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Lucia Vantini “I poveri non sono oggetti da salvare ma soggetti di cui la Chiesa e l’umanità intera hanno bisogno”

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Approfondimento di Lucia Vantini, delegata diocesana all’Ambito della Prossimità

Sabato 15 novembre la Chiesa di Verona vivrà il Giubileo diocesano della Speranza e Povertà, in occasione della IX Giornata Mondiale dei poveri.

Non sarà una giornata di beneficenza. Sarà piuttosto una bella occasione per restituire dignità al gesto più semplice e trasformativo che conosciamo: condividere tra noi ciò che ci nutre e che non è di nessuno perché è di chiunque.

Sappiamo che il Giubileo, così come esprime la sua radice biblica, non può esaurirsi nel passaggio attraverso una Porta Santa. Il Giubileo è l’anno della restituzione: dei debiti cancellati, delle terre ridistribuite, della libertà che torna a coloro che l’avevano persa. È l’anno in cui si riconosce che ciò che possediamo non è solo frutto del nostro lavoro, ma anche – troppo spesso – di ciò che abbiamo sottratto, direttamente o indirettamente, alle vite altrui. Il Giubileo è speranza, sì, ma è speranza che si fa giustizia. È il tempo in cui riconoscere che la povertà non è naturale, ma prodotta, e che la carità senza giustizia è consolazione che perpetua l’ingiustizia.

È un modo per porci una domanda essenziale: chi ci manca, quando godiamo dei beni? Che sia l’eucaristia che unisce chi crede in Cristo, che sia il pane che ci sfama, che sia la salute, che sia la possibilità di studiare, che sia la fortuna di essere l’amore, facciamo attenzione a chi non c’è.

In questo orizzonte, alle 12.00 nella Basilica di San Zeno, si ritroveranno più di 300 persone, invitate da diversi gruppi e associazioni, per condividere un tempo di riflessione, testimonianze, preghiera ecumenica e quindi, alle 13.00, il pranzo: una giornata non “per” i poveri, ma “con” chi vive una fragilità e la fa diventare verità del mondo, dignità di ogni creatura, valore della solidarietà.

L’immagine può sembrare provocatoria: un pranzo in Basilica, là dove siamo abituati a celebrare l’Eucaristia. Ma è proprio questo il punto. Gesù immaginava il Regno di Dio come un banchetto in cui vengono invitati non tanto coloro che si sentono destinati, ma coloro che vengono raccolti ai crocicchi delle strade, coloro che non hanno nulla da contraccambiare, coloro che non se lo aspettano. Un banchetto dove salta la logica del merito e del debito, dove le briciole che cadono sotto la tavola – quelle che nella storia della siro-fenicia perfino Gesù all’inizio non vede – diventano il segno di un’abbondanza che chiede sconfinamenti.

A tavola noi siamo ciò che mangiamo, ma soprattutto condividiamo ciò che siamo: storie, abitudini, ferite, speranze. E questo è già celebrazione. Celebrazione della speranza di un mondo in cui nessuno abbia più fame, si senta escluso, sia invisibile, patisca ingiustizia.

La povertà, infatti, non è una fatalità da accettare con rassegnazione caritatevole. È anche – e spesso soprattutto – ingiustizia. È il frutto di scelte economiche, politiche, culturali che producono marginalità. Papa Leone, in Dilexit te, lo dice con chiarezza: la povertà riguarda la storia di Dio con noi, perché il Dio di Gesù Cristo è colui che si fa povero e che chiede di ascoltare il grido delle vite povere e impoverite, per tanti motivi diversi. Leggiamo: 

«Allo stesso tempo, dovremmo parlare forse più correttamente dei numerosi volti dei poveri e della povertà, poiché si tratta di un fenomeno variegato; infatti, esistono molte forme di povertà: quella di chi non ha mezzi di sostentamento materiale, la povertà di chi è emarginato socialmente e non ha strumenti per dare voce alla propria dignità e alle proprie capacità, la povertà morale e spirituale, la povertà culturale, quella di chi si trova in una condizione di debolezza o fragilità personale o sociale, la povertà di chi non ha diritti, non ha spazio, non ha libertà» (DT 9).

Le vite povere sono luoghi di verità e non solo un cumulo di bisogni a cui destinare attenzione e cure. Dilexit te lo dice chiaramente: occorre riconoscere che la realtà si vede meglio ai margini, e che i poveri non sono oggetti da salvare ma «soggetti di una specifica intelligenza» di cui la Chiesa e l’umanità intera hanno bisogno.

Ecco perché questo Giubileo diocesano non è una pausa consolatoria dalla realtà. È un gesto che interroga. Interroga la nostra capacità di immaginare relazioni diverse, dove i confini tra chi aiuta e chi è aiutato diventano più porosi, dove i poveri non sono oggetto di cura ma soggetti di una Chiesa che si rinnova. “Solo la vicinanza che ci rende amici – scrive ancora il Papa – ci permette di apprezzare profondamente i valori dei poveri di oggi. Giorno dopo giorno, i poveri diventano soggetti di evangelizzazione” (n. 100).

Nel pomeriggio, alle 16, al Convento di San Bernardino, il vescovo Domenico Pompili presiederà la Messa aperta a tutta la comunità diocesana. Un passaggio che completa il cerchio, ma lo lascia aperto: dalla tavola condivisa all’altare e ritorno, dall’incontro con i volti alla liturgia che fa memoria del Dio che si è fatto povero per noi, e ritorno alla vita.

San Giovanni Crisostomo diceva che “se i fedeli non incontrano Cristo nei poveri che stanno alla porta, non potranno adorarlo nemmeno sull’Altare”. Non si tratta di retorica. Si tratta di comprendere che la fecondità della fede cristiana passa attraverso questo “sbilanciamento” verso gli ultimi. Uno sbilanciamento che non è buonismo, ma fedeltà al Vangelo.

La giornata è organizzata dai Centri e Servizi dell’Ambito della Prossimità diocesano, con la partecipazione di numerose associazioni che lavorano con la grave marginalità. Un tessuto fatto di nomi, di volti, di progetti che ogni giorno cercano di tenere viva la speranza là dove sembra non esserci spazio.

Perché la speranza non è ottimismo. Non è la certezza che tutto andrà bene. La speranza è la capacità di continuare a credere che un altro mondo sia possibile, anche quando tutto sembra smentirlo. È la testardaggine di chi continua a spezzare il pane insieme, convinto che in quel gesto – piccolo, fragile, apparentemente inutile – ci sia già il Regno di Dio.

Sabato 15 novembre, a Verona, la Chiesa proverà a vivere questa speranza

Non per vanto, non per celebrare sé stessa come Chiesa che cura i poveri. Ma per lasciarsi interrogare, per rinnovare il desiderio di essere “Chiesa povera che cammina accanto alla fragilità di ognuno”. Una Chiesa che non ha paura di sedersi alla stessa tavola, di condividere lo stesso pane, di riconoscere che siamo tutti, in fondo, mendicanti di senso e di amore.

E forse, proprio in questo riconoscimento reciproco, si nasconde la vera rivoluzione. Quella che non fa rumore, ma cambia il cuore. E con il cuore, il mondo.   

 


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