Massimo Recalcati "Se la scuola non è tutta da buttare"
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15 Settembre 2025
Le decisioni ministeriali sul divieto di usare il cellulare, sul voto in condotta e sulle poesie a memoria sono lette ideologicamente. Ma è in classe che scopriamo il limite.
La caratteristica di fondo di una mente democratica è quella di non fare dipendere il giudizio sul contenuto di una opinione da chi la sostiene. In un dibattito epistemologico degli anni Settanta era ciò che spingeva Althusser a separare nettamente la scienza dall’ideologia. Nel nostro Paese questa condizione è spesso disattesa, soprattutto se ciò concerne il dibattito politico e le sue fazioni.
È il caso di alcuni dei provvedimenti annunciati dal nostro
ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara, segnatamente
quelli che valorizzano il voto in condotta, vietano l’uso degli smartphone in
aula e reintroducono l’apprendimento a memoria delle poesie. La reazione
a questi provvedimenti è stata tanto immediata quanto rigidamente binaria:
da una parte coloro che applaudono ad un ritorno dell’autorità perduta,
dall’altra quelli che denunciano una deriva repressiva, un richiamo
nostalgico a un passato disciplinare definitivamente superato. È un esempio
della evidente immaturità democratica che condiziona i dibattiti pubblici nel
nostro Paese. Il punto, infatti, non è chiedersi se queste misure siano
“conservatrici” o “progressiste”, ma interrogarsi sul loro valore simbolico.
Se la Scuola non può essere solo un luogo di trasmissione asettica di nozioni
da acquisire, ma dovrebbe avere come compito primo quello di accendere il
desiderio di sapere favorendo la formazione singolare della vita,
introducendola al valore civile della cittadinanza, i tre provvedimenti messi
in opere dal Ministro non contraddicono affatto questa visione. Essi ci
ricordano che uno dei compiti principali della Scuola è quello di favorire
l’acquisizione del senso umano della Legge: non tutto è possibile. È il valore
che deve giustamente riacquisire il voto in condotta.
Invocare in questo caso
una deriva repressiva è un errore e un anacronismo storico la cui matrice
filosofica si può trovare nelle tesi di Foucault che assimilavano la Scuola
alle istituzioni disciplinari come le fabbriche o le prigioni. Il nostro tempo
ha rovesciato clamorosamente questo paradigma.
Qualunque insegnante lo
può facilmente testimoniare. Il problema non è più quello della Scuola come
luogo di un esercizio autoritario e sadico del potere, non è più quello di una
obbedienza che annulla il pensiero critico, non è più la Scuola come
“apparato ideologico di Stato”. Tutto il contrario. La Scuola è divenuta il
luogo del caos e dell’indisciplina permanente, di un bullismo rovesciato
esercitato da famiglie e allievi nei confronti degli insegnanti divenuti
oggetto di umiliazione.
In questo senso il voto in condotta non è affatto un
residuo arcaico da cancellare ma un richiamo essenziale al fatto che la
formazione del soggetto non si riduce all’acquisizione di competenze, ma
riguarda innanzitutto il suo rapporto con l’altro, con la comunità e con il
senso di responsabilità personale. Allo stesso modo, il sequestro temporaneo
dello smartphone non va interpretato come gesto punitivo fine a se stesso,
ma come una necessaria castrazione simbolica che allontana il soggetto in
formazione dalla presenza costante di un oggetto che rischia di ingombrare
il suo pensiero se non di impedirne addirittura l’esistenza. Affinché vi sia
desiderio di sapere vi deve essere esperienza di separazione, di
decongestione dello spazio cognitivo, di distanza. Senza la cornice di un
limite, il desiderio si confonde con il capriccio o con la schiavitù di una
connessione perpetua.
L’attenzione viene assorbita da un oggetto
psicotecnico che non allarga l’orizzonte del mondo - come potrebbe
accadere nel suo uso più adeguato -, ma lo sostituisce. Io stesso quando
scrivo o studio mi devo imporre di spegnere il mio smartphone. Non è
dunque solo un problema dei nostri figli, ma del nostro tempo. Lo
stordimento dello scrolling non risparmia nessuna generazione. Non è forse
giunto il tempo di trasmettere un segnale? Un gesto che provi ad
interrompere la dittatura della connessione permanente, il regime della
distrazione psicotecnica? Il pensiero, il quale per attivarsi esige vuoto,
assenza, sconnessione. Ma le poesie a memoria? Che bisogno c’era?
Davvero ne sentivamo la mancanza? Nostalgia per la Scuola fascista?
Daniel Pennac, che non può dirsi certamente un reazionario, ne ha esaltato
le virtù. Non si tratta di un semplice allenamento cognitivo, ma di una
immersione nel grande fiume della nostra cultura e della nostra lingua.
Imparare a memoria significa riconoscere una appartenenza, portare dentro
di sé parole che possono costituire un tesoro per la nostra stessa vita. Infine,
un capitolo a parte bisognerebbe dedicarlo al tema del “merito”. Si tratta di
una parola molto spesso a sinistra fraintesa ideologicamente e, dunque,
demonizzata. Lo stesso di quello che accade con la parola “sicurezza”. Sono
due parole che viste con il paraocchi dell’ideologia vengono considerate
come maschere della discriminazione e della repressione. Eppure i Padri
costituenti avevano menzionato il merito nell’articolo 34 in chiara
alternativa al sangue e al censo. E non a caso.
Il merito, per loro, non era la
legge barbara della competizione selvaggia, ma il riconoscimento che
l’impegno, la dedizione allo studio e il talento andassero premiati. Cosa c’è
di osceno in questo? Non accade anche nelle migliori famiglie? Non si tratta
di dare il via libera ad uno spirito ciecamente competitivo – di distinguere i
vincenti dai perdenti - ma di valorizzare le vocazioni singolari qual esse
siano. I cosiddetti intelligenti “per natura” non hanno alcun merito. Il merito
coincide con la tenacia, con la capacità di misurarsi con i propri limiti e di
trasformare l’ostacolo in occasione, con l’insegnamento che si può trarre
ogni volta dal proprio fallimento. È la perseveranza, non il talento innato,
che rende l’educazione un’avventura etica. Nel criticare con dolcezza, ma
anche con severità, la Scuola di Barbiana di don Milani, Pasolini metteva in
guardia dal rischio di ridurre la Scuola a un egualitarismo che cancella le
differenze, che appiattisce tutto in nome di una falsa democrazia. Ma,
soprattutto, metteva in guardia dal rischio di ritenere che la cultura non esiga
impegno, costanza, studio, applicazione. Una buona Scuola se vuole
davvero essere inclusiva deve favorire questa cultura senza trascurare il
ritmo singolare dell’apprendimento, senza, cioè, tagliare fuori chi corre più
piano.
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