Per una comunità viva e contemporanea: conversazione con Marinella Perroni
a cura di Stefano Zecchi
È una grande emozione essere accolto nel Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma, da Marinella Perroni, dove insegna Nuovo Testamento. Dottore in Filosofia e Dottore in Teologia è stata
presidente del Coordinamento Teologhe Italiane (Cti).
È una delle più importanti e ascoltata fra le teologhe italiane. Numerose sono le sue pubblicazioni in
ambito neotestamentario. Dirige, con Stella Morra, la collana «Sui generis» per Effatà Editrice.
Buon giorno Marinella, come sta?
Non è facile rispondere. Posso dire che sto abbastanza bene se penso unicamente alla mia situazione
individuale. Se però provo a pensarmi nel mondo, allora è difficile poter rispondere che sto bene.
Tanti anni fa «War games» era un film mentre oggi, purtroppo, è morte e disperazione, fame e
distruzione.
Non ne sentiamo solo gli echi lontani, ma ne percepiamo l’orrore in casa nostra, dentro di noi. E le
uniche sentinelle sembrano essere rimasti i nostri ragazzi: gridano, protestano, scompostamente
forse, ma di sicuro in modo ben più composto dei signori della guerra, del tutto insensibili al grido
di chi chiede pace e giustizia.
Ecco come sto.
… e la chiesa cattolica come sta?
Se è difficile rendere ragione del mio stato di «salute» personale, dire qualcosa di sensato su quello
della chiesa cattolica è pressoché impossibile. La chiesa cattolica è qualcosa di immenso e
inafferrabile, una realtà che appartiene al mondo e ne condivide le sorti in tutto e per tutto, ma che,
per di più, è chiamata a rendere ragione al suo Signore della propria fede e della propria speranza.
Un miliardo e duecento milioni di persone che vivono le situazioni più diverse, dagli orrori della
persecuzione per la fede alle più radicate forme di indifferenza nei confronti di Dio e del mondo.
La chiesa cattolica, d’altra parte, non sta diversamente da tutte le altre chiese storiche.
Almeno in quello che chiamiamo «Occidente». Un’emorragia costante di fedeli che lasciano le
comunità cristiane è sotto gli occhi di tutti. In alcuni casi prende la forma di quello che, sia pure
impropriamente, viene chiamato «sbattezzo». Al di là dei nomi, il significato è chiaro: il rifiuto di
un’appartenenza a una comunità di fede in cui sei stato fatto entrare a tua insaputa e che – questo è
il punto decisivo – ti chiede di assumere una storia fatta di pagine radiose, forse anche eroiche, ma
anche di tanti errori, ingiustizie, offese alla dignità degli uomini e delle donne se non addirittura di
Dio stesso. Non si tratta di una crisi del bisogno di religione, di riferimento al divino, altrimenti non
si spiegherebbe la grande presa che invece hanno le diverse sette che, soprattutto nel mondo
protestante, offrono un’alternativa «facile» all’appartenenza a una chiesa storica che porta il peso
delle sue colpe di ieri e di oggi. Un fenomeno dal quale non è esclusa però neppure la chiesa
cattolica, con il suo pullulare di forme di superstizione religiosa che non può che sconcertare.
L’appartenenza a una «chiesa storica» chiede la capacità di declinare la propria fede e la propria
speranza dentro le pieghe della storia, fatta di un oggi che spesso sgomenta e di un futuro
impercettibile, per non parlare di un passato sconcertante. La fede ebraica e quella cristiana, però,
senza storia non possono esistere, non possono lasciarsi consegnare al mito.
Lei è una delle più importanti teologhe e bibliste italiane. Cosa vuol dire essere teologhe oggi?
Se avessi risposto a questa domanda ieri, avrei detto con decisione che significa restare ai margini,
essere condannati all’insignificanza. In fondo lo stesso papa Francesco lo aveva detto che era
meglio che i teologi se ne stessero chiusi nella loro isola, inutili in fondo a chi vive sulla terra
ferma. Ieri sera, però, sono andata a vedere uno spettacolo in cui Neri Marcorè ha messo in scena la Buona novella di Fabrizio de André corredandola di lunghi commenti sui testi dei vangeli,
principalmente gli apocrifi, ma anche i canonici. Non solo lo ha fatto con una serietà che
affascinava, ma è stato capace di rendere ragione dei risultati della ricerca storica ed esegetica degli
ultimi decenni con una linearità che ha incantato il pubblico, finalmente liberato da schemi
interpretativi incomprensibili perché totalmente inaccettabili e da lacci e lacciuoli moralistici che
oggi offendono anche il solo buon senso. Ho pensato che anche il lavoro degli esegeti può servire se
trova i giusti canali della divulgazione e che le persone possano riconciliarsi, se non proprio con la
consapevolezza di fede, almeno con una conoscenza che non offenda l’intelligenza.
In virtù del battesimo siamo sacerdoti, re e profeti, uomini e donne. Purtroppo a quasi sessant’anni
dal Concilio Vaticano II i preti hanno ancora un ruolo centrale, possiamo dire di potere, nella vita
della comunità, laici, uomini e donne sono ancora ai margini e non protagonisti nella vita della
Chiesa, nonostante papa Francesco. C’è la speranza che si arrivi ad una vera corresponsabilità
nella vita della Chiesa?
Soltanto a una condizione: che si superi finalmente e definitivamente il binarismo clero-laicato che
ha garantito la solidità della chiesa medievale e che la chiesa cattolico-romana ha continuato in tutti
i modi a sostenere in risposta alla Riforma protestante, ma che oggi è il primo freno a qualsiasi
possibilità di attuare quelle riforme di cui proprio la stessa chiesa cattolica ha grande bisogno.
Purtroppo – può sembrare inaccettabile all’inizio del terzo millennio cristiano – non ce la facciamo
a superare lo scoglio del riconoscimento di quanto la Riforma, sia pure nella buona e nella cattiva
sorte, ha dato alla storia della chiesa né, d’altra parte, le chiese uscite dalla Riforma sembrano
disponibili a un riavvicinamento finalmente in grado di dare all’Europa, che già è in crisi dal punto
di vista politico, il contributo di cui ha bisogno per ritrovare l’intreccio storico tra le diverse radici
della sua cultura. È la grande vergogna che sta condannando le chiese, tutte, all’insignificanza, che
favorisce delusione e abbandono, che determina il calo di fiducia da parte dei fedeli. E, forse, è
perfino troppo tardi e sui libri di storia si studierà il contributo che le chiese cristiane hanno dato al
declino dell’Europa perché, invece di riconoscersi, di perdonarsi e di ricercare insieme nuove
strade, sono rimaste paralizzate nei loro recinti.
Nelle nostre liturgie domenicali i laici hanno un ruolo marginale, non da protagonisti. Il prete,
purtroppo non presiede, ma celebra, tutto è centrato non sull’assemblea eucaristica, ma su chi
presiede. Un esempio per tutti, la preghiera dei fedeli, è tutto al di fuori dei fedeli, sono «caramelle
ciucciate» da altri, per non parlare della riforma del messale… Come possiamo cambiare verso,
come possiamo, uomini e donne, diventare protagonisti all’interno della Comunità?
Purtroppo, se restiamo fermi su certi binari morti, vedo molto difficile la possibilità di rendere vive
le nostre liturgie. La liturgia dovrebbe essere espressione di una chiesa viva e, in un tempo in cui la
vita si misura anche sulla velocità di cambiamento, una chiesa vecchia e di vecchi difficilmente
trova il suo modo di stare al passo. Il cambiamento di una parolina o di una riverenza viene sempre
«dall’alto» e sembra una riforma epocale! Purtroppo, però, è difficile uscirne: liturgie vive sono il
prodotto di comunità vive, ma è ben difficile che un «hospice» sia una comunità viva!
I «Viri probati» diventeranno una realtà?
Forse, chissà, chissà dove e chissà quando! Ma – perdonate la franchezza! – a me sembra una toppa
(più o meno nuova) su un vestito vecchio. Almeno da noi. Forse, possono veramente contribuire a
sostenere il cammino di altre chiese nazionali o continentali in cui è in corso uno sviluppo sia
quantitativo che qualitativo dei fedeli.
Ma: quali i criteri di scelta e quali le condizioni? Se il cuore della loro identità non è la loro
formazione teologica e pastorale, ma la loro promessa di astenersi dai rapporti matrimoniali, beh…
A che punto è la «Commissione sul diaconato delle donne» convocata da papa Francesco?
Viste le premesse, non poteva che incagliarsi e si è incagliata. Per motivi diversi: la mancanza di
autentica volontà politica di servirsene da parte di Francesco, la scelta delle persone fatta in modo tale che non potesse finire altro che nella constatazione della propria inadeguatezza (la prima
commissione) e della propria inutilità (la seconda). Soprattutto, però, il fatto che la questione del
diaconato fa parte di tutto il sistema ministeriale della chiesa cattolica che dovrebbe essere
riformato e non si tratta di dare alle donne un contentino con un «diaconato femminile», magari
pensato come complementare a quello maschile e ritagliato sul pacchetto di virtù attribuite alla
donna ideale che gli uomini di chiesa sognano ancora debba e possa esistere! Il diaconato non è né
femminile né maschile, è l’accesso al ministero diaconale che deve essere possibile a tutti i
battezzati.
Stiamo vivendo una terza guerra mondiale a pezzi, come dice papa Francesco. In questo contesto
attuale le Chiese possono diventare segni e strumenti di pace? Ha ancora senso il Vangelo della
pace?
Vorrei rispondere in modo secco: le chiese sono state capaci di accompagnare le guerre con
cappellani e infermiere che hanno garantito almeno una qualche forma di umanizzazione
dell’orrore, sono state (e sono ancora!) capaci però anche di inneggiare alla «guerra santa» e di
benedire le armi: trovare modi per scomunicare le guerre o almeno benedire armi di pace sembra
però che non sia possibile… Papa Francesco? Vox clamans in deserto!
Sono trascorsi undici anni dall’elezione di papa Francesco al soglio di Pietro, che giudizio da’ di
questo pontificato?
È appena uscito in Germania un libro dal titolo «Il papa della delusione». Ho visto l’indice: un
elenco di promesse e aspettative e un lungo elenco di disillusioni. Credo che in parte sia vero, anche
se a volte il problema è l’ingenuità delle aspettative. Dopo i due pontificati di Giovanni Paolo II e di
Benedetto XVI, caratterizzati entrambi da forti istanze repressive (basta pensare alle centinaia di
condanne di teologi a cui è stato impedito di insegnare se non addirittura di parlare!).
Forse il papa venuto dall’altro capo del mondo è stato investito di aspettative troppo alte anche
perché è malattia cattolica proiettare tutto sul papa, una sorta di apoteosi in pectore che,
normalmente, non può avvenire. Questo pontificato ha a mio avviso grandi meriti e quello che
poteva fare dopo i trent’anni e più di sistematico congelamento delle istanze conciliari lo ha fatto:
ha mosso le acque, fatto circolare aria… è stato un papato di semina, non di raccolto. Vedremo il
futuro cosa ci riserva.
L’esortazione apostolica «Amoris laetitia» e la precisazione della Congregazione per la Dottrina
della Fede sulla benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso hanno suscitato dibattito e
perplessità. Cosa ne pensa?
Che purtroppo questo pontificato ha all’attivo il merito di aver accettato di assumere nella sua
agenda problemi e questioni che le persone vivono quotidianamente, ma non ha sempre avuto
l’intelligenza di affrontarle con competenza e lungimiranza. Non sempre gli uomini messi nei
luoghi-chiave dell’esercizio dell’autorità sono stati scelti da Francesco con la necessaria capacità di
selezione. Poi, mettiamo sul conto anche la continua e rumorosa minaccia di scismi da parte di
retrovie ecclesiastiche tanto vergognose quanto potenti. Fare il pontefice non è mai facile, farlo in
una chiesa tenuta sotto il pugno di ferro per tanti anni è sicuramente ancora più difficile: Francesco
opera con gli uomini che ha a disposizione.
Prima di concludere questo nostro colloquio vorrei ricordare una persona cara a tanti di noi,
Michela Murgia. Che ricordo ha di Michela?
I grandi lutti hanno bisogno di essere seguiti da almeno un anno di silenzio. Per me, oltre tutto,
l’emozione è ancora forte, accompagnata da una sorta di rifiuto di elaborare un «ricordo».