologia. Guardate il progetto «Removed» del fotografo Eric Pickersgill che nel 2014 ha cominciato a immortalare chi interagisce con un cellulare, rimuovendo poi dalla foto lo strumento: vedrete persone immerse in una realtà di cui non sentono e non sanno più nulla, sono «rimossi» (il contrario di «promossi») dal presente tanto quanto i device lo sono dalla foto. Qualcuno dirà che ormai anche quella nel telefono è realtà salvo poi scoprire che nell’album dei nostri ricordi ci sono solo momenti di profonda «incarnazione» e non chat, video e informazioni. Essere altrove ha un prezzo, soprattutto nelle tappe evolutive, e il paradosso è che siamo noi adulti a fornire l’alibi perfetto a un bambino, che un giorno purtroppo scoprirà che sulla scena del presente è stato la vittima: si è dimenticato di esserci.
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