Rosanna Virgili “Core de ‘sta città!”
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Lunedì 22 settembre 2025
È un verso di una canzone di Antonello Venditti che inneggia alla squadra della
Roma – che peraltro ha vinto anche l’ultimo derby! – ma io lo uso per parlare
del cuore della bella Roma, della figlia Roma, della madre Roma, della massaia,
della ristoratrice, della maestra Roma, dell’ospite che lava i piedi a tutti i
pellegrini di ogni luogo e ogni tempo, facendo come può, così alla buona...
talvolta affaticata ma senza smettere mai.
Ieri l’ho vista, ieri Roma s’è proprio spogliata della sua veste ironica, spesso beffarda o indifferente, neghittosa pure a dirti quello che pensa, e s’è mostrata pura nel suo cuore aperto, commosso, gli occhi lucidi di lacrime e la fronte sicura della sapienza di chi dice “basta” e non teme alcun dominatore, alcun tentativo di essere messa a tacere.
Un Tevere di voci, di volti, di mani miti, di piedi decisi come quelli della
Madonna che corre da sua cugina Elisabetta, per i monti di Giudea (cf. Lc 1,39)
Con un “peso” di responsabilità nel grembo – una gestazione incipiente – che
nasconde, però, parimenti a quello di Maria, un “peso” di speranza, di volontà,
di determinazione al dovere di liberare il buon senso, la dignità, l’eredità di chi
ci ha preceduto, la ragionevolezza, la civiltà, la sacralità dell’umano, della
fratellanza e della vita. L’imperativo morale di restituire la pace e la bellezza al
mondo. L’urgenza di far qualcosa, d’essere partecipi, di fermare la Bestia che
macina morte, di salvare chi grida, di tendere il petto alle creature inermi.
Piazza dei Cinquecento ieri mattina ondeggiava di bontà, di sorrisi senza
rancore, di inclusività, di forza, di certezza di non essere affatto impotenti
rispetto alle menzogne di giornali e tivù e tanto meno rispetto ai “troni”
complici di Netanyahu, quelli delle pastarelle/passerelle di Mara Venier che
venivano denunciati per la gravità della loro volgarità. Per la distanza dalla gente
e la noncuranza verso il bene di chi son chiamati a servire.
La piazza era tutta Roma divenuta un abbraccio, ossigenata dall’ansia di
giustizia e di libertà delle migliaia di ragazzi e ragazze, studenti e lavoratori, dai
bambini ai trentenni, che la reclamavano per sé e per i propri coetanei di Gaza.
Non avevo mai visto una “piazza” simile a questa neppure durante le
manifestazioni per la pace che numerose si sono svolte anche recentemente a
Roma. Il cuore che batteva ieri intorno alla Stazione Termini era piuttosto
quello che fino a qualche mese fa, pulsava in Piazza San Pietro, con Papa Francesco. Sia quand’era vivo - i suoi gesti oltre alle sue parole che arrivavano
a tutti.. - sia durante i suoi funerali. Lì c’era davvero “il core de sta città”:
credente e non credente, colorata, multipolare, “cattolica”, meticcia, come
quella di Pentecoste, fatta di “Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della
Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell'Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell'Egitto
e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e
Arabi” (At 2,9-11). Il cuore vero di Roma è un intreccio spirituale, un coacervo
d’amori tenuti in ordine dalla pietas per i vivi!
Ieri non c’erano comizi da applaudire, né partiti da seguire, la voce era di carne,
era l’umanità “culturale” di questa città. Siccome qualcuno ha detto
recentemente che non si sa cosa sia un bambino (l’orrendo “definisci
bambino”) provo a “definire” come mi è apparsa l’umanità romana che ho
sentito ieri. Inconsciamente, forse, esprimeva le sue origini mitiche, quelle di
Enea: un profugo di guerra, un perdente, un poveretto che da Troia deve
scappare per sopravvivere. È lui l’anti-eroe ideale e primigenio e non Cesare
Ottaviano Augusto! La Roma genitrice è generata da residenti “pericolosi”
come Aquila e Priscilla, una coppia di ebrei che fu espulsa dall’Urbe con l’editto
che Claudio nel 49 dopo Cristo (cf. At 18,1ss.). La Roma generata da Paolo,
persona sospetta e minacciata di morte a Gerusalemme, il quale risiedeva in un
monolocale preso in affitto, agli arresti domiciliari e in attesa di giudizio durante
tutta la sua permanenza. Un luogo piccolo ed intimo ma sempre pieno di gente,
di giudei e gentili, dove si discorreva solo d’amore e si insegnava ad amare i
nemici oltre che i propri amici. La Roma il cui DNA viene dalla grande sapienza
dei Greci di cui disse Orazio: “Grecia capta ferum victorem cepit”. La Roma sconfitta
della caduta dell’Impero d’Occidente che – nei monasteri benedettini – cambiò
il nome dei barbari da “nemici” in “fratelli” e dal loro connubio fu generata
l’Europa, dove viviamo ancora.
Il “core di questa città” continua a battere col sangue mescolato e “impuro”
dei lontani, dei naviganti, degli straccioni e degli stranieri, dei saggi e dei martiri,
a dispetto di chi pensa che, invece, sia l’odio e la guerra a dover ispirare
promesse di futuro all’Occidente. Che si debba ancora solo e soltanto erigere
muri, colonizzare la terra – che è di Dio! - ed effondere sangue innocente. Si
sbagliano e hanno la vista corta, vittime della voragine della loro ignoranza, di
una tragica e cinica follia.
La Roma della Piazza dei Cinquecento è quella delle nostre figlie e dei nostri
figli che sanno meglio di noi cos’è l’umanità e ieri l’hanno gridato civilmente
nelle piazze italiane: “Sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano”
citando il grande poeta Terenzio.
Non è mancata una voce della Chiesa ma non è stata quella degli accademici in
Teologia o Scrittura – come ci si poteva aspettare dalla città delle prestigiose
Università Pontificie – ma la voce dei preti, dei parroci, mite e forte, fraterna,
paterna e materna, voce per i figli e le madri di Gaza e porta-voce di tutti noi
laici cattolici, praticanti e non, ma bisognosi di chi sostenga il nostro dolore
dinanzi all’orrore che vediamo: “le nostre comunità sono stupite di come non si faccia
niente...vogliamo metterci la faccia e chiedere insistentemente basta con le bombe basta con
la violenza” ha detto, intervistato, uno di loro. “Ci stiamo esponendo in modo pubblico
per parlare di questo genocidio in un momento in cui la politica fa la forte con i deboli ed è
debole con i forti” ha spiegato un altro. “Noi non abbiamo chiesto il permesso al Vaticano
perché non si chiede il permesso per vivere il Vangelo”, ha detto un altro ancora. A chi
gli ha chiesto: “auspica che il Papa si rechi insieme a Pizzaballa a Gaza per sfidare con
i propri corpi il genocidio?” un sacerdote ha risposto con un largo sorriso: “Sì! Me
lo aspetto!”. Un gesto forte che aspettiamo tutti! Un gesto indispensabile. Segno
della sequela di un Dio che, prima ancora di incarnarsi nella miseria umana,
scese dal cielo e andò nelle suburre degli schiavi ebrei minacciati di genocidio
in Egitto, come racconta il libro dell’Esodo (cf. Es 2,23-25).
Stupendi questi nostri amici sacerdoti, per noi cristiani padri, fratelli ed anche
figli amati, nella loro umiltà e parresìa, ci hanno testimoniato il volto di una
chiesa che riflette le sue origini, quando “coloro che venivano alla fede erano un cuore
solo e un’anima sola” (At 4,32). Ci hanno fatto sentire finalmente fuori dal ghetto
di una chiesa della prudenza ancora pavida dentro le sacrestie e separata dal
mondo. E quindi da Dio che abita senz’altro nei quartieri meno illuminati delle
nostre città e senz’altro in quelli sventrati di Gaza.
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