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José Tolentino de Mendonça "Cristo a tavola con i peccatori? È lo scandalo di un Dio che ci perdona"

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Esce oggi (11 giugno 2024) il nuovo libro scritto dal cardinale prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione dal titolo «Chi è dunque questo Gesù? Interrogare e ascoltare i Vangeli», pubblicato dalla San Paolo. Un saggio che propone un itinerario cristologico essenziale in 7 tappe, scandite soprattutto, ma non solo, da brani del Vangelo secondo Luca. Pubblichiamo un ampio stralcio della riflessione dell’autore sul pasto e il mangiare all’interno dei brani evangelici.

Il banchetto come ideale nella tradizione biblica 

L’ispirazione letteraria ellenica dev’essere coniugata con l’importante sostrato giudaico. Ancora oggi si dice che «l’ebraismo vien mangiando» . Partendo da ciò che è scritto nella Legge (Lv 11; Dt 14) e nella tradizione, si può dire che le scelte alimentari di un membro del popolo di Dio dovevano essere considerate come un fondamento della sua identità culturale e religiosa. Infatti, non possiamo dimenticare che il primo mandato di Dio nei confronti di Adamo ed Eva, nel racconto del giardino, fu di carattere alimentare («Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire»: Gen 2,16-17); che la terra promessa è definita soprattutto nei termini delle sue risorse alimentari, terra in cui «scorrono latte e miele» (Dt 6,3; 8,8; 11,9; 26,9-10.15; 27,3; 31,20; 32,13-14); che l’obiettivo della grande marcia di Mosè con il popolo, dal mar Rosso al fiume Giordano, è mangiare e rallegrarsi davanti al Signore (Dt 27,7). Il compiersi dell’esodo si esprime in un’idealizzazione della colloquialità, nel paese che il Signore ha scelto, una convivialità celebrata nell’abbondanza dei frutti del raccolto e nella solidarietà fra tutti i membri del popolo, e che si estende fino alle sue frontiere: «Il levita, che non ha parte né eredità con te, il forestiero, l’orfano e la vedova che abiteranno le tue città, mangeranno e si sazieranno» (Dt 14,29). 

Nella letteratura profetica, il paradigma del banchetto diventerà poi un motivo che annuncia il tempo messianico. La presenza implicita del Messia fa irrompere, tra naufragi e spaccature della storia, la pienezza dell’incontro salvifico con Dio, come un’irreversibile pacificazione. Questa ricreazione messianica della storia è spesso rappresentata dall’espansione universale di un banchetto divino: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. […] Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (Is 25,6.8). A questo banchetto i poveri non sono dimenticati: «O voi tutti assetati, venite al’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Is 55,1); e a loro, in particolare è reiterata la promessa del nuovo tempo: «Mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti» (Is 55,2). Sul piano pratico, però, questo ideale biblico, spesso non è andato al di là di questo, di un ideale appunto. Perché in realtà il banchetto serviva a rafforzare e impermeabilizzare identità e comportamenti, enfatizzando linee di divisione, consolidando meccanismi di rottura nel tessuto sociale e religioso. Sia in relazione ai pagani (per esempio, «i giudei, che accettavano di relazionarsi con i pagani nelle sinagoghe, nei mercati e nelle strade, mantenevano una stretta separazione nel momento di condividere i pasti»); sia ai poveri («distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano»: Am 6,4-6); o a coloro che in generale erano ritenuti impuri (peccatori, gente che svolgeva professioni disprezzabili, in certi casi anche la donna). Contro di loro la delimitazione della tavola funzionava come «una barriera», per preservare con la loro esclusione la pietà e la giustizia. 

La convivialità dei farisei 

I farisei, pur non avendo un rituale per i pasti (diversamente, per esempio, dagli esseni), attribuivano un’importanza centrale a tali momenti. Una comunità laicale come la loro cercava ostinatamente di riprodurre nei suoi pasti privati il modello di purità rituale del sacerdote nell’esercizio dei suoi gesti sacri. Nella «conveniente preservazione della purità rituale rispetto al pasto secolare, e nell’osservanza delle leggi alimentari quotidiane», scrive Jacob Neusner, i farisei trovavano l’espressione coerente della propria religiosità. Il termine «farisei» significa etimologicamente «i separati». E questa separazione si può constatare nei loro pasti, dai quali tenevano fuori i peccatori e i pagani, per non incorrere nell’impurità. Ciò non significa che quei pasti fossero totalmente chiusi. La convivialità dei farisei si svolgeva in circostanze uguali a quelle di tutta la convivialità non rituale: gente comune che consumava i pasti di ogni giorno, nella quotidianità, vicino a persone che non appartenevano al loro gruppo. E conservavano la tradizione palestinese di lasciare le porte aperte durante alcuni banchetti, per soddisfare la curiosità degli estranei. Solo così si comprende la presenza ripetuta di Gesù come commensale dei farisei (Lc 7,36- 50; 11,37-54; 14,1-24), ma anche il fatto che una donna peccatrice potesse andargli incontro durante uno di quei banchetti. 

Gesù commensale dei peccatori 

Gesù rivolge la sua attenzione, senza nessuna riserva, alla gente definita impura per colpa di malattie, possessione o menomazioni. Egli non guarda ai peccatori in astratto, o con atteggiamento decolpevolizzante, ma vede «le persone dentro le situazioni storiche e concrete», che ne diventano punto di partenza. È risaputo che Egli stesso è stato commensale di individui moralmente sconvenienti. Viene visto con peccatori e pubblicani, con i quali siede a tavola. E non si difende né si mostra offeso dal contatto con una pubblica peccatrice (Lc 7,37-39). 

È curioso il modo sottile in cui il narratore contesta e smonta, nel corso di tutto il racconto, questa immagine di Gesù. L’affermazione di Gesù, in Lc 5,32, «io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori», con l’aggiunta tipicamente lucana, «perché si convertano», spiega bene che alla base del programma narrativo del personaggio c’è la trasformazione radicale della condizione. Il Vangelo non si stanca di sottolinearlo: i morti che Gesù tocca risuscitano; i lebbrosi sono purificati; l’emorroissa viene guarita; il cieco riesce a vedere; la peccatrice è perdonata dei suoi peccati. Gesù mette le persone in relazione con Dio, relativizzando o dando un significato nuovo alle norme della purità. Tutto si lega alla percezione che Gesù ha di Dio e della sua identità personale. 

Il pasto consumato da Gesù con i peccatori spiega il senso della sua missione: annunciare e concretizzare il perdono di Dio. È vero che l’esperienza della misericordia e del perdono di Dio non sono propriamente una novità rispetto alla tradizione biblica precedente, ma questa insistenza, prefigurata nel banchetto, di un dono della misericordia divina senza condizionamenti previi e in atto (non sono i peccatori a convertirsi per ottenere così la misericordia e il perdono, i peccatori sono obiettivo della misericordia e si convertono!), è tanto inedita da suonare scandalosa. E lo stesso ministero di Gesù afferma un’autonomia originale rispetto alla tutela che il tempio esercitava nella religiosità di Israele. Nel presentarsi al banchetto con i peccatori come colui che perdona i peccati, Gesù rivendica il superamento del tempio con i suoi sacrifici e le sue offerte. In un certo modo, i riti del tempio perdono la propria efficacia.

In questo passo del capitolo 5 di Luca affiora un’altra questione basilare: Gesù non annuncia soltanto di andare incontro ai peccatori. La sua affermazione ha «una portata maggiore, un tono più dirimente»: «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori » (5,32). Sarà che con questa dichiarazione Gesù sta mettendo da parte i giusti e, a sua volta, anche se stesso? Starà escludendo? Quello che Gesù fa è constatare che i peccatori sentono la mancanza dell’incontro con la buona notizia, poiché riconoscono di aver «bisogno del medico» (5,31), mentre quelli che si ritengono giusti si barricano dietro a un’umana presunzione e rifiutano l’annuncio. La coscienza di una giustizia personale e di gruppo è un impedimento a riconoscere la novità che Gesù introduce. Il modello generalizzato dell’attitudine nei confronti di Gesù, che il racconto evangelico sostiene, è quello del peccatore. Persino Pietro, il primo dei discepoli, per prima cosa dice a Gesù: «Allontanati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8)! 

La condivisione dei pasti con i peccatori poteva essere considerata, dagli avversari di Gesù, come un’insolenza, un gesto anarchico dal punto di vista sociale e religioso. Ma Luca ci mostra che era molto più di questo: «Era espressione e conferma del fatto che il Regno era giunto con lui, e la gioia comune e senza frontiere era una realtà possibile: mangiando con i peccatori, Gesù praticava il Regno che stava proclamando». La condotta di Gesù nei confronti dei peccatori non mostra solo la sollecitudine di Dio verso i perduti, e Gesù come grande ermeneuta di questa misericordia, ma attesta che in lui la storia ha incontrato il Regno. Non sorprende che il banchetto con i peccatori diventi, per questo, un dispositivo fondamentale di rivelazione cristologica. 

Il cristianesimo si costruisce sul versante dell’ospitalità 

Quando delineò il suo grande progetto teologico e narrativo, Luca – che aveva evidenti conoscenze di letteratura ellenica e dominava con maestria i suoi procedimenti – lo divise in due parti: nella prima, dopo aver fatto «ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi» (Lc 1,3), espose l’annuncio di Gesù (il cosiddetto Vangelo secondo Luca), nella seconda riportò il modo in cui esso ha determinato la vita e il percorso dei suoi discepoli (gli Atti degli Apostoli). L’opera in dittico di Luca conduce il lettore lungo un asse geografico. Il Vangelo comincia e termina nella città di Gerusalemme, ma il libro degli Atti degli Apostoli parte di lì per un dettagliato itinerario attraverso le città del mondo greco-romano e culmina a Roma. Ovviamente non si tratta solo di un viaggio nella geografia, ma costituisce una presa di posizione culturale e teologica che illumina in profondità la proposta cristiana. Il cristianesimo non sceglie Roma al posto di Gerusalemme. Le sceglie entrambe. Sceglie di abitare «fra», in un meccanismo di integrazione che è un programma di universalismo, un nuovo modo di intendere l’uomo e una nuova visione di Dio.

José Tolentino de Mendonça

Fonte: Avvenire

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