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La Chiesa che c’è. Quella che ci sarà

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Da laico nella città – Rubrica a cura di Daniele Rocchetti 

L’unico cristianesimo, il variegato mondo. 
L’evento cruciale del Concilio Vaticano II. 
Le prospettive future della Chiesa. 

Intervista a Severino Dianich, teologo

 

Don Severino Dianich è stato certamente uno dei più significativi teologi italiani del Novecento, autore di molte opere e animatore instancabile per decenni dell’Associazione Teologica Italiana (ATI) che ha fondato insieme ad altri nel 1967. 

Nato a Fiume nel 1934, ordinato prete a Pisa nel 1958, laureato in Teologia alla Gregoriana di Roma, don Severino è stato professore ordinario di Ecclesiologia e di Cristologia alla Facoltà di Teologia di Firenze. 

Nei mesi scorsi ha pubblicato un libretto (“Troppo breve il mio secolo”, San Paolo, 2023, 208 pp, 18 euro) dove racconta, con uno sguardo sapienziale, lucido e non risentito, alcune vicende della sua lunga esistenza. Dall’esodo forzato dalla terra istriana al Concilio Vaticano II, a cui partecipa lateralmente come segretario del suo vescovo, dall’esperienza della FUCI a Pisa alla fondazione dell’ATI per passare nei numerosi luoghi e popoli incontrati grazie ai viaggi e ai molti seminari di formazione tenuti in diverse parti del mondo. Un libro che merita di essere letto perché anche nelle pieghe delle complessità viste e affrontate sa riconoscere con fiducia il seme buono del Vangelo che è dentro la storia e le storie di ciascuno. Un’ultima lezione per tanti cristiani preoccupati di difendersi e di perimetrare in modo rigido confini e pareti. 

Don Severino: lei ha attraversato quasi un secolo, vivendo moltissimi eventi che fanno parte della storia. Quali sono quelli decisivi per la sua vicenda e come questi hanno influenzato il suo sguardo su Dio? 

Il passo fondamentale, un passo lungo lungo, è quello di un cammino nella fede, iniziato da bambino, soprattutto grazie a don Alberto, il cappellano della mia parrocchia, che poi ho ritrovato a Pisa, tutti e due esuli da Fiume, e che è continuato nella lunga preparazione al mio ministero di prete. Poi direi, senz’altro, il concilio. Quindi le mie esperienze in paesi e situazioni le più diverse, dove si scopre come Dio sia presente dovunque, in infinite forme diverse. 

Per tante ragioni, lei ha incontrato donne e uomini di diverse parti del mondo. Dal punto di vista spirituale, come è riuscito a coniugare la molteplicità delle vicende religiose con l’unicità della parabola cristiana? 

Quando in Cambogia, in un tempietto dedicato a uno spirito, osservavo quella signora che veniva in lacrime a portargli l’offerta di una porchetta (un patrimonio per una famiglia di poveri), capivo la forza liberante del Vangelo. Ricordavo quel che un missionario mi aveva raccontato, di alcuni cristiani che avevano preparato il presepio proprio accanto a un tempietto di uno spirito ma, giunta la mezzanotte di Natale, avevano tolto dal tempietto la statuetta dello spirito e messo nel presepio il bambino Gesù. Detto questo, comunque fosse, nella preghiera dei poveri, qualunque destinazione avesse, mi pareva di scorgere sempre la presenza dello stesso Dio Padre che Gesù ci ha rivelato. 

Il Concilio Vaticano II rappresenta un vero e proprio spartiacque nell’autocoscienza della Chiesa contemporanea. Lei ha trascorso la sua vita insegnando ai futuri preti e cercando di trasmettere le novità che l’assise conciliare ha introdotto. Perché è stato così faticosa l’attuazione del Concilio Vaticano II? 

Perchè il “Si è sempre fatto così”, se pure in maniera illusoria, è rassicurante per i timidi. E i timidi sono molto più numerosi di quel che sembra. Ma, curiosamente, alla difficoltà hanno contribuito anche gli intellettuali di cultura laica. Anticlericali quanto si voglia, vedevano messo a rischio il giocattolino (mi si perdoni la parola, ma tale lo è di fronte alla decisività e grandezza della fede) di una tradizione culturale plasmata dal cristianesimo. Non è escluso che vi abbiano contribuito anche i grandi poteri economici, che vedevano la Chiesa ulteriormente spostarsi su una sponda opposta alla loro. 

Ritorna in ogni tempo la questione della tradizione. Lo stesso Sinodo che si sta svolgendo si colloca in una tradizione ecclesiale. Quale ermeneutica della tradizione intravede all’orizzonte all’interno dei processi ecclesiali? Quanto è possibile tradire certi schemi? 

Con quel “Quanto…?” non si vorrà certamente ricevere una risposta, tipo: “Questo sì, questo no!” Quel che spesso manca ai tradizionalisti è la conoscenza della storia. Non di rado la loro “tradizione”, da difendere, è quella degli ultimi due tre secoli, quando non, nei più sprovveduti, quella della loro infanzia. Il culto della Tradizione fa parte della fede cattolica, certamente, perché la Sacra Scrittura non deve essere considerata un cimelio del passato e viene letta nell’alveo del grande fiume della tradizione. E’ che la tradizione è appunto come un fiume, cioè essa stessa in continuo movimento. Scoprirne la storia significa scoprire che la tradizione per prima ha attraversato infinite variazioni. Non pochi oggi si oppongono all’accesso delle donne al diaconato, perché tale prassi non sarebbe mai esistita. Ma se ricordassero quanti cambiamenti ha subito nella tradizione il sacramento dell’Ordine, comprenderebbero che la Chiesa vi può introdurre una nuova prassi senza offendere la tradizione. Basti pensare che in origine solo il vescovo presiedeva l’Eucarestia o che l’ordinazione a vescovo senza la destinazione al governo pastorale di una sua Chiesa particolare era considerata invalida. Ancora al concilio di Trento l’ordinazione del vescovo non era considerata un grado del sacramento dell’Ordine, mentre lo era il suddiaconato che poi è scomparso. 

A livello ecclesiale, stiamo vivendo il travaglio di un parto. Indietro non possiamo più tornare ma è pure complicato immaginare il futuro. Come immagina potrà essere la forma della Chiesa di domani? 

Non è possibile tentare previsioni riguardanti la Chiesa intera. Una cosa è l’Europa, altra è l’Africa, altra ancora è l’America Latina. E’ più facile dire qualcosa sull’Europa dove i flussi migratori, la diminuzione delle famiglie fondate sul sacramento del Matrimonio, la crescita dell’abbandono della fede di battezzati, stanno portando a un dimagrimento del corpo di tutte le Chiese, non solo di quella cattolica. Lo sbilanciamento, poi, che si sta creando fra il numero dei fedeli e dei preti in costante diminuzione e la perdurante imponenza delle strutture, financo del patrimonio immobiliare, costituisce un problema assai intricato che rischia di rallentare il rinnovamento e la ripresa dell’evangelizzazione a tutto campo. Ma per quel che conta ai fini dello scopo, per il quale il Signore ha voluto la Chiesa, cioè il perpetuare nel mondo la memoria storica di Gesù e più ancora la memoria di fede in Gesù risorto, il nostro è momento di grazia e inizio di un’epoca nuova. La Chiesa è chiamata a spogliarsi di tante sovrastrutture, che rischiano di ostacolare invece di favorire la sua missione, per ritrovare la freschezza del Vangelo e “la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime”. E’ un’affermazione di Paolo VI che papa Francesco cita nella Evangelii gaudium. 

La cosa che più colpisce leggendo il suo libro è lo sguardo pacificato e sapienziale con cui legge le vicende del mondo e della Chiesa. Come custodire questo sguardo perchè non prevalgano rancore e risentimento? 

E’ molto semplice. Basta imparare a memoria e riportare a galla, ogni volta che è necessario, l’invito di Gesù: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita”. 

Un’ultima curiosità. Perchè chiude il suo libro con i capitoli finali di Apocalisse? 

Perché sono (o meglio, desidero essere) cristiano. 


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