Marinella Perroni "La libertà del Creato è il segno di Dio"
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Man mano che si illuminavano, le migliaia di droni che hanno accompagnato il concerto con cui si è conclusa la terza edizione del World Meeting on Human Fraternity disegnavano nel cielo sopra San Pietro il profilo dell’immagine michelangiolesca delle due dita, quello di Dio e quello di Adamo. Una stilizzazione luminosa che riproponeva, ancora una volta, l’interrogativo sul legame che intercorre tra Dio e il creato: vicinanza o distanza? appartenenza o autonomia?
Per la Bibbia, nessun immanentismo è possibile e tutto il rapporto tra Dio e il creato è segnato dalla distanza. Anzi, proprio questa autonomia è presupposto di libertà e, quindi, è condizione che rende possibile il bene come il male. Credere nel Dio creatore significa allora innanzi tutto credere che tutto ciò che fa parte del creato, non è, in nessun modo, Dio. Neppure gli umani, benché ne rappresentino in qualche modo il vertice e benché ci sia una differenza tra loro e tutto ciò che vive sulla terra. Nei miti biblici delle origini è detto con chiarezza. «Sareste come Dio» sono le parole che il serpente insinua nel primo discorso teologico della Bibbia, quello tra «il più astuto di tutti gli animali selvatici» e la donna: essere come Dio non è una possibilità reale, è una tentazione. Essere a «immagine e somiglianza», di fatto, non significa in nessun modo essere come Dio, anzi, significa che con lui non ci può essere né identità né confusione: è condizione privilegiata, certo, ma stabilisce una relazione proprio perché è frutto di una netta distinzione. Dio, allora, non può essere confuso con tutto ciò che è anima vivente: il Dio dell’immaginario teologico dell’Israele biblico, il Dio degli dèi (Elohim) non è la Madre terra di altre tradizioni religiose. Perché il Dio della creazione non è né madre né padre, ma è e resta solo Dio, e il legame tra lui e il creato non è diretto, “ombelicale”. Riconoscere, come fa Adamo, che Eva è «la madre di tutti i viventi» (Genesi 3,20) significa proprio prendere le distanze da ogni forma possibile di animismo. La terra, Eva, e non Dio è madre di tutto ciò che vive. Riconoscere questo conferma che Dio è “altro”, non dipendono da lui né i raccolti abbondanti né i terremoti devastanti. Piuttosto, è a partire da lui, proprio dal suo essere “altro” che diventa possibile vivere con gratitudine i raccolti abbondanti e non soccombere del tutto alla furia dei terremoti devastanti.
La vita, il mondo, la storia, tutto quello che nasce da Eva, insomma, ha le sue logiche che ne determinano, nel bene e nel male, assetti e dissesti, equilibri e armonie oppure squilibri e catastrofi. Dipendono inesorabilmente dai capricci degli dei? No, solo dalle leggi iscritte nei loro corpi, siano essi quelli individuali o quelli collettivi, siano quelli della singolarità o quelli della socialità. Quanto però è decisivo dal punto di vista teologico è che a tutto questo c’è un oltre. C’è un “in principio” e c’è un giardino della vita nel quale si fonda e si gioca un rapporto “altro”: Eden non soggiace alle coordinate spazio- temporali a cui è legata la nostra percezione e la nostra intelligenza della realtà. Eden precede la storia del mondo e la segue appunto come “al di là” di cui, nella Bibbia, i miti delle origini e le apocalissi che svelano la fine rendono accessibili dei significati che divengono plausibili solo in rapporto a una certa immagine del Dio degli dei. Eden non è il creato, è la rivelazione di ciò che il creato significa per quanti credono che oltre, al-di-là, c’è Dio e che la sua sovranità sul creato non significa che è Lui a telecomandarlo, ma che è Lui a rivelarne il segreto nascosto nei secoli: che mai il Male potrà avere la vittoria definitiva perché, per dirla con Paolo, «tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» e «se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Romani 8,28.31). Il Dio biblico, dunque, non è il Dio “nel” mondo, ma il Dio “per” il mondo.
Spesso, è vero, il linguaggio biblico è ricco di metafore antropomorfe, quando non può descrivere Dio se non usando termini e concetti tipici degli esseri umani, e allora il suo rapporto nei confronti di Israele è presentato come quello di un padre o di una madre. Basta pensare a quel bellissimo testo del profeta Osea «A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, … ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (11,3-4), oppure anche riflettere sul fatto che, come ha detto il cardinale Gianfranco Ravasi in un’intervista, nella Bibbia «più di 260 volte si parla di viscere materne del Signore». Questo significa però che il rapporto tra Dio e il suo popolo, ma anche tra Dio e tutto il creato, è di partecipazione e di sostegno, di attenzione e di cura.
Che significa, allora, scoprire di essere «a immagine e somiglianza di questo Dio» se non avere nei confronti del creato lo stesso atteggiamento di partecipazione e di sostegno, di attenzione e di cura? Se Dio affida agli umani il dominio della terra (cfr. Genesi 1,28 e 2,15), li chiama a farlo «a sua immagine» e quindi innanzi tutto a chiedersi in che modo Lui per primo esercita il dominio su tutto ciò che esiste. Per le cosmogonie bibliche il Male è fin dall’inizio parte integrante dell’ordine della creazione e il dominio di Dio sta nel garantire che, nonostante questo, tutto, ma proprio tutto, riuscirà ad armonizzarsi grazie a una sapienza che non vuole che nulla di ciò che è stato, è e sarà vada perduto. Lo hanno riconosciuto i profeti quando hanno vagheggiato che, alla fine, «il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto […] Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso […] perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare» (Isaia 11,6-9).
La conoscenza del Signore, quella che Dio stesso ha del creato e che si esprime nella meraviglia e nel riposo. Guardare all’intero universo con un atteggiamento di meraviglia è quanto Dio fa man mano che rivolge lo sguardo su tutto ciò che esiste, uno sguardo che si traduce nel riconoscimento che tutto «era cosa buona» perché è quello che deve essere e fa quello che deve fare e, al contempo, affermare il suo dominio sospendendo, nel settimo giorno, ogni pretesa nei confronti di ciò che è e che ormai vive: una sorta di sovranità che, per sua stessa scelta, è limitata, non è predatoria. A lui, come mostrerà la lunga storia che poi si dipanerà dopo quell’«in principio», toccherà vigilare sul bene e sul male e garantire che nulla di quello che ormai è e vive vada perduto. Il dominio sul creato da parte di Dio sta proprio in questo, contemplarlo e rispettarlo nella sua autonomia e nella sua verità come altro da sé, riconoscendo che è «cosa molto buona».
Di questo suo potere Dio investe dunque gli umani, e «coltivare e custodire la terra», la Madre terra, significa allora apprendere a guardare a tutto ciò che da lei nasce con meraviglia e chiede rispetto. E ricordare che di quella Madre che produce «esseri viventi secondo la loro specie» (Genesi 1,24) anche noi, gli umani, siamo figli.





