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José Tolentino de Mendonça "Così possiamo fare della nostra vita un viaggio fecondo"

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«Si tratta di vivere e di realizzare la vita pienamente, senza lasciarla in sospeso». 
Il nuovo libro del cardinale poeta.


Con Semi invece di crepuscoli (Vita e Pensiero, pagine 76, euro 12,00), del quale proponiamo un estratto, il cardinale e poeta José Tolentino de Mendonça riflette sul bisogno di osservare la vita da nuove angolazioni. Prima uscita della collana “Soul”, che intende raccogliere alcuni significativi interventi tenuti durante le varie edizioni dell’omonimo festival milanese di spiritualità, questo libro non rinuncia a riconoscere le difficoltà che affliggono la nostra vita, ma ci ricorda che, partendo dalle cose più piccole, dagli incontri più semplici, possiamo accorgerci che ogni giorno riceviamo semi e opportunità. 

Per guardare alla vita nella sua interezza e con la profondità che essa merita, dobbiamo non di rado trovare nuovi punti di vista, nuove angolazioni e prospettive. La vicinanza offusca, ci restituisce una versione alterata della realtà. 

Viviamo talmente vicino agli eventi, subito catturati dalla loro abbagliante immediatezza, che il nostro sguardo non riesce a vedere il tutto. Vediamo solo parzialmente, come in uno specchio e in modo confuso, come dice l’apostolo Paolo. 

Per questo è opportuno cambiare luogo, spostarci in una nuova posizione, osservare la stessa realtà ma da una visuale imprevista, così da dotarci, tramite questo distanziamento, delle condizioni necessarie per vedere quello che non riusciamo a scorgere da troppo vicino. 

Questo è certamente un lavoro senza interruzioni, da compiere in ogni stagione della nostra vita. Riprendo le parole dello scrittore José Saramago: «Il viaggio non finisce mai. […] Quando il viaggiatore si siede sulla sabbia della spiaggia e dice: “Non c’è altro da vedere”, sa che non è vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre». 

È ciò che fa Gesù, in modo costante, ripetuto, quasi standardizzato, al punto da poter dire che costituisce un suo metodo. 

Personalmente non ho dubbi che si tratti effettivamente di un metodo. Diversamente, è difficile cogliere il senso dell’incessante muoversi di Gesù nei Vangeli. È su una mappa mobile che Gesù sviluppa la sua attività messianica. 

Per gli studiosi dei Vangeli, ad esempio, è una vera croce tentare di ricostruire secondo una logica puramente geografica i continui spostamenti di Gesù sul territorio. Con grande imbarazzo, essi devono riconoscere che non si riesce a tracciare una mappa coerente del girovagare di Gesù. 

Una soluzione a questo problema (apparentemente senza soluzione) è considerare che la chiave del muoversi di Gesù non è una continuità territoriale, geografica, ma l’intima necessità della sua missione che, come sappiamo, si concentra nell’iniziare i discepoli a una nuova visione del regno di Dio che è in mezzo a noi e che non riconosciamo: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: Eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!» (Lc 17,21). 

Il regno in mezzo a noi! Ma con quali sensi accedere alla sua presenza? Con quali occhi riconoscerlo? 

Diceva Marcel Proust che il vero viaggio non è quello che ci porta da un luogo all’altro. Il vero viaggio è quello che trasforma il nostro sguardo. 

È anche di questo che Gesù ci parla: della trasformazione del nostro modo di guardare alla vita, di volerla abbracciare. 

Per annunciare le Beatitudini (Mt 5,1) o per rendere i discepoli partecipi dell’esperienza della Trasfigurazione (Mc 9,2), Gesù li conduce su un monte. Il luogo – questo nuovo luogo dove li porta – è ovviamente importante, perché la montagna facilita una visione sgombra e integrale, non condizionata dalle parzialità che abitualmente circoscrivono il nostro paesaggio. 

Allo stesso modo, per raccontare le parabole Gesù esce dall’abitato e va in riva al mare. 
Non è l’evasione dalla realtà, non è un’esistenza in fuga, quella che Gesù promuove: è anzi il richiamo coraggioso e inequivocabile a guardare meglio alla vita stessa. 

Le parabole realizzano a modo loro, cioè all’interno del linguaggio, un fenomeno simile. 
La parabola è, infatti, una parola che si sposta. Etimologicamente, “parabola” significa questo: indica movimento, gettare il significato più lontano dandogli più respiro rispetto al tipo di discorsività chiusa e insonne di tutti i giorni. 

Le parabole ci aiutano a capire che, così come abbiamo bisogno di andare verso il mare o verso la montagna o verso il giardino o verso qualcosa di esterno rispetto ai nostri punti d’appoggio abituali per respirare meglio, per pulire lo sguardo, anche il linguaggio ha bisogno a sua volta di qualcosa di analogo per diventare significativo. 

Perché abbiamo bisogno di ritrovare un linguaggio che parli della vita e di ciò che la vita è. 

Nel dialogo di Gesù con Nicodemo (quel maestro d’Israele che viene un po’ di nascosto a domandare a Gesù: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?», Gv 3,4), la grande questione verte sul modo di vedere la vita: guardi alla tua vita come a un parto, o la vedi come una morte? 

Qui va operata una coraggiosa conversione. Forse, per la maggior parte del tempo, guardiamo alla nostra vita sentendoci gradualmente morire, e niente di più. 

Nella prospettiva cristiana, invece, siamo chiamati a interpretare la vita come un continuo nascere, come un parto, piuttosto che come un crepuscolo. L’esperienza di fede, in fondo, ci fa confrontare con una parola che sia capace di dire, anche nel suo mistero, nel suo enigma, quello che normalmente non rientra fra le nostre parole di tutti i giorni. 

Perché, invece di parlare dei nostri brevi cammini, del nostro vivere ansimante, della nostra marcia affannosa, di ciò che riusciamo o non riusciamo a fare, del bilancio interiore di ogni giorno…, Gesù parla di sementi. E dice: «Lasciamo perdere questo e quello, chi ha ragione e chi non ce l’ha, chi ha fatto e chi non ha fatto… Lasciamo perdere. Parliamo di sementi». 

Recuperiamo, cioè, il senso originario della vita. Cominciamo a chiederci perché siamo qui. Rendiamoci consapevoli delle ragioni profonde del nostro vivere. Che è una cosa per la quale, a volte, nella lotta, nella battaglia quotidiana, non assumiamo il distanziamento necessario. «Che cosa sono, io, perché mi trovo qui, perché perseguo questa cosa, qual è il mio desiderio?». 

In fin dei conti, le domande profonde emergono solo quando frapponiamo una distanza. 
E allora, al posto di parlare di cose banali, parliamo di semi, dei semi che Dio stesso semina nella nostra vita. 

Ognuno di noi ne riceve tanti! Noi siamo terra, noi siamo questa grande e continua azione di seminare, noi siamo il terreno in cui il seme, in silenzio, cresce. Come nella parabola di Gesù: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (Mc 4,26-28). 

Ma per comprendere tutto questo, serve una metamorfosi dello sguardo

Parlare di semi e di crepuscoli è anche parlare di fecondità e di sterilità. La nostra vita può essere sterile e può essere generativa. 

È una cosa che ben sappiamo nel nostro intimo. Come accade tante volte con il dono ricevuto, sappiamo replicarlo, portarlo più lontano; oppure, della vita non riusciamo a fare vita, ma soltanto stanchezza, tristezza, scoraggiamento. 

Che cosa significa fare, della vita, vita? Che cosa significa essere moltiplicatori, buoni conduttori del dono che ci è dato? 

Questo è possibile quando la nostra esistenza è terra buona. Quando nella nostra vita abbiamo la capacità di costruire un cammino con quanto ci è dato. Quando da una situazione di blocco, da una quotidianità difesa e armata, permettiamo alla semente di dare inizio a una storia. Permettiamo alla semente di essere, appunto, semente, promessa. 

Che cosa deve fare ognuno di noi per passare dalla dittatura del pessimismo alla profondità della speranza, dalla chiusura del cuore alla porosa ospitalità del reale più vivo? 

Sono domande essenziali, che non possiamo rimandare. Non possiamo fare come se non ci fossero. 

Si tratta di vivere e di realizzare la vita pienamente, oppure di lasciarla in sospeso, se non deteriorata; una vita tra le spine e le pietre, una vita che non ha mai trovato la possibilità di essere feconda e piena.


Fonte: Avvenire


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