Mail


Post-teismo: pensare Dio diversamente

stampa la pagina
La corrente teologica detta «post-teismo» o, come alcuni preferiscono, «trans-teismo», è fiorita essenzialmente in ambiente cattolico e in lingua spagnola. Da qualche anno, va sviluppandosi anche in Italia a opera di teologi come il gesuita Paolo Gamberini, Paolo Scquizzato, della biblista Annamaria Corallo e altri. 

Pur essendo un movimento composito, dalle sensibilità e posizioni molteplici, esso condivide alcune tesi essenziali, la prima delle quali si fonda sulla convinzione che l’immagine teistica di Dio, da una parte, non sia più credibile oggi e, dall’altra, sia dannosa per lo sviluppo di una spiritualità adulta. 

La rappresentazione di Dio come Essere soprannaturale e onnipotente, che crea e governa il mondo con i suoi misteriosi disegni e con interventi miracolosi, appartiene, sostengono i «post-teisti», a un orizzonte culturale premoderno e prescientifico e, per questo, non è più credibile né creduta da grandi masse di persone: Unbelievable (Incredibile) è il titolo di un libro di successo del vescovo episcopaliano John Shelby Spong, a cui i «post-teisti» spesso si ispirano. 

Il Dio del teismo 

Il Dio del teismo è un Dio di cui si predicano una serie di qualità, sintetizzate nei dogmi, e a cui si attribuiscono rivelazioni e volontà di cui è depositaria l’istituzione ecclesiale: un Dio, insomma, oggetto di una serie di credenze da prendere per buone d’autorità, nonostante il recalcitrare dell’intelligenza. 

Questo modo di concepire il divino ha finito per confondere la fede con l’adesione a credenze ovvero, in sostanza, con una forma di sottomissione della ragione, che oggi è percepita da molti come inaccettabile; oltretutto una concezione che rischia di nutrire una spiritualità della dipendenza, invece che favorirne una adulta e matura. 

Non è un caso che, pur nella loro diversità, tutti i «post-teisti» condividano frequenti riferimenti alla cosiddetta «mistica», in particolare a Meister Eckhart, sempre citato: e si capisce il perché, posto che non c’è autore cristiano che più di lui abbia fornito gli strumenti per superare l’immagine teistica di Dio. 

Il maestro renano, infatti, distingueva tra Deus, il Dio di cui si predicano attributi, concepito come personale, creatore e trascendente, e Divinitas, l’essenza divina stessa, che è al di là di ogni concetto e di ogni possibile rappresentazione – per questo detta anche «nulla» – che è impersonale, immanente e trascendente allo stesso tempo: il primo è, per così dire, il volto del divino come si mostra all’uomo religioso, ma a cui il cammino spirituale non si arresta, perché occorre andare oltre, per giungere, attraverso il totale distacco dall’io, al fondo dell’anima, laddove si sperimenta che «io» e «Dio» sono un tutt’uno. Si tratta appunto di quell’unitas spiritus che, a parere di Marco Vannini, scomparirebbe nel «post-teismo», in cui il polo divino sarebbe negato. 

Dio e l’io: una cosa sola? 

Eppure, è comune ai «post-teisti» la critica a un elemento che il teismo porta con sé, ovvero il dualismo, che vorrebbe l’uomo da una parte e Dio dall’altra, e così natura e soprannatura, e via dicendo; e, proprio nella mistica, essi rintracciano, all’unanimità, una chiave essenziale per superarlo, perché, a differenza della metafisica tradizionale, l’esperienza dello spirito vede che le contraddizioni si tengono, per cui, ad esempio, non è né un’assurdità né una bestemmia affermare che Dio e l’io sono una cosa sola. 

Per questo, i già citati Gamberini e Scquizzato, ma anche José Arregi – il maggior «post-teista» di lingua spagnola – attingono anche alla filosofia indiana dell’advaita vedanta: si tratta di un pensiero che si dipana all’insegna della «non-dualità», che è un modo diverso, forse più consono a orecchie contemporanee, di dire l’unitas spiritus. 

Afferma ad esempio Paolo Gamberini, nel suo Deus 2.0 (Gabrielli, 2022), dopo un excursus che passa per l’advaita vedanta, ma anche per Agostino, Eckhart, Caterina da Genova: «Colui che vede Dio non vede più sé stesso e Dio come aliud, ma sé in Dio… Tutto diventa teofania e incarnazione di Dio nel mondo… colui o colei attraverso cui Dio appare non può che essere puro nulla, vacuità pura, lasciar essere senza alcuna determinazione, perché solo così quell’altro che è Dio appare per quello che è [per costui o costei]: non aliud». 

Nel panenteismo di Gamberini, da lui detto «monismo relativo», il dualismo Dio/uomo è superato, ma senza giungere ad alcuna negazione di Dio; anzi, chi deve annullarsi nel distacco da sé è il piccolo io dell’uomo – come insegnano i mistici – affinché traspaia Dio. 

Paolo Scquizzato, da parte sua, sostenendo proprio con Vannini che il cristianesimo debba essere mistico per incontrare la propria profondità e non ridursi a superficiale credenza, scrive: «La fede [per il cristiano mistico] è esperienza dello Spirito nello spirito. Il credente afferma una verità… il mistico non conosce, esperisce l’unione e basta, fa solo l’esperienza dello Spirito» (Prefazione a Aa.Vv., Oltre Dio, Gabrielli, 2021). José Arregi, infine, qualche anno fa intervenne a difendere sé stesso e gli altri autori di uno dei primi volumi «post-teisti» (in italiano Oltre Dio. In ascolto del Mistero senza nome, Gabrielli 2021) dall’accusa di ateismo che era stata mossa loro dal teologo José María Castillo. Sintetizzava così la loro posizione comune: 

«Noi pensiamo che Dio, Mistero o Presenza o Realtà fontale, è oltre l’opposizione espressa dai termini “trascendente”/“immanente”, oltre, di conseguenza, il monismo panteista e il dualismo teista. Per esempio, “in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” che gli Atti degli Apostoli mettono in bocca a Paolo nell’Areopago di Atene (At 17,28) esprime trascendenza o immanenza? O quando san Giovanni della Croce afferma che “Dio è la sostanza dell’anima” vuol dire trascendenza o immanenza?».

Un tentativo di salvare Dio? 

A-teismo sì, dunque, nel senso di non teismo (segnalo che ci sono anche gruppi di teologi, per esempio in Canada, che chiamano la loro ricerca non-theistic christianism), ma non certo ateismo tout court: anzi, se vogliamo, il «post-teismo» nasce proprio per salvare Dio dalla sua definitiva scomparsa dalla scena! 

È un tentativo, ancora in nuce, di rileggere e ridire il nucleo essenziale del cristianesimo attraverso i nuovi paradigmi conoscitivi attuali, perché non scompaia del tutto e anzi risorga, forse in forma inedita ma conservando tutto il suo significato, e possa così continuare a ispirare, come ha fatto per due millenni, anche le donne e gli uomini del nostro tempo. 

Anche sulla figura di Gesù, ci sono indubbiamente visioni diverse tra i «post-teisti», ma tutti sono comunque intenzionati a rimanere discepoli del vangelo: gli autori che ho preso in considerazione, a cui aggiungerei per esempio Annamaria Corallo, non negano affatto la sua divinità, ma certo rileggono il principio dell’incarnazione al di là del mito, per cui, a loro avviso, Cristo non è il Figlio del Dio teista che, ad un certo punto della storia, sarebbe disceso tra gli umani per salvarli col sacrificio della croce, bensì quella «pura trasparenza di Dio» che ogni essere umano è in potenza. 

Gesù è considerato divino – e non affatto semplice profeta – nel senso però di esemplare e completa realizzazione di quell’unitas spiritus che non è un evento avvenuto in un solo punto nella storia, ma piuttosto una chiamata universale per ogni essere umano. 

Mi sembra che le critiche di Vannini si fondino soprattutto su di una preoccupazione, quella relativa alla scomparsa della religione: a suo vedere, una teologia come quella «post-teista» condurrebbe alla fine della religione, indispensabile fondamento del senso etico. 

Qui siamo di fronte a due letture diverse della realtà: la posizione di Vannini mi sembra simile a quella di molti nella Chiesa che, per salvare il salvabile, ritengono sia meglio, per esempio, non diffondere conoscenze bibliche o storiche, o non portare all’attenzione riflessioni, che potrebbero scandalizzare i fedeli. Ma le chiese, intanto, si svuotano e i presunti «semplici» da non scandalizzare ormai stanno scomparendo, e non certo per colpa dei pochi «post-teisti». 

Una risposta al cristianesimo tradizionale 

Soprattutto i giovani, quelli per esempio con cui ogni giorno ho a che fare in quanto insegnante di religione, sono sempre meno disposti ad avvicinarsi a una religione che, se potrebbe attirarli dal punto di vista dei valori e della condivisione comunitaria che promette, li allontana quando chiede loro di accettare un pacchetto di credenze per loro unbelievable. 

Il «post-teismo» – come dicevo – nasce proprio in reazione all’estenuarsi del cristianesimo tradizionale, che in occidente va inesorabilmente perdendo terreno da decenni, e denuncia il ritardo delle Chiese nell’indagare i motivi profondi del fenomeno e nel prenderne atto seriamente. 

D’altra parte, ciascuna e ciascuno delle teologhe e dei teologi «post-teisti» è impegnata/o a livello pastorale nella ricerca di nuove forme religiose, nella convinzione appunto che culto, comunità, preghiera, rapporto con il divino siano assolutamente essenziali per l’umanità: è chiaro che la preghiera è concepita soprattutto come silenzio attento e meditazione, piuttosto che come richiesta e dialogo; il culto vuol incentrarsi sulla lode al Mistero senza nome – non dimentichiamo che Dio è termine simbolico, non nome proprio come di fatto è divenuto – e sulla connessione con tutte le creature, eliminando ogni parola o simbolo che rimandi al Dio teista, quello che giudica e che interviene. Ciascuno di loro si sforza di promuovere, infine, forme di celebrazione, studio e preghiera individuali e comunitarie che utilizzino un linguaggio comprensibile, inclusivo, non dogmatico. 

Indubbiamente, le comunità immaginate – alcune già in essere, seppure agli albori – dai «post-teisti» assomigliano poco alle parrocchie e più a centri di ricerca spirituale; sono assai meno identitarie delle Chiese tradizionali, in nome di una spiritualità non confessionale ma plurale, compatibile con diversi modi di dire Dio e di praticare la preghiera. Sono pensate per accogliere anche persone che, secondo la tradizionale divisione in credenti e non credenti, si troverebbero su fronti opposti: di fronte a un Dio/Divinitas, di cui niente si può sapere e dire, se non che è spirito e relazione, e che informa di sé ogni essere; e di fronte a un Gesù modello di realizzazione piena della scintilla divina che siamo. Così, sono molto più numerosi coloro che si sentono interpellati. 

Un Dio così concepito demolisce, è vero, l’identità forte del credente e della comunità religiosa – origine, diciamoci la verità, anche di tanta violenza nella storia – ma anche quella del suo «nemico» ateo, favorendo l’incontro sulla soglia del mistero, laddove è possibile scoprirsi tutti, in certo modo, agnostici: la linea distintiva, a questo punto, non sarebbe più tracciata infatti dal credere/o non credere quella o quell’altra cosa, ma dalla decisione di dare spazio e affidarsi o meno a quel Mistero. 

È davvero possibile immaginare comunità formate da «agnostici innamorati» (secondo la bella espressione di Santiago Villamayor, «post-teista» spagnolo), portatori di luce e araldi di speranza perché disposti a dar fiducia al Mistero come «bontà creatrice» e a confessare – nel senso pregnante del termine – che, «malgrado tutti i mali, tutto è o può essere buono, e che l’Essere è tenerezza e cura» (José Arregi)? Portatori di luce e araldi di speranza perché impegnati ad alimentare in sé il Bene, che costituisce la rete nella quale siamo tutti interconnessi e, con ciò, l’amore agapico verso ogni essere umano per quanto misero, emarginato, impoverito egli sia, quell’amore di cui Gesù il nazareno è stato a suo tempo maestro? 

I «post-teisti» scommettono di sì, e sarebbe bello che questo fosse, in un futuro non lontano, uno dei cristianesimi possibili. 

Beatrice Iacopini 


«Ti è piaciuto questo articolo? Per non perderti i prossimi iscriviti alla newsletter»

Aggiungici su FacebookSegui il profilo InstagramSegui il Canale di YoutubeSeguici su X (ex Twitter)



stampa la pagina