Luciano Manicardi "Perché mi fai il male?"
19 aprile 2019
Venerdì santo
omelia per la liturgia della croce
Gv 18,1-19,37
Carissimi,
con il racconto della passione e della morte di Gesù il lungo cammino quaresimale verso la Pasqua giunge a un punto culminante. E colpisce che al cuore della fede cristiana, dell’evangelo, della buona notizia della salvezza, vi sia una storia di violenza, una storia intrisa di violenza, di violenza debordante e traboccante. Violenza molteplice e articolata, violenza rozza e brutale, fisica e verbale, morale e psicologica, sul corpo e sull’anima, individuale e di gruppo. Seguendo il filo della narrazione del IV vangelo troviamo la violenza di un discepolo di Gesù, Pietro, che sfodera e usa la spada, la violenza del cinismo di Caifa (“Conviene che muoia un solo uomo per il popolo”: Gv 18,14), la violenza fisica di una guardia che percuote con schiaffi Gesù, la violenza della massa, del branco, della folla urlante che sceglie la libertà di un brigante e invoca la crocifissione di Gesù, la violenza dei sacerdoti che sobillano e manipolano le folle, la violenza brutale dei soldati che scherniscono e deridono Gesù infierendo sul suo corpo inerme e torturandolo, la violenza della codardia e della pusillanimità di Pilato che, pur convinto dell’innocenza di Gesù, lo fa flagellare e lo consegna alla morte, ovvero la violenza del potere, dell’interesse personale da difendere ad ogni costo, anche a costo della verità e della coerenza personali, anche a costo di passare sopra la vita degli altri, e poi la violenza della menzogna, del carattere menzognero delle accuse contro Gesù che Pilato stesso constata ripetendo per tre volte che non trova in Gesù nessun motivo di condanna, e infine la violenza del denudamento del condannato a morte, la violenza dell’esecuzione capitale con la morte infamante e dolorosa della crocifissione. L’elenco potrebbe essere arricchito con i racconti della passione degli altri vangeli.
Ma tutto questo non deve stupire. Noi ci siamo preparati a questo venerdì santo attraverso Salmi che parlano del giusto che costantemente è sottoposto a violenza: spiato, accusato, fatto vacillare, deriso, calunniato, disprezzato, ingannato. “Tutto il giorno tramano contro di me, cercando di farmi cadere, mi spiano per uccidermi, si preparano strumenti di morte, scagliano come frecce parole amare”. L’ambiente del giusto è l’ingiustizia. Egli forgia la sua giustizia in mezzo all’ingiustizia e alla violenza, alla violenza strisciante e dilagante, sottile e grossolana, circondato da nemici che altro non possono essere che coloro presso i quali vive, accanto ai quali passa i suoi giorni, essendo presenza assillante, costante e quotidiana che lo accerchia, lo minaccia, lo perseguita, gode nel farlo cadere. Nemici che altro non possono essere che i fratelli e gli amici: “Queste ferite le ho ricevute in casa dei miei amici” dice il giusto nella profezia di Zaccaria rispondendo alla domanda: “Perché quelle ferite nelle tue mani?” (Zc 13,6). Di fronte alla violenza sorge una domanda elementare e che tuttavia sembra non trovare mai e non aver trovato ancora risposta: e la domanda è un semplice ma radicale perché? Perché quelle ferite? Perché mi fai il male?
Se ci atteniamo al IV vangelo vediamo che esso ci presenta Gesù sotto processo non solo nel momento dell’arresto, ma durante tutto il suo ministero pubblico: sempre Gesù è sottoposto a interrogatorio, sempre gli avversari, che in realtà sono “i suoi”, come li chiama il IV vangelo (“venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto”: Gv 1,11), cercano motivi per metterlo a morte (Gv 5,18; 7,1.19.20.25; 8,37.40; 11,53). La vita di Gesù nel IV vangelo è costantemente minacciata di morte dai suoi nemici e di fronte a questo si leva la domanda di Gesù che non trova risposta: “Perché volete uccidermi?” (Gv 7,19). Anche al cuore del racconto della passione emerge una domanda che rischia di passare inosservata e di perdersi nel flusso del racconto, ma che invece deve essere posta in rilievo. La domanda è ancora un “Perché?”. La troviamo in Gv 18,23: “Perché mi percuoti?”. Lì è rivolta a una guardia che l’ha preso a schiaffi, ma la possiamo e dobbiamo applicare a tutti gli attori della violenza e a tutte le manifestazioni di violenza: perché? perché mi fai violenza? Di più. La dobbiamo estendere al di là della vicenda di Gesù e riferirla a ogni vittima di violenza, a ogni persona oggetto di violenza nella storia e nel mondo. E dobbiamo porla in bocca, anzi ascoltarla, anche quando è solo un grido inespresso e muto del cuore, a ogni vittima di violenza: perché mi viene fatto del male? Non ci è lecito non ascoltare e non farci eco di questa domanda di fronte a ogni corpo e a ogni volto umano che subisce violenza. E non possiamo non darvi voce quando essa rimane inespressa. Questo è compito profetico: dare voce al grido muto della vittima, dare voce alla sofferenza inferta all’uomo. Se là dove si leva il grido “perché mi fai del male?” c’è certamente ingiustizia, la condizione della verità e della giustizia è che si renda eloquente tale grido di dolore. E non si tratta della domanda astratta: perché la violenza? Non si tratta di una speculazione filosofica sull’animo umano, sul fenomeno umano della violenza che è di ogni tempo e di ogni luogo, ma della domanda che riguarda una precisa persona a cui viene fatto del male, è la sua domanda. È domanda che risponde a un volto percosso, a un corpo respinto, a una persona umiliata o insultata o maltrattata. Anzi, come per Gesù che chiede “perché mi percuoti?”, quella è la domanda con cui l’uomo risponde al male che gli viene inferto, e rispondendo chiede conto, chiede assunzione di responsabilità del male commesso. Quel “perché?” è la risposta interpellante della vittima del male. È espressione di stupore, di sconcerto e di incomprensione e diviene, al di là anche delle intenzioni della vittima, il tentativo di ricondurre alla ragione e al dialogo chi con la violenza si rifiuta sia di dialogare che di ragionare.
Ora, con quella domanda Gesù ha dato voce a tutte le vittime della storia a cui viene fatto il male. Il IV vangelo, infatti, presenta il Gesù flagellato, deriso, esposto a pubblico ludibrio, coronato ironicamente di spine, vestito di porpora come un re, ma denigrato nella sua palese debolezza e inermità. E di lui si dice: “Ecco l’uomo!” (Gv 19,5). Sì, è l’uomo, è l’uomo Gesù, è l’uomo come Dio lo vuole, è l’uomo che rifiuta di fare violenza e sceglie piuttosto di subirla, ma poi è ogni uomo, ogni essere umano, ogni uomo e ogni donna, l’essere umano che è re, che è portatore di una dignità regale, ma che è vilipeso, violentato, torturato, calunniato, ucciso, costretto a subire guerre, cacciato dalle sue terre, obbligato a fuggire, a separarsi dalla famiglia, e viene respinto o trova la morte nel suo cammino verso la libertà. Ecce homo: questa espressione evangelica è al contempo parola di rivelazione e parola di denuncia. Ed è parola che ci interpella.
Quella domanda posta da Gesù deve anzitutto mitigare i nostri istinti, deve renderci vigilanti su noi stessi perché non arriviamo noi stessi a fare del male a chi da noi si aspetta solo del bene. Quindi ai famigliari, agli amici, ai membri della stessa comunità. Vi è una violenza quotidiana e sottile che – senza spargimento di sangue, ma lasciando il cuore profondamente ferito – si gioca all’interno delle relazioni famigliari, dei rapporti tra fratelli, tra genitori e figli, tra uomo e donna. È la violenza dell’uomo che non sa addomesticare l’animalità che abita il proprio cuore, la violenza che comincia in forma nascosta, quasi impercettibile, e si insinua di soppiatto in uno sguardo, in un atteggiamento, in una frase, ma che può anche esplodere in maniera plateale con l’odio e la collera violenta. La domanda posta da Gesù deve aprire i nostri occhi perché impariamo a guardare le persone a partire dalla loro sofferenza, dal punto di vista del male che subiscono, e deve aprire le nostre orecchie perché impariamo ad ascoltare il gemito profondo che è al cuore dell’umano che è in ogni creatura: si tratta del lamento infantile di chi si aspetta che gli venga fatto del bene e incontra invece persone, ma poi anche strutture, istituzioni, leggi, burocrazie, che gli fanno il male. Vi è qui un compito per ogni credente e per ogni uomo, ma anche per la chiesa e la società. Solo persone che sanno ascoltare il grido “perché mi viene fatto dal male?”, che sono attente all’attesa di bene che abita in ognuno, che sono ferite dalla sofferenza patita da altri, possono creare relazioni rispettose dell’altro, possono entrare in rapporti in cui è fondamentale l’ascolto dell’altro uomo, possono tentare di elaborare politiche di accoglienza e di riconoscimento dell’umanità dell’altro, possono lavorare a normative e legislazioni che tutelino l’uomo nei suoi diritti, possono impostare azioni di carità e di giustizia che rispettino l’altro nella suaunicità, possono intessere rapporti che anche sul piano sociale evitino l’umiliazione dell’altro.
Dal vangelo non ci vengono solo risposte, ma anche domande. E l’evangelo che abbiamo ascoltato ci pone una domanda che è nostro compito far risuonare in noi: perché mi fai del male? Ma questa domanda può risuonare anche in altre forme. Per esempio: perché ci facciamo del male gli uni agli altri? Perché ci facciamo del male anche nelle relazioni famigliari e domestiche, tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra amanti e tra amici, tra persone di una stessa comunità, nella chiesa e nella società? Perché ci facciamo del male, mentre cerchiamo per noi e, normalmente, vogliamo il bene anche per gli altri? Il Cristo da cui proviene la domanda ci indica anche la via della risposta. Anzi, lui stesso è anche la risposta. Guardare l’altro ascoltando l’anelito del suo cuore a ricevere il bene, esattamente come anche noi ci attendiamo il bene, e ascoltare il grido dell’altro che si chiede perché gli venga fatto il male, inorridendo come se a noi stessi venisse fatto quel male, questo ci è chiesto per accedere a quella dimensione umana che trova in Gesù la sua icona, la sua piena realizzazione, la sua perfezione, come la indica il IV vangelo: Ecce homo. Ecco l’uomo.