Le ragioni dei giovani che vanno sempre meno a Messa
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mercoledì 5 novembre 2025
Le nuove generazioni tendono a considerare le funzioni come noiose e distanti. Servono linguaggi, simboli e percorsi che aiutino a scoprire il senso del rito.
Una delle domande che inquietano quanti si occupano di animazione parrocchiale e di educazione delle nuove generazioni è perché, nonostante tutti gli sforzi, la partecipazione dei giovani alla Messa della domenica è sempre più scarsa, quasi irrilevante. La non partecipazione all’eucaristia domenicale, dopo la celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, di solito è il primo segnale di una presa di distanza che a poco a poco diventa allontanamento definitivo. Vorrei allora dare inizio a questa riflessione dando la parola a una giovane, Chiara, 30 anni, educatrice professionale e animatrice parrocchiale. Riflette sulla sua esperienza della liturgia e su quella dei suoi coetanei, facendo presente in primo luogo che oggi i giovani sono abituati ad abitare tanti luoghi. La loro mobilità rende debole il rapporto con la parrocchia; il loro sguardo che si allarga rende difficile legarsi ad un luogo, perché tutto il mondo diventa spazio da abitare e vivere. Con questa premessa, riflette sul suo rapporto con la liturgia: «Sin da piccoli abbiamo partecipato alle varie funzioni perché qualcuno ci accompagnava, perché era occasione di condividere un momento con i propri coetanei. È arrivato però un momento in cui è stato necessario decidere di partecipare, in modo libero. Dopo questa fase, ne è arrivata un’altra, difficile da definire con una parola. Sembra che non sia necessario partecipare alla liturgia per potersi sentire appartenenti alla Chiesa. Mi chiedo come mai la liturgia finisca facilmente in fondo alla scala di priorità per un giovane…. Provo a pensarlo mentre scrivo. Quanto il linguaggio raggiunge chi partecipa?
Nella teoria è tutto chiaro, ma poi, quando ci si ritrova, spesso le parole si subiscono, non hanno efficacia. Forse perché non c’è la giusta attenzione, forse perché sembra una cosa estremamente distante rispetto alla propria vita, o forse proprio perché, a livello comunicativo, qualcosa manca. O forse tutte queste cose insieme».
Già da queste prime battute si può capire che oggi in genere quando si parla di liturgia si fa riferimento alla Messa della domenica. È ben difficile che vi sia, in una comunità parrocchiale comune, altra esperienza liturgica che quella della Messa della domenica. È quella, soprattutto per i giovani che hanno preso le distanze dalla Chiesa, un ricordo che evoca sentimenti negativi: noia, costrizione, non senso, vecchiezza. Dice un giovane ventiduenne: «Mi annoiavano, mi ricordo che mi annoiavo, che a volte smettevo anche di ascoltare perché mi annoiavo. Associato alla noia vi è un senso di costrizione, di obbligo che urta particolarmente contro la sensibilità degli adolescenti e che ha varie declinazioni: è costrizione da parte di una famiglia che è religiosa o che ci tiene a mostrare di essere praticante, come dice questo giovane: «Ti sentivi obbligato, anche da mia madre e mio padre che mi dicevano «Devi andare, è domenica. È brutto se non vai, perché ci vanno tutti»; è senso di imposizione per far fronte ad un ambiente che tende a giudicare, soprattutto in quei contesti in cui è ancora forte la pressione sociale. Per qualche ragazzo, la costrizione è data dal fatto che la messa è un precetto, dunque strutturalmente un obbligo. Il peso di questo elemento si fa sentire soprattutto quando la messa viene collegata alla catechesi: se vuoi ricevere la prima comunione devi mostrare che hai capito il valore della Messa e che hai imparato a frequentarla. I ragazzi ricordano così il legame tra catechesi e Messa.
Difficili poi da dimenticare certi incredibili errori educativi, come quello di una specie di ‘raccolta a punti’ su quante presenze a Messa un ragazzo o una ragazza hanno totalizzato nel corso del loro percorso catechistico: una forma di controllo che con l’andar del tempo diventa motivo di rabbia, o di ironia. Nel percorso formativo i giovani non sono stati introdotti al senso del rito. Vengono in mente certi passaggi del Piccolo Principe, che è iniziato dalla volpe al rito e che glielo spiega così: ««È ciò che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore» e cita ad esempio il ballo dei cacciatori con le ragazze del villaggio: di giovedì! Ma se «i cacciatori ballassero un giorno qualunque, tutti i giorni si somiglierebbero». C’è una ripetizione che rende un evento uguale e diverso da tutti gli altri. Ma per questo occorre essere ‘addomesticati’, per dirla con il linguaggio di Saint Exupéry. Senza un accompagnamento che aiuti ad entrare nel significato simbolico del rito che si celebra, ogni momento diventa una noiosa ripetizione con poco senso. I giovani fanno notare il peso della ripetizione. La prima parte della messa propone letture che variano, che possono riscuotere un certo interesse, ma la ripetitività delle preghiere eucaristiche è difficile da tollerare. E poi vi è la questione dei linguaggi. Il lessico della liturgia, per certi versi pregnante e per altri fortemente debitore di una cultura antica, contribuisce a rendere incomprensibile un rito che i giovani non percepiscono come tale. Colpisce ascoltare giovani -anche coloro che frequentano la messa della domenica con una certa regolarità- che non citano mai il rito, il suo simbolismo, il legame che esso consente con una dimensione religiosa che introduce in una comunità e ne rende partecipi. Forse si tratta del riflesso, anche a questo livello, dell’abbandono della dimensione istituzionale della religione e della diffidenza dei giovani nei confronti di ogni istituzione. Dice questo giovane ventitreenne: «Il rapporto con Dio, per me, o con un’entità trascendentale superiore, spirituale, è estremamente personale, intimo, legato a noi stessi, e non ha senso che venga regolamentato da qualcuno o che ci siano regole fisse, tipo andare a messa la domenica, il santificare le feste».
Un discorso a parte merita poi l’omelia, tema che è stato messo a fuoco particolarmente in un recente focus group tra giovani credenti. Invitati a esprimere un punteggio da 1 a 5 sull’omelia, si è raggiunta una media di 2,6. Le critiche sono facilmente immaginabili: sono lunghe, noiose, astratte, parlano un linguaggio di altri tempi, non c’entrano niente con la vita e i suoi temi o problemi. Qualcuno poi dice di quanto sia irritante ascoltare omelie dove, magari per allusioni, ci si rende conto che si vogliono colpire persone o situazioni precise: in un contesto comunitario piccolo è possibile decodificare riferimenti impliciti e sentirsene colpiti, talvolta offesi. Non ci si rende conto di quanto numerosi siano i modi per creare distanza dalle persone e interrompere la comunicazione con loro.
E infine: vi sono critiche severe che entrano nel merito dei contenuti: «La messa non è un tribunale per difendere i valori», dice un giovane, partecipante saltuario alla Messa. Si diceva della questione dei linguaggi. Ascoltando il modo con cui i giovani si esprimono parlando della loro esperienza spirituale, si comprende perché i linguaggi della preghiera liturgica - ma si dovrebbe dire anche della comunicazione religiosa in genere - siano percepiti come vecchi e lontani. Del resto, basta pensare a certi canti ancora in voga. Il modo con cui i giovani raccontano l’esperienza religiosa o spirituale ha caratteristiche molto diverse dai linguaggi astratti delle comunità cristiane, delle omelie, delle catechesi. Sono linguaggi che attingono alle esperienze della vita quotidiana e che ne esprimono, in modo certo impreciso ma molto comunicativo e personale, il significato profondo. Impossibile trovare "ricette" che rispondano all’esigenza di dare nuovo significato alle esigenze dei giovani. La percezione del valore della liturgia dipende dal modo con cui si vive tutta l’esperienza religiosa: la liturgia non è la dimensione più esteriore della fede, ma la più sublime. Per entrare in essa occorre aver preso familiarità con il senso del mistero e con una relazione personale e profonda con il Signore Gesù.





