Paolo Ricca "Cosa significa essere valdesi, oggi."
Che cosa vuol dire essere valdese, oggi? In occasione degli 850 anni dalla nascita del movimento valdese, abbiamo interrogato diversi esponenti di questa comunità, chiedendo loro di spiegare in modo semplice, sintetico, a parole loro, questa appartenenza. Giovani e meno giovani, provenienti da ogni regione d’Italia, pastore e teologhe, o anche “semplici” cittadini. Ecco le loro risposte.
Protagonista della prima “puntata” è il teologo Paolo Ricca.
Essere valdese anzitutto vuol dire appartenere a una storia in virtù della quale io posso dirmi
o dire che sono valdese. Se non ci fosse quella storia non lo potrei dire.
È una storia molto particolare, come sappiamo, una storia miracolosa – si può dire, almeno io la
considero tale – perché che i valdesi esistano ancora è un miracolo assoluto, per tante ragioni,
non solo politiche naturalmente.
Una storia di oltre otto secoli, vissuta in condizioni avverse, in mezzo a minacce,
insidie, violenze di ogni genere, persecuzioni fisiche, legali, discriminazioni, esilio,
ghettizzazione. Tutto è stato tentato da nemici potenti per distruggere questa piccola
comunità dissidente che fin dal Medioevo ha osato costituire una comunità cristiana
diversa da quella dominante, pagando un altissimo prezzo di sangue per restare fedele
alla sua vocazione; è grazie a questa catena di testimoni che io posso esistere come
valdese.
I valdesi dovevano scomparire, come sono scomparsi tutti i movimenti religiosi analoghi non
incamerati dalla chiesa cattolica. A parte Francesco di Assisi, che a un certo punto è stato
normalizzato ed è diventato quello che lui non voleva diventare, portando poi alla nascita di un
ordine monastico, integrato nel sistema cattolico. Gli altri sono tutti scomparsi, tutti distrutti.
Pensiamo ai catari naturalmente, che erano anche una vera altra chiesa, una vera chiesa alternativa a
quella romana, a quella esistente. La storia valdese è una storia assolutamente straordinaria. È
difficile capirne la sopravvivenza se non in virtù di questa fede. È l’unica spiegazione ragionevole.
Una fede che è anche, bisogna ammetterlo, legata a un territorio, entro certi limiti. Senza le valli,
probabilmente, i valdesi si sarebbero estinti. Sarebbero rimasti protestanti, luterani,
riformati, ma come valdesi credo che esistano solo perché ci sono le valli, che sono state sì il
ghetto, ma anche il rifugio e quindi il luogo di sopravvivenza dei valdesi. Purtroppo adesso quel
territorio è sempre meno caratterizzato dalla presenza valdese, per cui il futuro è molto incerto, non
chiaramente delineato. Però, fino a oggi, credo che si possa dire che la sopravvivenza dei valdesi –
come comunità identificabile con questo nome, molto discusso tra l’altro – è legata a un territorio,
alle valli valdesi. Un territorio aspro, ingrato, buono come nascondiglio, ma difficile come luogo di
sopravvivenza, di sussistenza, come luogo che ti dà il pane.
In secondo luogo, essere valdese per me significa cercare di diventare cristiano, perché il
movimento valdese nasce da una conversione.
La conversione di questo misterioso Valdo, che a un certo punto ha avuto una crisi spirituale e ha
ritenuto di non poter continuare a vivere così come aveva vissuto fino a quel momento. Valdo ha
rivoluzionato la sua vita, ma quella rivoluzione iniziale era solo l’inizio, perchè non si finisce mai di
diventare cristiani.
Come valdesi non siamo più quelli che eravamo e non siamo ancora quelli che saremo,
siamo cristiani in divenire. Una cosa però unifica la storia valdese: la Bibbia è la nostra
bussola, la stella polare che ci fa da guida nel mare agitato della storia umana.
Valdo ha fatto una scelta radicale di conversione, secondo gli schemi di quel periodo storico
particolare, in cui l’ideale cristiano era anzitutto la scelta di povertà e la scelta di predicazione, cioè
la scelta di dedicarsi all’annuncio cristiano, nel contesto di un popolo analfabeta che difficilmente
riceveva un’istruzione religiosa cristiana solida. Era allenato magari alla ripetizione dei riti, delle
cerimonie, a ripetere le frasi della messa, ma la scienza delle storie bibliche sostanzialmente non
c’era. La predicazione era la vita dei santi, non la storia biblica di Antico e Nuovo testamento. Cosa
vuol dire una conversione? Vuol dire che ti accorgi che non sei ancora cristiano e ti incammini in
una ricerca di quello che potrebbe significare essere cristiano, ma anche quella conversione iniziale
è stata solo un principio. Poi ce ne sono state altre, e questo è – credo – la chiave di lettura vera
della storia valdese: non si finisce mai di essere cristiani, di diventare cristiani. Per cui noi non
siamo più quelli che eravamo e non siamo ancora quelli che saremo, questo è il nodo gordiano da
sciogliere. Quindi essere valdese significa essere incamminato, in divenire, verso una meta che è
quella di diventare cristiani.
Il terzo significato è che in questo cammino c’è stata una scelta irrevocabile, che è la scelta
della Riforma. Per me essere valdese significa essere protestante. In un orizzonte
ecumenico, ma protestante.
La scelta della Riforma è stata un’altra tappa decisiva nel corso del cammino per diventare cristiani.
Non si torna indietro, si può solo andare avanti. Andare avanti nel XXI secolo significa situare, non
superare, ma situare la Riforma. Situarla in un contesto ecumenico. Cosa vuol dire? In primo luogo
significa guarire dal settarismo che minaccia tutti i gruppi umani e tutti i gruppi cristiani di
qualunque tipo. Ci possono essere sette grandi, sette piccole, sette minuscole, ma lo spirito settario
è universale e minaccia tutti.
Nel 1532 abbiamo aderito alla Riforma – scelta molto costosa – dalla quale non si
torna indietro. Cerchiamo di essere cristiani di un certo tipo, a partire da una certa
esperienza e conoscenza di Dio. L’ecumenismo non è il superamento del
protestantesimo, ma una sua contestualizzazione. Siamo in divenire. Stiamo diventando
cristiani, dalla Riforma in avanti, non dalla Riforma indietro.
Si può essere settari anche se sei la più grande realtà religiosa del mondo, eppure puoi essere
settario. In secondo luogo, essere in un orizzonte ecumenico significa superare l’illusione di
essere l’unico cristiano del mondo. L’idea, cioè, che non ci sono altri cristiani se non quelli che
sono come te. Ci sono anche cristiani che non sono come te e questo sembra semplice, ma non lo è.
Significa rendersi conto che il cristianesimo è una religione giovane, ha 2000 anni, ma è giovane
perché ha una grande capacità di rinnovarsi, di contestarsi, di mettersi in discussione. Cosa che non
sempre si vede in altri orizzonti religiosi contemporanei. Persino la chiesa cattolica, attraverso il
Vaticano II, effettivamente è entrata in un processo di autocritica. Innegabilmente lo stesso papato,
che era l’icona della irriformabilità e irremovibilità, si sta chiedendo se non potrebbe essere
qualcosa d’altro di quello che è. E anche nella Federazione delle chiese evangeliche ci si interroga
su cosa significhi, da nord a sud, da oriente a occidente. Quindi il cristianesimo è capace
miracolosamente di riflettere criticamente su se stesso, di porsi delle domande radicali e scomode e
questo è la sua fortuna.
Essere valdesi non è qualche cosa di chiuso; è qualche cosa di aperto. Chiunque può essere valdese.
La storia che ci precede è fatta, non la puoi cambiare, la puoi interpretare e leggere in un modo o in
un altro, ma la storia valdese del domani è quella che fai anche tu che entri in questa comunità e
diventi nel tuo piccolo protagonista. Ciascuno, nel suo piccolo, può portare il suo contributo e
rendere questa storia diversa perché – lo ripeto – siamo in divenire.
Diventare valdese oggi è possibile, anzi è auspicabile. Come? Conoscendo e possibilmente amando
questa storia, che è una bella storia di resistenza, di pazienza, di sofferenza, ma anche di qualche
vittoria. Non è l’unica al mondo, ma è una storia che si colloca in un’ottica di movimento verso il
futuro, anche di trascendenza. Un’appartenenza che va oltre i confini di questo mondo.