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Goffredo Boselli "Celebrare la Pasqua nell’AD 2019"

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Con la Domenica della palme anche quest’anno la Chiesa entra nella Settimana santa per celebrare i giorni della passione, morte e risurrezione del Signore. Come ogni altra, anche questa Pasqua non è celebrata al di fuori del tempo e della storia, ma sarà la santa Pasqua dell’AD 2019.
Segno oltremodo eloquente di questa consapevolezza sarà, nella liturgia del fuoco della Veglia pasquale, il rito di incisione della cifra dell’anno corrente, accompagnato della formula: “Cristo alfa e omega, Principio e fine, Alfa e Omega. A lui appartengono il tempo e i secoli …”. Il cero pasquale, segno della luce di Cristo, porta dunque iscritto l’anno, a significare che il mistero pasquale e il realissimo tempo che viviamo si appartengo a vicenda fino a iscriversi l’uno nell’altro. Ma significa anche che i cristiani che celebrano la Pasqua sono credenti di oggi, non di ieri o di domani, completamente immersi nel loro tempo. Non possiamo celebrare la Pasqua nell’anno del Signore 2019 nonostante gli eventi vissuti e tantomeno ignorandoli, ma dentro questi fatti, direttamente implicati e responsabili di fonte ad essi. La Pasqua è annuncio della vittoria della vita di Cristo sulla morte e per questo è la vita vissuta e ancora da vivere, nella sua immediatezza e concretezza, che è il tempo e il luogo di effettivo esercizio della fede pasquale.

I cristiani che sono in Italia giungono a celebrare la Pasqua del Signore portando con loro fatti ed avvenimenti molto precisi, ancora ben presenti nella loro memoria, episodi e vicende di persone, situazioni e condizioni di vita, contesti e circostanze di dolore particolarmente attinenti a quanto vissuto da Gesù negli ultimi suoi giorni, lui la vittima dell’umana disumanità.

L’eucaristia è nata in un contesto di sofferenza

Così, anche quest’anno, alle prime luci della sera del giovedì santo, le comunità cristiane daranno inizio al Triduo Santo con la memoria della Cena del Signore. Durante l’ultimo pasto con i suoi discepoli Gesù compie il gesto eucaristico: spezza il pane e lo condivide con i suoi e così beve al calice e lo condivide con i suoi. Nel vangelo secondo Giovanni Gesù lava i piedi ai discepoli, un gesto che non sostituisce l’eucaristia ma che ne rivela, in altra forma, il senso e la verità.

In quella cena, Gesù annuncia come imminente la sua morte, a Pietro il suo rinnegamento, ai discepoli il tradimento di uno di loro e la fuga e l’abbandono da parte di tutti. Nel vangelo secondo Luca, quella cena è “anche” (sottolinea l’evangelista) il momento dove tra discepoli nasce la discussione “chi di loro fosse da considerare più grande” (Lc 22,24-27). Esattamente perché ha origine in un conteso di morte, angoscia, tradimento, abbandono, lotta per il potere, ma al tempo stesso anche amore “fino alla fine” (Gv 13,1), consegna incondizionata, perdono unilaterale e fraternità gratuita, l’eucaristia è la risposta di Gesù al dolore suo e dei suoi discepoli: sarà per sempre pane e vino, ossia cibo e bevanda per la comunità cristiana, il suo sacramento della vita.

L’eucaristia è nata in un contesto di sofferenza per rendere i cristiani uomini e donne sensibili alle sofferenze e ai sofferenti. L’eucaristia è “il pane della vita e il calice della salvezza” (Preghiera eucaristica II) perché chi vi si nutre si alimenta di un modo nuovo e diverso di vivere la sofferenza propria e di vedere la sofferenza degli altri. “Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli … fa’ che ci impegniamo lealmente al servizio dei poveri e dei sofferenti” (Preghiera eucaristica V), domandiamo in una preghiera eucaristica.

Non si dà fede eucaristica senza responsabilità eucaristica

La celebrazione eucaristica è il luogo della fraternità chiamata a diventare solidarietà, dove i bisognosi sono i primi nella considerazione e nella carità dei cristiani. Sì, l’eucaristia è il più alto magistero di umanità, perché nella frazione del pane c’è racchiuso un realismo umano altissimo, quel realismo che ci ricorda che non possiamo ricevere in modo innocente il pane di vita senza condividere il pane per la vita con chi è nel bisogno. Tutta l’umanità racchiusa nel gesto di spezzare il pane e donarlo, svela al tempo stesso tutta la disumanità del gesto non compiuto e dunque del rifiuto di spezzare il pane e condividerlo con chi e affamato.

Non possiamo non riconoscere come in questi ultimi anni fino a i fatti dell’agosto 2018 nella scandalosa vicenda della nave Diciotti (e di altre simili vicende che ne sono seguite e ancora avvengono), la Chiesa che è in Italia – grazie alla CEI, alla Caritas e a tante altre realtà cattoliche e di altre confessioni – di fronte al fenomeno della migrazione, che non è più un’emergenza ma da tempo ha assunto le dimensioni di una tragedia umanitaria, ha mostrato di essere cosciente che celebrare con consapevolezza una liturgia umana altro non significa che prendere coscienza e tradurre nei fatti che la nostra fede eucaristica ci chiama ad assumere una responsabilità eucaristica, a vivere un’etica eucaristica che consiste in una rinnovata forma di solidarietà, di fraternità e dunque di un’umanità più profonda nei confronti dei bisognosi. Non si può celebrare ogni domenica l’eucaristia e pensare di poter giustificare e tanto meno approvare atti di vera e propria disumanità verso i migranti che muoiono di fame e di sete non solo di pane e di acqua ma di riconoscimento della propria dignità umana.

Nel discorso al congresso eucaristico di Filadelfia del 1976, Pedro Arrupe sj. ha pronunciato parole di fuoco che oggi interpellano noi cattolici italiani con particolare forza: “Se in qualche parte del mondo esiste la fame, la nostra celebrazione eucaristica in tutte le parti del mondo è in qualche modo incompleta. […] Nell’eucaristia riceviamo il Cristo che ha fame nel mondo. Egli ci viene incontro non da solo ma assieme nei poveri, agli oppressi, agli affamati della terra” (P. Arrupe, “Fame di pane e di Vangelo”, in Profezie per l’oggi, a cura di E. Bianchi, Edizioni Qiqajon, Magnano 2016, p. 191).

Il Cristo che nell’eucaristia ci viene incontro con l’umanità dei poveri, con la fame e la sete dei miserabili che approdano sulle nostre coste e varcano i nostri confini, dei disperati che attraccano ai nostri porti, che muoiono nelle nostre acque, nel mare nostrum. La nostra eucaristia è una richiesta nel mondo a favore dell’accoglienza e dell’integrazione delle etnie e dei popoli, una protesta contro l’enorme fossato di disuguaglianza che oggi polarizza le nostre società, una chiamata ineludibile all’ospitalità e alla convivialità contro ogni esclusione, segregazione ed emarginazione, un invito senza condizioni alla tavola dei popoli. Affermando con parresia evangelica questo, la Chiesa che è in Italia esperimenta oggi l’anomala situazione di essere profetica non solo nei confronti della società italiana ed europea ma, cosa del tutto inedita, di essere profezia anche al suo interno, anche nei confronti dei suoi stessi fedeli, di un certo numero di coloro che formano le assemblee eucaristiche domenicali. Ma non è possibile essere umani quando celebriamo i riti ed essere disumani quando usciamo da chiesa.

Farsi prossimo significa farsi umano e oggi il nostro prossimo è l’uomo aggredito dai briganti che troviamo non sul bordo della strada ma su una barca in mezzo al mare. I briganti che portano via tutto, percuotono a sangue e se ne vanno sono l’economia che uccide, il sistema finanziario che rende schiavi, le multinazionali che sfruttano le risorse dell’Africa, le cause farmaceutiche che gonfiano i prezzi di quei farmaci che potrebbero salvare milioni di persone, i governati che per difendere interessi nazionali decidono, scatenano e finanziano guerre fratricide.

A molti è probabilmente capitato di fare un raffronto tra la parabola del giudizio finale del capitolo venticinquesimo del Vangelo secondo Matteo e la vicenda di tanti uomini, donne e bambini costretti per le guerre e la fame lasciare i loro paesi ed emigrare. Quando infatti guardiamo all’esperienza dei migranti oggi, vediamo che sono affamati nella loro patria, assetati quando attraversano il deserto, nudi dopo esserestati derubati di tutto, spesso anche dei loro vestiti, incarcerati nei centri di detenzione della Libia, ammalati negli ospedali, e poi, destinati ad essere per l’intera vita degli stranieri. E come non vedere nell’uomo della croce, colui che grida “ho sete”, l’uomo denudato, incarcerato, coperto di ferite.

Johann Baptist Metz, il teologo della memoria passionis, al tempo stesso passione di Dio e dell’uomo, in una pagina giustamente famosa così descrive l’eucaristia:

“Io credo che il pane di vita eucaristico produca, in coloro che di esso si nutrono, che lo usano come alimento del proprio vivere, una specie di ‘rivoluzione antropologica’. Sarebbe questo, in certa misura, il contributo che il cristianesimo offre per superare la crisi di sopravvivenza oggi imperante. In prima linea non è un problema cosmologico, ma antropologico e politico, né vedo come senza questa rivoluzione antropologica si possa risolvere questa crisi di sopravvivenza se non in modo catastrofico. Se in questa crisi noi cristiani non vogliamo limitarci soltanto a seguire le strategie di sopravvivenza cui ricorrono i popoli ricchi e potenti, a spese di altri poveri e favorire la resistenza contro una catastrofe che «consiste appunto nel fatto che si continua ad andare avanti come sempre»” (J.B. Metz, Al di là della religione borghese. Discorsi sul futuro del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1981, p. 53).

A questa Pasqua 2019 le comunità cristiane giungono con il carico, le fatiche e anche la responsabilità di ciò che in Italia abbiamo vissuto in quest’anno. Come ogni volta, daremo inizio alla celebrazione del santissimo Triduo della passione, morte e risurrezione del Signore con la memoria della Cena del Signore, ma questa volta, molto più di altre, portiamo in questa eucaristia il dolore, la sofferenza, l’angoscia e la morte di tante persone, ma anche l’amore, la condivisione, la solidarietà di tante altre, nella consapevolezza che l’eucaristia, magistero di umanità, è fermento di una vera e propria rivoluzione antropologica di fronte a ogni forma di disumanità.

Goffredo Boselli, monaco di Bose

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