Massimo Cacciari "Tecnologia e intelligenza artificiale a un bivio nella lotta tra distopia e utopia"
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Vicini a creare un essere umano perfetto grazie ai progressi e alla ricerca scientifica, ma i rischi sono tanti.
I progressi nelle ricerche bio-mediche, così come quelli nel campo dell'Intelligenza Artificiale vòlti
a produrre una "machina sapiens" indistinguibile, anche per l'empatia di cui è capace,
dall'intelligenza umana, accrescono con drammatica rapidità la sproporzione tra la potenza del
sistema Tecnico-economico e le forme istituzionali-politiche ancora proprie delle democrazie
occidentali. In altri regimi tale sproporzione può non essere avvertita proprio perché la simbiosi tra
Tecnica e Politica si è in essi già realizzata, chiudendo la "gabbia di acciaio".
La vocazione dello scienziato, che per Aristotele è l'espressione più alta della nostra natura, consiste
nella pura volontà di conoscere. La scienza della natura è anzitutto teoria, scoprire e vedere la
costituzione del vivente, osservarne le relazioni, descriverne l'energia. Ma sempre più, per poter
spingere in profondità il proprio sguardo, lo scienziato avrà bisogno di mezzi, di sofisticati e costosi
strumenti, la sua teoria dovrà collegarsi intimamente al progresso tecnologico, condizionarlo ed
esserne condizionato. E il legame di quest'ultimo con il sistema sociale di produzione, con i
meccanismi economici e di mercato, risulta così inevitabile. Non può più darsi alcuna astratta
autonomia del lavoro scientifico. D'altra parte la stessa scienza contemporanea coniuga l'originaria
vocazione al conoscere in quanto tale alla volontà di possedere e trasformare l'oggetto che si
conosce così da renderlo utilitas per noi. Non dovremmo perciò considerare un destino che la
scienza contemporanea, giunta a comprendere il funzionamento del nostro cervello, sede di affetti e
intelligenza, e il suo legame con l'intero sistema neuro-vegetativo, desideri farne un proprio oggetto
di manipolazione e trasformazione? Tutto ciò che nella sua storia essa ha compreso è stato così
trattato e, per così dire, riprodotto. Come oggetto manipolabile a nostro arbitrio è stata la natura
"esterna" a noi, così ora lo siamo noi stessi.
Quali limiti si possono porre a interventi sul nostro patrimonio genetico?
Quali limiti alla
produzione dell'Homunculus che esce dal laboratorio del Faust goethiano? Oggi non ci sarebbe
alcun ostacolo teorico, e penso pochi impedimenti tecnologici, per "creare" da cellule staminali
opportunamente trattate e fecondate nuovi soggetti umani. Interventi per modificare caratteri
secondari sono all'ordine del giorno e destinati a moltiplicarsi, ma al limite essi possono porsi fin
d'ora il fine di "creare" una persona nuova. Possiamo sostenere, come molti sostengono, che questi
interventi debbono avere il valore di cure, debbono limitarsi, cioè, al trattamento di specifiche
malattie, altrimenti non affrontabili con uguale efficacia. Ma è evidente in quale ridda di problemi e
aporie questa visione conduce. Che cos'è malattia? Quale autorità lo decide? Fin dove è lecito
limitare il libero arbitrio di chi voglia ricorrere a tecniche di manipolazione genetica? Ma il
problema sta ancora più a monte, ed è di natura culturale e politica. La sperimentazione in un
campo di così immensa portata potrà subire intoppi e rallentamenti, l'esperienza storica tuttavia
dimostra ad abbondanza che non potrà mai arrestarsi, in quel laboratorio globale che è ormai il
mondo scientifico, e sempre da essa, se non fallisce, si passerà alle applicazioni. Questi passaggi da
Ricerca a Sviluppo, sotto la spinta di formidabili interessi economici, avvengono oggi con una rapidità inimmaginabile nel passato.
Il mondo contemporaneo vive sospeso tra utopia e distopia, tra una possibile "felicità" e il più
disumano orrore. Potremmo affrontare anche l'incurabile, come precipitare nella più mostruosa
medicina di classe. Rendere un "bene-essere" la nostra esistenza sulla terra, come realizzare incubi
eugenetici, sottomessi alla logica del profitto. L'intelligenza artificiale ha il potere di liberarci da
ogni forma di lavoro meccanico e comandato, come quello di imporre un modello globale, uniforme
di intelligenza, misurato in base alle sue prestazioni quantitativamente calcolabili e alla sua
obbedienza al sistema. Proprio le scienze biologiche e mediche sono più di tutte di fronte a questo
drammatico bivio: la capacità di aver cura della salute della persona nella sua integrità psico-fisica,
di cui esse ora dispongono, viene ogni giorno più duramente attaccata da un modello organizzativo
fondato sulla sostenibilità economica, che vede nel malato una macchina guasta e nel medico un
applicatore di protocolli.
L'universalità del diritto alla salute, conquista di un secolo di lotte
sindacali, promossa anche da vasti settori di medici socialmente responsabili, va franando in
proporzione opposta alla crescita dei saperi e alle concrete possibilità di cura che essi potrebbero
offrire. La "solvibilità" diviene il carattere fondamentale che il malato deve presentare per essere
curato in tempi ragionevoli. E comunque egli non sarà che un caso previsto negli archivi dei Big
Data. La medicina a distanza, condotta essenzialmente da intelligenze artificiali, potrebbe
concludere il processo. La "machina sapiens" che, dicono i suoi apologeti, giungerà a conoscerci
meglio di quanto noi stessi ci conosciamo, sarà non solo la nostra guida di uomini schiacciati sulla
dimensione economica e del consumo, ma anche il nostro medico. Non è però destino che la
distopia si realizzi. Certo, tra le due strade che ci si presentano questa è la più facile. L'inerzia,
ovvero le potenze tecnico-economiche fondamentali di questo tempo, spingono nella sua direzione.
Ma possono esservi ancora scienziati e politici capaci di denunciare il pericolo, di opporre alla
servitù che caratterizza le distopie (la fantascienza contemporanea ne è realistica rappresentazione)
la utopia possibile, concreta della liberazione.
Fonte: La Stampa
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