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Mariapia Veladiano "Pedofilia nella Chiesa, non c’è male più grande"

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giovedì 18 settembre 2025 
intervista a Mariapia Veladiano 
a cura di Eugenio Giannetta


Il nuovo romanzo a Pordenonelegge: «È un tradimento radicale di chi è chiamato a essere espressione dell’amore di Dio, finendo poi per cancellarne il volto. Ma amore è rendere giustizia alle vittime».

Con la forza della sua scrittura diretta e incisiva, Mariapia Veladiano torna in libreria con Dio della polvere (Guanda, pagine 192, euro 18,00), un romanzo che affonda lo sguardo in una ferita profonda, quella degli abusi e del silenzio che li circonda. Filosofa e teologa, già Premio Calvino e finalista allo Strega con La vita accanto, Veladiano ha sempre intrecciato nei suoi libri la capacità narrativa con un’urgenza etica, con una riflessione intima e un’attenzione particolare al mondo. Al centro di questa storia da una parte c’è Chiara, fisioterapista, donna di fede e di cura; dall’altra un vescovo, uomo «perbene» ma forse non abbastanza per il ruolo che incarna. E poi c’è la voce di una vittima, Luna, che li porta a misurarsi con responsabilità personali e istituzionali, con il peso della verità e l’imperativo della giustizia. Presentato a pordenonelegge stasera alle 18.30, Dio della polvere è un atto di coraggio e testimonianza, in cui fede e parola letteraria si intrecciano per esprimere con chiarezza che «la giustizia è nelle nostre mani». 

Come è nato ed è stato costruito Dio della polvere? «Sono credente, ho studiato teologia, ho 65 anni e nel tempo ho visto e letto molto, raccolto informazioni, dialoghi. C’era il problema della forma. Volevo raccontare senza nessuna morbosità. Alla fine la forma di un dialogo fra una donna e un vescovo mi è sembrata la soluzione. È stata fondamentale la rivista “Il Regno”, alla quale collaboro, perché da sempre segue con competenza e sistematicità la realtà della pedofilia nella Chiesa. Le sono molto grata». 

Nel libro la fede non sembra mai essere contrapposta alla ricerca della verità, anzi: sembra esserne la forza motrice. È così? Che rapporto c’è tra fede e verità? «La fede ci porta in dono una certa libertà dalla paura. La compagnia del Signore dà il coraggio di accogliere qualsiasi verità, anche quella che minaccia la fede stessa. La pedofilia nella Chiesa non è una fra le tante debolezze della fragilità umana dei preti. È un tradimento radicale rispetto alla vocazione stessa della Chiesa, che è espressione dell’amore di Dio. Ma in questo crimine la cosa più grave è insabbiare, nascondere, perché chi lo fa sta dalla parte del violento e abbandona la vittima». 

La frase centrale del libro – «c’è qualcosa che dipende da noi, ed è rendere giustizia» – sembra una chiamata a uscire dal silenzio. Secondo lei, perché è così difficile ancora oggi nominare il male e affrontarlo? «In generale, perché a volte il male non lo vediamo proprio più. La violenza verbale è socialmente accettata. Quella fisica quasi non la sentiamo così grave. La violenza dei rapporti gerarchici è esibita come orgoglio, una prova di essere potenti e fuori dalle regole. Nel caso della pedofilia nella Chiesa agiscono altri fattori. Un’educazione a una “sacra cecità” nei confronti delle azioni pur gravi del clero. C’è una adulterata mistica dell’elezione che vorrebbe giustificare l’ingiustificabile. In realtà rendere giustizia alle vittime mi sembra il grado minimo dell’amore». 

Leggendo il suo libro mi è tornata in mente una poesia di Primo Levi intitolata Polvere. Ne riporto alcuni versi: «Quanta è la polvere che si posa / Sul tessuto nervoso di una vita? / La polvere non ha peso né suono / né colore né scopo: vela e nega, / Oblitera, nasconde e paralizza; / Non uccide ma spegne, / Non è morta ma dorme. / Questo mantello grigio e senza forma: / Contiene il male e il bene». «Non la conosco e forse dovrei, in effetti. È molto interessante. È vero che la polvere conserva e nasconde il tempo che la genera. La Bibbia racconta che la polvere diventa vita per l’azione di Dio che destina alle realtà eterne l’uomo tratto dalla polvere. Nel romanzo la protagonista contesta una mistica della polvere che ha mortificato nei secoli questo progetto di Dio». 

Il suo non è un libro “contro” la Chiesa ma, piuttosto, un richiamo al suo cuore evangelico. Nel romanzo emerge l’idea che la giustizia sia possibile solo se ci si assume un rischio personale. Che cosa significa tutto questo per la comunità ecclesiale di oggi e di domani? «Vuol dire che siamo responsabili rispetto a tutto quello che possiamo fare per il Regno di Dio e la giustizia. C’è un’idea diffusa, e per me francamente tremenda, che l’essere buoni cattolici significhi essere moderati, concilianti, un po’ buonisti e comunque obbedienti a qualsiasi forma di potere nella Chiesa. Ma il battesimo ci rende tutti responsabili, per cui se stiamo in silenzio di fronte all’abuso di fatto lo moltiplichiamo. Poi abbiamo questa schizofrenia spirituale di ammirare quelli fra i cristiani che escono dalle righe, ma come eccezione. Nella fede cristiana siamo eccezioni, siamo capaci di fare la differenza non per merito ma perché l’esito del nostro agire giusto è garantito. Da Dio».

C’è un passaggio nel libro in cui evidenzia bene il modo in cui la violenza possa avere diverse declinazioni e diversi risvolti anche etici, morali, umani: «Gli abusi – chiede il vescovo – sono anche altrove, perché quelli della Chiesa dovrebbero essere più importanti?». E gli viene risposto: «Tutte le violenze sono importanti, ma voi pretendete di incarnare l’amore di Dio! La violenza che viene dalla posizione di potere è intollerabile. Quella che avviene in nome di Dio è una morte anticipata perché, se ci tradisce anche Lui, Signore da chi andremo?». «La pedofilia del clero è una violenza operata da chi agisce in nome di Dio. Questo tipo di violenza distrugge la fede e corrompe l’immagine di Dio. È tremendo. Per questo la Chiesa è chiamata a stare dalla parte delle vittime sempre». 

Come ha costruito la figura del vescovo? «Non è un archetipo. Ho vissuto dialoghi molto vicini a quelli del romanzo. Con tante persone del clero, vescovi e no». 

Il tema del corpo le è caro (anche in altri testi). Nel libro scrive: «Chi ci violenta il corpo ci sottrae l’anima». Come si costruisce un personaggio che “parla” principalmente attraverso il corpo? «Nel caso di questo romanzo, attraverso una professionista che tratta il dolore del corpo. Chiara è una fisioterapista, figura che accompagna per lungo tempo, sta accanto, ascolta e tocca il corpo. Una figura riparatrice che tocca il corpo è un buon interprete». 

In che modo, nella scrittura, la fede le dà strumenti ma anche limiti? «Lo sguardo sul mondo e soprattutto sulle persone è tutt’uno con ciò in cui credo e quindi con la mia fede. Mi interessa raccontare chi non ha voce, non è visto». 

Come crede che evolva o si confronti un cammino di fede in momenti in cui arriva un confronto con il male? «Credo che quando il male ci colpisce possiamo soccombere oppure accoglierlo come parte della nostra vita e farlo diventare sapienza. Sono esiti della nostra umanità, entrambi. A noi sta non lasciare solo chi è colpito dal male. Nel caso della pedofilia, una Chiesa che fin dalla prima notizia di reato, per usare un termine freddo, dicesse alla vittima “io sono con te, al tuo fianco per ottenere giustizia”, ecco, questo farebbe la differenza. Tutte le testimonianze lo dicono». 

Secondo lei in che misura può esserci spazio per il perdono? E che tipo di perdono, se c’è, può esserci dopo un abuso? «Penso che nelle nostre mani ci sia la giustizia. Il perdono per la violenza sui bambini e le bambine è qualcosa che riguarda solo le vittime e viene insieme alla giustizia».


Mariapia Veladiano

Mariapia Veladiano, scrittrice, laureata in filosofia e teologia, ha lavorato per più di trent’anni nella scuola, come insegnante e poi come preside. Collabora con la Repubblica e con la rivista Il Regno.


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