Piero Stefani "Scommettere d’essere cristiani oggi"
Il Regno
Parole delle Religioni
In minoranza?
Scommettere d’essere cristiani oggi
Piero Stefani
Mentre nei cristianesimi europei si assiste a una costante decrescita nella frequenza, altrove si regista un’effervescenza destinata a contrassegnare l’immediato futuro del cristianesimo.
Eppure proprio questa compresenza di costante aumento delle denominazioni cristiane e di ripiegamento delle Chiese storiche fa sì che ovunque i cristiani siano (o si avviino a essere) in minoranza.
Le Chiese e le comunità cristiane sparse nel mondo si contano a migliaia. Nessuno è in grado d’enumerare la miriade di denominazioni presenti nel nostro pianeta. Tenere una mappa aggiornata è arduo perché in Africa, America e Asia la nascita di nuove forme di cristianesimo è un processo ininterrotto. Si assiste alla creazione di spazi inediti; in particolare, ci si può riferire alle cosiddette mega-church, simili a grandi auditori capaci di contenere migliaia di persone; in esse s’attuano scene di predicazione e di dirompente gestualità.
Specie in Africa, dove bastano strutture provvisorie e spazi aperti, i raduni possono coinvolgere molte decine di migliaia di partecipanti. La tecnologia dei maxischermi e dei sistemi d’amplificazione costituisce in tali casi un apporto fondamentale. Il culto si trasforma in evento. I contenuti sono diversi, tuttavia le modalità di partecipazione sono paragonabili a quelle dei grandi concerti rock.1
Queste nuove forme d’aggregazione cominciano a penetrare anche nella vecchia Europa. Del resto, alcuni eventi (tipo le GMG) presenti all’interno di determinate Chiese storiche si conformano, almeno in parte, alle stesse dinamiche.
Mentre nei cristianesimi europei si assiste a una costante decrescita nella frequenza, altrove si regista un’effervescenza destinata a contrassegnare l’immediato futuro del cristianesimo. Eppure proprio questa compresenza di costante aumento delle denominazioni cristiane e di ripiegamento delle Chiese storiche fa sì che ovunque i cristiani siano (o si avviino a essere) in minoranza.
Anche quando ci sono grandi raduni, sia di vecchio stampo (si pensi a eventi legati alla religione popolare) sia di «nuovo modello», resta valida la constatazione secondo la quale la vita pubblica e privata dei vari paesi è sempre meno riconoscibilmente ispirata al cristianesimo.
In riferimento al cattolicesimo europeo, Olivier Roy ha affermato che «la Chiesa si ricostruisce in comunità di fede e tende a vivere sempre più come una minoranza, fenomeno accentuato dal fatto che la destra conservatrice e populista ha smesso di riferirsi al cattolicesimo per richiamarsi soltanto a una vaga “identità cristiana” che non ha niente a che vedere con i valori difesi dal papa».2 S’aggiunga che all’interno delle Chiese gerarchico-universali, a iniziare da quella cattolica, la polarizzazione tra i vari orientamenti è tanto accentuata da assumere, più volte, la veste della contrapposizione.
Si nasce non cristiani
Cristianesimi di minoranza, dunque? Occorre accordarci su cosa significa «cristianesimo». Nell’età contemporanea molti hanno incominciato a pensare che il «regime di cristianità» (o «costantiniano») fosse una situazione storica incompatibile con le richieste più profonde e pertinenti proprie della loro fede.3 La convinzione affonda le proprie radici in tempi assai precedenti alla nostra epoca.
In particolare, occorre riferirsi al sorgere cinquecentesco dei movimenti anabattisti. Furono infatti essi ad avanzare l’istanza di separare l’appartenenza alla Chiesa da quella dello stato. L’essere membri di una Chiesa dipendeva da una scelta e non già dal fatto di essere nati in un determinato luogo. Per questa via veniva abbandonato il principio del cuius regio eius et religio. Fino a quando la religione di un territorio coincide con quella di chi detiene la sovranità, è inevitabile concludere che i cristianesimi restino obbligati a pensarsi come espressioni maggioritarie.
Andare alla ricerca della prima comparsa della parola «cristianesimo» è un’operazione dotata di qualche utilità. Non sorprende constatare che il termine non compare negli scritti neotestamentari (dove peraltro la stessa parola «cristiani» è molto rara; cf. At 11,26; 26,28; 1Pt 4,16). A quanto ci è dato di sapere esso appare per la prima volta nell’epistolario d’Ignazio di Antiochia, dove è chiaramente ricalcato sulla parola «giudaismo».4
Alle spalle del termine emerge una necessità di distinzione presto destinata a indossare i panni della contrapposizione. Tuttavia, parlare di «giudaismo» è qualcosa di diverso dal riferirsi all’appartenenza pura e semplice al popolo d’Israele. Come mostra la Lettera ai Galati (1,11-17), la parola attesta infatti un modo particolarmente intenso di vivere la propria appartenenza ebraica.
«Vivere secondo il cristianesimo», come invitava a fare Ignazio, lungi dal denotare una semplice appartenenza, indicava una specifica maniera di seguire con coerenza gli insegnamenti della fede. All’inizio del II secolo non vi era alcun sospetto dell’esistenza di un processo destinato a condurre a un «regime di cristianità» o al suo pallido surrogato contemporaneo costituito dall’«identità cristiana».
Un’espressione fin troppo fortunata di Michel Gauchet definisce il cristianesimo «la religione dell’uscita dalla religione»; si tratta di una formulazione contemporanea di un tema antico, anzi addirittura originario, legato alla predicazione dell’Evangelo. La scelta di ricorrere a una traslitterazione «(E)vangelo» e non già a una traduzione ha, via via, attenuato l’idea che la fede nasca dall’accoglimento della «buona notizia», vale a dire che essa abbia avvio da un grande «fatto comunicativo» (cf. Rm 10,17). Là dove non c’è annuncio si ignora quanto è avvenuto.
Ciò comporta che l’evento salvifico, di per sé, non abbia trasformato l’ordine delle cose (cf. 1Cor 1,21). Nel corso del mondo tutto continua a essere come prima; se nelle collettività e nelle persone si registrano mutamenti, ciò dipende dal fatto che è giunta loro la «buona novella». Come avviene anche nell’ambito quotidiano, il diffondersi di una notizia può suscitare reazioni e dar luogo, in più occasioni, a sviluppi concreti.
Il presupposto di tutto ciò è un dato mai negato in linea di principio ma spesso stravolto nei fatti, vale a dire che, per definizione, si nasce sempre non cristiani. La nascita in quanto tale non rende partecipi di nessuna Chiesa o comunità cristiana. Le dinamiche legate al fenomeno del born again sono molteplici e non di rado problematiche; ciò però non toglie che, nei loro remoti antecedenti, esse presuppongano il detto: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3).
La fede come scelta personale
Il cristianesimo può essere liberamente definito come una fase storica in cui l’espressione «trasmissione della fede» ha sostituito quella, più consona e propria, secondo la quale quanto viene trasmesso, di generazione in generazione, è soltanto la possibilità della fede. Nella sua forma più alta, ciò assume la veste dell’annuncio, mentre nella più modesta dimensione quotidiana si presenta come l’atto volto a comunicare narrazioni e principi comportamentali.
Il fatto che l’espressione «trasmissione della fede» sia tuttora in uso (anzi si ha il sospetto che sia spesso ripetuta proprio perché indebolitasi nella pratica) attesta che l’idea di cristianesimo opera ancora nelle menti e quindi, in una certa misura, anche nella realtà.
Ciò non toglie che nelle società attuali prenda sempre più piede la tendenza a intendere l’ingresso (o il non ingresso) in una comunità di fede come una semplice, libera scelta personale. Quanto per lungo tempo valeva all’interno di una determinata comunità (si pensi, per esempio, alle «vocazioni» che producono distinzioni fra i membri di una stessa Chiesa) ora vale sempre più per la stessa appartenenza a una specifica comunità cristiana.
Grande è però la differenza tra il sostenere che si tratti di una libera scelta e il dichiarare che si stia rispondendo a una chiamata. Quest’ultimo aspetto vale anche quando si accetta liberamente di rimanere nella comunità religiosa in cui ci si trova in virtù di una decisione altrui. In tali casi si è nelle condizioni di affermare: Dio mi ha fatto nascere là dove mi è chiesto di rinascere.
Tutt’altro discorso è invece affidarsi a una scelta mossa in larga misura dalla ricerca di nuove esperienze ed emozioni. Questa dinamica conduce per forza di cose a inserirsi in gruppi minoritari formati da persone dotate di modi di sentire affini ai propri. Per contrastare le «dinamiche dispersive» che conducono ad aggregarsi alla comunità che si reputa più consona alla soddisfazione dei propri bisogni spirituali, le «grandi Chiese» dovrebbero prendere sul serio il fatto che a essere trasmessa è non già la fede, bensì soltanto la possibilità che la fede continui.
Non si deve dare per scontato che il tramonto non avvenga. A dircelo sono parole evangeliche rivestite, non occasionalmente, di una forma interrogativa: «Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà fede sulla terra?» (Lc 18,8).
1 Cf. E. Pace, Cristianesimo extra-large. La fede come spettacolo di massa, EDB, Bologna 2018 (cf. Regno-att. 12,2018,354).
2 O. Roy, «Siamo oltre il cristianesimo secolarizzato», in Vita e pensiero, 106(2019) 1, 69.
3 Cf. G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, Il Mulino, Bologna 2012.
4 «Perciò diventati suoi discepoli impariamo a vivere secondo il cristianesimo (...) È fuori luogo professare Gesù Cristo e giudaizzare, perché non è stato il cristianesimo a credere nel giudaismo ma il giudaismo nel cristianesimo»: Ignazio di Antiochia, Lettera ai Magnesi, 10, 1-3.
Parole delle Religioni
In minoranza?
Scommettere d’essere cristiani oggi
Piero Stefani
Mentre nei cristianesimi europei si assiste a una costante decrescita nella frequenza, altrove si regista un’effervescenza destinata a contrassegnare l’immediato futuro del cristianesimo.
Eppure proprio questa compresenza di costante aumento delle denominazioni cristiane e di ripiegamento delle Chiese storiche fa sì che ovunque i cristiani siano (o si avviino a essere) in minoranza.
Le Chiese e le comunità cristiane sparse nel mondo si contano a migliaia. Nessuno è in grado d’enumerare la miriade di denominazioni presenti nel nostro pianeta. Tenere una mappa aggiornata è arduo perché in Africa, America e Asia la nascita di nuove forme di cristianesimo è un processo ininterrotto. Si assiste alla creazione di spazi inediti; in particolare, ci si può riferire alle cosiddette mega-church, simili a grandi auditori capaci di contenere migliaia di persone; in esse s’attuano scene di predicazione e di dirompente gestualità.
Specie in Africa, dove bastano strutture provvisorie e spazi aperti, i raduni possono coinvolgere molte decine di migliaia di partecipanti. La tecnologia dei maxischermi e dei sistemi d’amplificazione costituisce in tali casi un apporto fondamentale. Il culto si trasforma in evento. I contenuti sono diversi, tuttavia le modalità di partecipazione sono paragonabili a quelle dei grandi concerti rock.1
Queste nuove forme d’aggregazione cominciano a penetrare anche nella vecchia Europa. Del resto, alcuni eventi (tipo le GMG) presenti all’interno di determinate Chiese storiche si conformano, almeno in parte, alle stesse dinamiche.
Mentre nei cristianesimi europei si assiste a una costante decrescita nella frequenza, altrove si regista un’effervescenza destinata a contrassegnare l’immediato futuro del cristianesimo. Eppure proprio questa compresenza di costante aumento delle denominazioni cristiane e di ripiegamento delle Chiese storiche fa sì che ovunque i cristiani siano (o si avviino a essere) in minoranza.
Anche quando ci sono grandi raduni, sia di vecchio stampo (si pensi a eventi legati alla religione popolare) sia di «nuovo modello», resta valida la constatazione secondo la quale la vita pubblica e privata dei vari paesi è sempre meno riconoscibilmente ispirata al cristianesimo.
In riferimento al cattolicesimo europeo, Olivier Roy ha affermato che «la Chiesa si ricostruisce in comunità di fede e tende a vivere sempre più come una minoranza, fenomeno accentuato dal fatto che la destra conservatrice e populista ha smesso di riferirsi al cattolicesimo per richiamarsi soltanto a una vaga “identità cristiana” che non ha niente a che vedere con i valori difesi dal papa».2 S’aggiunga che all’interno delle Chiese gerarchico-universali, a iniziare da quella cattolica, la polarizzazione tra i vari orientamenti è tanto accentuata da assumere, più volte, la veste della contrapposizione.
Si nasce non cristiani
Cristianesimi di minoranza, dunque? Occorre accordarci su cosa significa «cristianesimo». Nell’età contemporanea molti hanno incominciato a pensare che il «regime di cristianità» (o «costantiniano») fosse una situazione storica incompatibile con le richieste più profonde e pertinenti proprie della loro fede.3 La convinzione affonda le proprie radici in tempi assai precedenti alla nostra epoca.
In particolare, occorre riferirsi al sorgere cinquecentesco dei movimenti anabattisti. Furono infatti essi ad avanzare l’istanza di separare l’appartenenza alla Chiesa da quella dello stato. L’essere membri di una Chiesa dipendeva da una scelta e non già dal fatto di essere nati in un determinato luogo. Per questa via veniva abbandonato il principio del cuius regio eius et religio. Fino a quando la religione di un territorio coincide con quella di chi detiene la sovranità, è inevitabile concludere che i cristianesimi restino obbligati a pensarsi come espressioni maggioritarie.
Andare alla ricerca della prima comparsa della parola «cristianesimo» è un’operazione dotata di qualche utilità. Non sorprende constatare che il termine non compare negli scritti neotestamentari (dove peraltro la stessa parola «cristiani» è molto rara; cf. At 11,26; 26,28; 1Pt 4,16). A quanto ci è dato di sapere esso appare per la prima volta nell’epistolario d’Ignazio di Antiochia, dove è chiaramente ricalcato sulla parola «giudaismo».4
Alle spalle del termine emerge una necessità di distinzione presto destinata a indossare i panni della contrapposizione. Tuttavia, parlare di «giudaismo» è qualcosa di diverso dal riferirsi all’appartenenza pura e semplice al popolo d’Israele. Come mostra la Lettera ai Galati (1,11-17), la parola attesta infatti un modo particolarmente intenso di vivere la propria appartenenza ebraica.
«Vivere secondo il cristianesimo», come invitava a fare Ignazio, lungi dal denotare una semplice appartenenza, indicava una specifica maniera di seguire con coerenza gli insegnamenti della fede. All’inizio del II secolo non vi era alcun sospetto dell’esistenza di un processo destinato a condurre a un «regime di cristianità» o al suo pallido surrogato contemporaneo costituito dall’«identità cristiana».
Un’espressione fin troppo fortunata di Michel Gauchet definisce il cristianesimo «la religione dell’uscita dalla religione»; si tratta di una formulazione contemporanea di un tema antico, anzi addirittura originario, legato alla predicazione dell’Evangelo. La scelta di ricorrere a una traslitterazione «(E)vangelo» e non già a una traduzione ha, via via, attenuato l’idea che la fede nasca dall’accoglimento della «buona notizia», vale a dire che essa abbia avvio da un grande «fatto comunicativo» (cf. Rm 10,17). Là dove non c’è annuncio si ignora quanto è avvenuto.
Ciò comporta che l’evento salvifico, di per sé, non abbia trasformato l’ordine delle cose (cf. 1Cor 1,21). Nel corso del mondo tutto continua a essere come prima; se nelle collettività e nelle persone si registrano mutamenti, ciò dipende dal fatto che è giunta loro la «buona novella». Come avviene anche nell’ambito quotidiano, il diffondersi di una notizia può suscitare reazioni e dar luogo, in più occasioni, a sviluppi concreti.
Il presupposto di tutto ciò è un dato mai negato in linea di principio ma spesso stravolto nei fatti, vale a dire che, per definizione, si nasce sempre non cristiani. La nascita in quanto tale non rende partecipi di nessuna Chiesa o comunità cristiana. Le dinamiche legate al fenomeno del born again sono molteplici e non di rado problematiche; ciò però non toglie che, nei loro remoti antecedenti, esse presuppongano il detto: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3).
La fede come scelta personale
Il cristianesimo può essere liberamente definito come una fase storica in cui l’espressione «trasmissione della fede» ha sostituito quella, più consona e propria, secondo la quale quanto viene trasmesso, di generazione in generazione, è soltanto la possibilità della fede. Nella sua forma più alta, ciò assume la veste dell’annuncio, mentre nella più modesta dimensione quotidiana si presenta come l’atto volto a comunicare narrazioni e principi comportamentali.
Il fatto che l’espressione «trasmissione della fede» sia tuttora in uso (anzi si ha il sospetto che sia spesso ripetuta proprio perché indebolitasi nella pratica) attesta che l’idea di cristianesimo opera ancora nelle menti e quindi, in una certa misura, anche nella realtà.
Ciò non toglie che nelle società attuali prenda sempre più piede la tendenza a intendere l’ingresso (o il non ingresso) in una comunità di fede come una semplice, libera scelta personale. Quanto per lungo tempo valeva all’interno di una determinata comunità (si pensi, per esempio, alle «vocazioni» che producono distinzioni fra i membri di una stessa Chiesa) ora vale sempre più per la stessa appartenenza a una specifica comunità cristiana.
Grande è però la differenza tra il sostenere che si tratti di una libera scelta e il dichiarare che si stia rispondendo a una chiamata. Quest’ultimo aspetto vale anche quando si accetta liberamente di rimanere nella comunità religiosa in cui ci si trova in virtù di una decisione altrui. In tali casi si è nelle condizioni di affermare: Dio mi ha fatto nascere là dove mi è chiesto di rinascere.
Tutt’altro discorso è invece affidarsi a una scelta mossa in larga misura dalla ricerca di nuove esperienze ed emozioni. Questa dinamica conduce per forza di cose a inserirsi in gruppi minoritari formati da persone dotate di modi di sentire affini ai propri. Per contrastare le «dinamiche dispersive» che conducono ad aggregarsi alla comunità che si reputa più consona alla soddisfazione dei propri bisogni spirituali, le «grandi Chiese» dovrebbero prendere sul serio il fatto che a essere trasmessa è non già la fede, bensì soltanto la possibilità che la fede continui.
Non si deve dare per scontato che il tramonto non avvenga. A dircelo sono parole evangeliche rivestite, non occasionalmente, di una forma interrogativa: «Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà fede sulla terra?» (Lc 18,8).
1 Cf. E. Pace, Cristianesimo extra-large. La fede come spettacolo di massa, EDB, Bologna 2018 (cf. Regno-att. 12,2018,354).
2 O. Roy, «Siamo oltre il cristianesimo secolarizzato», in Vita e pensiero, 106(2019) 1, 69.
3 Cf. G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, Il Mulino, Bologna 2012.
4 «Perciò diventati suoi discepoli impariamo a vivere secondo il cristianesimo (...) È fuori luogo professare Gesù Cristo e giudaizzare, perché non è stato il cristianesimo a credere nel giudaismo ma il giudaismo nel cristianesimo»: Ignazio di Antiochia, Lettera ai Magnesi, 10, 1-3.