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Massimo Recalcati "I leader del mondo e il potere che si fa religione"

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 3 Settembre 2025 

Da Trump a Putin, da Netanyahu a Hamas, quello che ritorna non è un Dio che scuote e interroga le coscienze, ma il suo rovescio mostruoso: un Dio ridotto a essere uno strumento ideologico.

Il declino delle religioni è considerato una cifra significativa del nostro tempo. Lo scientismo da un lato e l’affermazione incontrastata di una concezione edonistica della vita dall’altro avrebbero relegato la religione a una forma di superstizione oscurantista. 
Eppure nel nostro tempo non possiamo non constatare come la religione, proprio nei suoi aspetti più fondamentalisti, sia ritornata prepotentemente sulla scena. Al centro non è certamente la dimensione spirituale della religiosità, ma il nesso pre-illuminista che aveva vincolato strettamente la religione al potere. 
Quello che ritorna non è un Dio che scuote e interroga le coscienze, ma il suo rovescio mostruoso: un Dio ridotto a essere uno strumento ideologico del potere. È questo il denominatore comune che unisce figure politiche distanti tra loro quali sono quelle di Donald Trump, Vladimir Putin, i leader di Hamas, Benjamin Netanyahu e i suoi ministri che sostengono il massacro inaccettabile di Gaza insieme alla colonizzazione selvaggia delle terre palestinesi. In evidenza è il ricorso a Dio come sostengo inossidabile della politica, della follia della guerra o della propria affermazione personale. 
Si tratta di un uso perverso della religione che storicamente non è affatto nuovo. Per questo il luterano Dietrich Bonhoeffer ricordava criticamente che Gesù non è venuto a chiederci di aderire a una nuova religione, ma alla vita. 
Il richiamo continuo di Putin ai valori della tradizione e alla fede ortodossa, a Dio come garante della Santa Madre Russia che benedice i suoi confini e i carri armati santificando l’annientamento dell’Ucraina nazista e corrotta dall’Occidente, mostra la religione non tanto come antidoto dell’odio e della violenza ma come un suo terrificante amplificatore. Trump mobilita un’altra Chiesa: non quella istituzionale, ma quella dei patrioti, degli eletti, dei veri americani. Il suo Make America Great Again ha i caratteri del mantra religioso, è un appello a un’età dell’oro perduta da riconquistare. 
La sua fede è performativa, il suo Dio è colui che lo riconosce narcisisticamente come esso stesso divino in una sorta di delirio megalomanico a due. La reazione alla cultura liberal avviene anche in questo caso attraverso la difesa orgogliosa dei principi fondamentali della tradizione che trovano in Dio il loro fondamento ultimo. Si tratta di forme di religione, come direbbe Kierkegaard, antispirituali: Putin non invoca Dio per elevarsi spiritualmente, ma per scavare un fossato tra la «civiltà russa» e «l’Occidente decadente». 
La sua, come quella di Trump, è una religione della purezza etnica e culturale, un’arma identitaria che esige la vittoria sui nemici. In Medio Oriente la dinamica è ancora più tragica. I leader di Hamas e Netanyahu giocano la stessa partita sul corpo straziato dei loro rispettivi popoli. 
Da una parte un Islam delirante ridotto a una ideologia della violenza e della morte, dove il martirio terrorista viene invocato come l’unica forma di vita degna di essere vissuta contro l’oppressore: nei loro discorsi i leader di Hamas più che legittimare il diritto alla resistenza del popolo palestinese inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele. 
Dall’altra parte un sionismo trasformato in nazionalismo messianico che trasfigura la Terra Promessa in una fortezza da difendere mediante l’espansione cruenta e illegittima, giustificata per diritto divino. In entrambi i casi l’evocazione di Dio risponde alla finalità perversa di esercitare la violenza della distruzione senza rimorso in quanto compiuta nel nome del Bene. La fede religiosa qui non pacifica, non unisce, ma divide e uccide. In questo schema non c’è spazio per il dubbio, per la domanda, per la parola. 
Siamo di fronte all’architettura fanatica di un’identità senza alterità, dell’Uno-tutto che esclude l’incontro con il Due. Il fondamentalismo religioso fornisce la cornice sacra e inviolabile a questo schema. Dio non è più colui che preserva il comandamento “non uccidere”, ma è colui che, in un cortocircuito perverso, legittima l’uccisione nel suo nome. Non a caso la Bibbia non accusa mai l’ateo, ma solo l’idolatra poiché conosce bene dove può portare la pretesa religiosa di essere proprietari esclusivi della verità. Quando Gesù, al termine della tremenda notte del Getsemani, viene aggredito e arrestato dai soldati e un suo discepolo cerca di difenderlo alzando la spada, egli interviene interrompendo la lotta, come se dicesse, con grande chiaroveggenza, è il caso di dire, “nessuna guerra di religione in mio nome!”. 
Trump che sovverte le norme democratiche, Putin che perseguita il dissenso interno rafforzando il proprio potere personale, Netanyahu che mina la Corte Suprema e scatena una guerra immonda contro un popolo inerme, Hamas che impone, sempre nel nome di Dio, la sua legge con la violenza, innanzitutto al popolo palestinese. In questa strana congiuntura storica la religione non è più, come riteneva a suo tempo Marx, «l’oppio dei popoli» che alimentando la credenza illusoria in un mondo aldilà del mondo, depotenziava le istanze critiche di cambiamento, ma diviene un combustibile micidiale che scatena un odio perpetuo. 
Non serve a pacificare ma a eccitare, a mobilitare le masse non verso un ideale di giustizia e di pace ma verso il godimento di sentirsi dalla parte giusta della storia, il godimento della distruzione del proprio nemico umiliato e annientato. È un tunnel senza uscita. 
Sarebbe invece necessario uno sforzo collettivo estremo. Lo ammoniva a suo tempo il cardinale Martini: «Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta». 


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