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Giuseppe Ruggieri "Cristo non è un cognome"

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PER UNA LETTURA MESSIANICA DELLA CRISI

I nomi da dare alle cose non a partire da sé, ma a partire dagli altri. Uno della Trinità ha patito: la sofferenza entra in Dio che si scambia con gli uomini, la prassi messianica è assumere la sofferenza e rendersi vicini all’uomo sfinito. “Il messia sono io”

Giuseppe Ruggieri


Quella che voglio offrirvi è una meditazione teologica sulla crisi che stiamo attraversando. Il Novecento è stato percorso da crisi varie. Quella che oggi caratterizza il nostro essere in questo mondo trova la sua origine nella dissoluzione dell’Impero sovietico dal dicembre 1990 al dicembre 1991, con il conseguente trionfo dell’economia occidentale come unico vincitore rimasto sul terreno, trova la sua articolazione politica nel discorso del presidente Bush dell’11 settembre 1990 sul “nuovo ordine mondiale”, sfocia nella criminale guerra all’Iraq ad opera delle potenze occidentali, compresa la nostra, matrice vera del fondamentalismo violento dell’Islam, ma corrode anche al suo interno la cultura dell’Occidente. Lo Stato di diritto è in frantumi, le grandi dichiarazioni sulla pari dignità delle donne e degli uomini tutti, a partire da quella delle Nazioni unite del 1948 sono diventate carta straccia.[1] Di questa crisi tuttavia non dobbiamo mai occultare il vero agente, più o meno occulto e ultimo beneficiario: il capitalismo finanziario.

Il teologo non ha in proprio analisi da offrire in concorrenza con le letture sociologiche, economiche, culturali. Come diceva il vecchio Karl Barth egli è unicamente affidato alla lettura dei giornali e alla Bibbia. Ed è alla luce della Parola di Dio che cerca di comprendere il senso di quello che ci sta succedendo, di quanto raccontano i giornali e gli altri mezzi di comunicazione. Alla sorgente della Parola attinge i nomi da dare alle cose. Impresa certamente difficile, ma compito urgente e necessario per ogni scriba “divenuto discepolo del regno dei cieli, simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13, 52).

Il coraggio di dare un nome alla crisi

«Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in Borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”»[2].

Cosa dice papa Francesco in questo brano della sua esortazione “Evangelii Gaudium”? Non emette una teoria economica, non fa un’analisi sociologica. Enumera alcuni dati che sono sotto gli occhi di tutti.

Il primo tocca la prassi della comunicazione, ciò che fa notizia nei giornali e nella televisione di ogni giorno: non fa notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre fa notizia il ribasso di due punti in Borsa.

Il secondo fatto si riferisce ad un costume purtroppo diffuso: si getta il cibo, quando c’è gente che soffre la fame.

A questi fatti papa Francesco dà una serie di nomi: la prassi della comunicazione nella nostra società si chiama “esclusione”, mentre lo spreco del cibo quando ci sono affamati che ne hanno bisogno, si chiama inequità. Gli altri nomi dati a questi fatti sono perifrasi di questi due: la legge del più forte, la cultura dello scarto; gli esclusi in particolare vengono chiamati rifiuti, avanzi.

I nomi che il papa dà ai fatti sono già per se stessi – attenzione! – un giudizio netto, di ordine morale, che sfocia in una pratica: non si può più tollerare il fatto, oggi dobbiamo dire no a un’economia dell’esclusione e dell’inequità. Quei nomi rivelano cioè, per il fatto stesso di essere pronunciati, l’opzione etica del papa. Non sono argomenti; dare il nome non è un argomento, è la fonte degli argomenti. Dare il nome è un atto primario, costitutivo dell’essere umano.

Qual è infatti la portata dell’atto del nominare? La Genesi, nella seconda narrazione della creazione, dice che non è Dio che dà il nome all’uomo, ma è l’uomo che riceve il potere di dare i nomi: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici” (Gen 2, 19-20a). E poi man mano per sempre l’uomo darà il nome ai propri figli, a cominciare da Eva. È lei che chiama il suo primogenito “Caino” perché è convinta di averlo acquistato da Dio (dal verbo qanah, in ebraico).

Nell’atto di nominare si celebra la libertà dell’uomo

Il testo della Genesi fa una distinzione che a noi può apparire strana. Dio “sta a vedere” come l’uomo chiama gli esseri viventi, non le cose inanimate. Dare il nome è un compito che ci viene affidato lì dove c’è vita. Dio ci affida questo compito e sta a vedere, per “vedere” il nome che diamo a tutto ciò che vive, nome che quindi risulta imprevedibile, proprio perché dove c’è vita c’è la libertà. Colpisce anzitutto la passività di Dio rispetto all’uomo che deve dare un nome. Perché?

Nell’atto di nominare si celebra la libertà dell’uomo. L’uomo infatti proprio allora può mentire o non mentire, dare agli esseri viventi e ai loro rapporti un nome che non corrisponda alla realtà dei fatti, ma soltanto ai propri interessi. Questa è la menzogna, radice di ogni violenza, come spiega Gesù nel vangelo di Giovanni. Gesù rimprovera i Giudei (che per lo più, nel IV vangelo, stanno come sinonimo per il mondo che non crede, non in primo luogo per il popolo dei Giudei) rimprovera coloro che non ascoltano le sue parole e li chiama così, “figli del diavolo”, perché? Perché è il diavolo che fin dall’inizio è il principio di ogni violenza e menzogna. E ciò perché egli parla a partire dalle cose che gli appartengono (Giov 8, 43-44). La menzogna è dare un nome a partire da me, da ciò che è mio, mentre la verità è dare un nome a partire dall’altro.

Noi pensiamo che l’anziano che muore assiderato non faccia notizia, perché ci voltiamo dall’altra parte e preferiamo non essere disturbati nel nostro quieto vivere; consumiamo e buttiamo via più di quanto abbiamo di bisogno perché volutamente ignoriamo la fame degli altri. Per questo nella nostra società del cosiddetto benessere non si usa dare il nome a questi fatti, come invece fa papa Francesco. O meglio diamo altri nomi. Ad esempio, gli uomini e le donne che abbandonano il loro paese perché c’è la fame o la guerra, sono invasori, mettono a rischio i nostri posti di lavoro, sono terroristi. L’ultimo, il più terribile, lo abbiamo dato a quei migranti che hanno costretto il capitano della nave a non riportarli in Libia ma a portarli verso un porto sicuro. Li abbiamo chiamati “pirati”. Ecco la menzogna.

E allora comprendiamo perché Dio sta a vedere, come uno spettatore. E comprendiamo altresì la profonda intuizione, all’inizio del Novecento, dell’ebreo Walter Benjamin, in un meraviglioso articolo pubblicato anche in italiano, “sulla lingua dell’uomo”, secondo il quale l’uomo nel dare i nomi, rivela se stesso, si rivela a sé, agli altri, a Dio[3]. Perché dare il nome implica una scelta, o quella di parlare a partire dalle cose che ci appartengono, oppure di parlare a partire dall’altro, avvicinandosi a lui, con un atto di responsabilità nei suoi confronti, ascoltandolo.

Il nome dato da Gesù

Chiediamoci allora quale fu il nome che Gesù diede a coloro che papa Francesco ha chiamato esclusi, deboli, scarto operato dall’economia che guida il nostro sistema. Per comprenderlo, dobbiamo partire dalle sue scelte, quelle che segnarono la sua esistenza pubblica. Furono tre le scelte di Gesù, fondamentali. La prima fu quella di mettersi al seguito di Giovanni Battista e forse, stando almeno alla notizia del IV vangelo (Giov 3, 22-26) si mise a battezzare come lui. Ma poi ne prese le distanze e fece una seconda scelta che, come dice il padre Nolan, il domenicano che vive in Sudafrica e ha ispirato la lotta all’ “apartheid”, è una “chiave insostituibile per comprendere la mente e le intenzioni di Gesù”. Questi ritenne che non era prioritario invitare il popolo a farsi battezzare con un battesimo di penitenza. “Egli decise che era necessario qualcosa d’altro, qualcosa che aveva a che fare con i poveri, i peccatori e i malati – le pecore perdute della casa d’Israele.”[4]

La terza scelta poi fu quella di affrontare la morte. Ma fermiamoci per ora alla seconda, perché è quella che ci fa comprendere meglio le parole di Francesco.

Chi erano coloro ai quali Gesù volse la sua attenzione? I vangeli li indicano con termini vari: poveri, ciechi, storpi, lebbrosi, affamati, quelli che piangono, peccatori, prostitute, agenti delle tasse, ossessi, perseguitati, prigionieri, affaticati e oppressi, piccoli, ultimi, folla che non conosce la legge. Secondo l’opinione dei farisei, espressa in Giov 7, 49, «questa gente che non conosce la Legge è maledetta». Per Gesù invece la folla è: “pecore che non hanno un pastore” (Mc 6, 34 = Mt 9, 36). Matteo in aggiunta sottolinea due volte che Gesù “è stato inviato alle pecore perdute della casa di Israele” (Mt 15, 24; cf. 10,6). A tutti costoro, assieme ai miti, ai puri di cuore, agli operatori di pace, ai perseguitati per la sua causa, ai quali egli si sente inviato per annunciare l’amore del Padre, Gesù dà un nome: “beati”. Non è un nome che hanno ricevuto per la posizione che occupano, né perché soffrono. No, è il nome che Gesù dà a partire dalla sua conoscenza del Padre. Il nome che Gesù dà lo può dare solo lui, perché viveva nell’intimità del Padre. Perché nelle Beatitudini “beati” significa semplicemente questo: quelli che Dio predilige nel mondo. Soffrano o non soffrano, questo è il significato; lo ha spiegato molto bene il padre Dupont nel suo grande Commentario alle Beatitudini. Questo è il significato del termine “beati”. Quelli che Dio ama.

Cosa muove allora Gesù a dar loro questo nome? I vangeli sinottici ci aprono uno spiraglio dicendoci che Gesù nei loro confronti aveva un sentimento di partecipazione alla loro sofferenza di tipo “fisico”, “corporeo”; i vangeli usano un termine che ha sempre un significato messianico: Gesù sentì “nelle viscere” – (noi abbiamo tradotto questa parola con “compassione”, non dice molto, bisogna tradurla alla lettera) – si sentì sconvolto “nelle viscere” al vedere quella gente Quello è il termine che usano i vangeli. Si tratta del verbo splanchnizomai (alla lettera: commuoversi nelle viscere), applicato esclusivamente a Gesù (con pochissime eccezioni che confermano l’uso cristologico).

Allora perché noi chiamiamo Gesù Messia? Gesù non fu come tutti i messia proclamatisi in quel tempo: chi era un sollevatore politico, chi era atteso come il condottiero che avrebbe portato la guerra contro i Romani, contro i nemici di Israele ecc. I discepoli lo chiamarono così perché il più grande dei profeti, Isaia, aveva predetto che questa figura attesa, il Servitore di Dio, si sarebbe caricato delle nostre sofferenze, uomo dei dolori che ben conosce il patire, e, mentre noi tutti eravamo come un gregge e ognuno di noi seguiva la sua strada, lui fu condotto come pecora muta al macello. Ma Dio stesso gli avrebbe dato una discendenza (cf. Is 52, 13 – 53, 12, il quarto canto del Servitore). E quindi sebbene Gesù non si fosse mai chiamato messia, i discepoli lo chiamarono prevalentemente così, senza disdegnare altri nomi (Figlio dell’uomo, Figlio di Dio, Signore, ma anche “servo” come attesta il Pastore di Erma, etc., ). Fu per questo motivo che le profezie di Isaia diventarono per i primi discepoli una griglia attraverso la quale leggere la vicenda di Gesù di Nazaret.

E allora: le vittime della crisi vengono chiamate esclusi e merce di scarto da Papa Francesco il quale proprio così dice la verità, e si rivela a sé, a noi tutti e a Dio; Gesù dà loro il nome di beati perché lui conosce i sentimenti del Padre e noi diamo a Gesù il nome di messia perché conosciamo che egli si è caricato dei nostri dolori ed è stato per questo esaltato dal Padre. Ma fin dalle origini, a partire da Antiochia nel primo secolo, noi ci chiamiamo cristiani, cioè messianici, perché Cristo significa messia, e cristiani significa messianici; ma ormai abbiamo tutti scambiato Cristo per un cognome e perciò c’è poco da fare…

Il messia sono io
(cioè noi tutti)

Emmanuel Lévinas, autore rigorosamente ebreo anche se grande amico dei cristiani, fino ad accettare di fare una conferenza sul significato filosofico dell’incarnazione (Un Dio uomo?),[5] raccolse nel 1963 una serie di testi pubblicati lungo una ventina d’anni nei quali risale alle sorgenti del pensiero ebraico, che – dice lui – l’Occidente cristiano aveva occultato. Uno di questi testi è dedicato all’identità del messia. Per spiegare quale sia questa identità (Lévinas era un ebreo, non aspettava un Messia), per spiegare chi dovesse essere considerato messia Lévinas, alla maniera di un vero e proprio maestro talmudico, citava un brano della Bibbia, quindi l’interpretazione che ne aveva dato un rabbino del passato, e quindi la sua interpretazione (lui amava fare letture dei testi del Talmud avendo appreso l’esegesi talmudica alla scuola di un grande maestro di cui non conosciamo il nome). Il brano della Bibbia commentato da un maestro del passato è quello di Geremia 30, 21, che riporta le parole del profeta sulla restaurazione futura di Israele,: “Avranno come capo uno di loro, un sovrano uscito dal loro popolo; io lo farò avvicinare a me ed egli si accosterà. Altrimenti chi rischierebbe la vita per avvicinarsi a me? Oracolo del Signore”. Il maestro è un certo Nachman, un maestro talmudico vissuto in Babilonia e morto nel 320 d. C., che commentava così: Se è tra i viventi allora sono io. È scritto: «Il suo capo sorgerà dal suo interno, e il suo sovrano dai suoi ranghi».

Di questo commento di Nachmann tradizionalmente, dice Lévinas, si dava questa interpretazione: siccome lui si riteneva un discendente di David, allora se il messia è uno del suo popolo, diceva, sono io! No, non è questa l’interpretazione dice Lévinas e propone un’altra interpretazione: “il Messia è il principe che governa in maniera tale che la sovranità non sarà più sottratta a Israele. È l’interiorità assoluta del governo. C’è forse un’interiorità più radicale di questo, in cui il Me comanda a se stesso?” (Lévinas chiama l’Io “Me”, come complemento oggetto, perché l’Io si costituisce per Lévinas solo quando diventa responsabile dell’altro. Questo è l’ipseità, quando io posso dire Me a qualcuno che mi risponde e mi sta di fronte e soprattutto assumo la sua sofferenza). Continua Lévinas: “Il Messia è il re che non comanda più dal di fuori: questa idea di Geremia è condotta da Rav Nachman fino alla sua logica conclusione. Il Messia sono Me, ed essere Me è essere Messia. Si vede dunque che il Messia è il giusto che soffre, che egli ha preso su di sé le sofferenze degli altri. D’altra parte, chi è che prende su di sé le sofferenze degli altri se non colui che dice “Me”? L’ipseità è definita da questo non sottrarsi al peso che impone la sofferenza degli altri. Tutte le persone sono Messia.” [6]

Non sto a spiegare il pensiero di Lévinas e la sua filosofia della coscienza umana. Mi limito a dire, che contrariamente a tutto l’idealismo e alla stessa fenomenologia di Husserl e Heidegger, egli era convinto che noi perveniamo alla coscienza di noi stessi non nell’autoaffermazione della nostra identità rispetto a tutto ciò che è diverso da noi, ma solo nell’incontro con l’altro. L’io autentico è quello che comanda a se stesso, ma perviene a questo stato solo nella misura in cui ha preso su di sé la sofferenza degli altri. Ma è proprio questa la concezione tradizionale ebraica della figura del messia. E non a caso il capitolo centrale del libro della sua maturità, Altrimenti che essere, è dedicato proprio a questo, alla “sostituzione”, perché l’uomo che veramente arriva a se stesso è colui che si sostituisce all’altro.

Il ministero dello scambio

Per me, leggendo le sue pagine, è stata immediata la coincidenza del suo pensiero con quello di un altro grande ebreo, Paolo, sullo “scambio” come centro profondo del vangelo e del suo messaggio. Si tratta del testo di 2Cor 5, 17-21, ma tradotto da un grande teologo tedesco, Erich Przywara, tradotto anche qui alla lettera. Come io ho tradotto alla lettera lo splanchnizomai, così lui traduce alla lettera la parola katallagé di Paolo, che significa “scambio”. Noi lo traduciamo per lo più in “riconciliazione”, ed è un significato possibile perché è derivato, però il significato principale è “scambio”. Dio ci ha scambiato con se stesso in Gesù Cristo e Gesù, che non conosceva peccato, è stato fatto perfino peccato da Dio, scambiato con l’uomo peccatore, sostituito a noi, e Gesù ci ha lasciato “il ministero dello scambio”, cioè della sostituzione all’altro. Questo è l’essere messianico. È per questo che Lévinas può dire: il messia sono io, ed è per questo che se credete in Gesù potete dire – ognuno di voi – : il messia sono io. Rileggiamo pertanto in tal modo quel brano di 2Cor 5, 17-21:

«17Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.18Tutto questo però viene da Dio, che ci ha scambiati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero dello scambio. 19Era Dio infatti che scambiava con sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola dello scambio. 20In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi scambiare con Dio. 21Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.»

Il testo della 2° ai Corinti è un testo densissimo, che contiene tutto il vangelo, e unisce in un nesso ormai inestricabile la realtà dell’uomo storicamente esistente e il Padre di Gesù. Giacché l’uomo non è natura o essenza astratta, ma è sempre carico di storia, quella del rifiuto e quella del desiderio dell’amore. Le religioni che cercano di ricostituire e mantenere il legame dell’uomo con Dio sono tutte strade di purificazione dell’uomo dal peccato, in diverso modo dal buddismo a tutte le altre. Il cristianesimo no. Il cristianesimo annuncia il perdono mentre l’uomo è peccatore, annuncia l’amore e impone di proclamare l’amore mentre l’uomo è peccatore. “In questo Dio ci ha dimostrato il suo amore per noi perché il Figlio suo, mentre eravamo peccatori, è morto per noi”.

La prassi messianica

Dice il papa nell’intervista che dà al direttore della Civiltà Cattolica nell’agosto del 2013:

«Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità[7]. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».[8]

L’immagine della Chiesa come ospedale da campo, in cui il medico di fronte alla gravità delle ferite, non sta a indugiare sulle condizioni del ferito, ma interviene immediatamente, è alquanto strana. È la negazione di qualsiasi ideologia religiosa, di qualsiasi dottrina del diritto naturale sulla quale è stata costruita la cosiddetta dottrina sociale della chiesa, di qualsiasi filosofia politica che ha guidato il cosiddetto impegno politico dei cattolici. Il papa dice che tutto ciò è secondario davanti all’impegno primario: anzitutto curare, “poi potremo parlare di tutto il resto”.

Il criterio primario

La sofferenza dell’altro diventa così il criterio primario che deve spingere la mia coscienza ad agire, mi deve rendere responsabile. Nel libro di Giobbe c’è a tal proposito un testo bellissimo che io amo forse più di tutti gli altri testi della Bibbia. Dice: “All’uomo sfinito è dovuta pietà/hesed dagli amici, anche se si fosse allontanato dal timore di Dio” (6, 14). Davanti all’uomo sfinito non c’è religione, non c’è nulla, c’è semplicemente da rendersi vicini a lui, con l’hesed, che indica pietà, solidarietà, misericordia. La distretta umana – anche quella del peccato – esige comunque la pietà/hesed, termine che nell’AT comprende quello di misericordia. La sofferenza per il vangelo di Gesù è più di un sacramento. Come dice papa Francesco nella Evangeli Gaudium è la stessa “carne sofferente di Cristo nel popolo”.[9]

“Deus patiens”

Se non comprendiamo tutta la portata teologica e umana della sofferenza, ogni discorso sulla prassi dei cristiani, cioè dei messianici, diventa profondamente falsata. La portata teologica della sofferenza la dobbiamo leggere nella stessa storia della fede in Gesù come Messia. I discepoli all’inizio rifiutarono quella che ho chiamato la terza scelta di Gesù: la disponibilità ad affrontare la morte. Nel modo più realistico e crudo ce lo dice il vangelo di Marco che nota, al momento dell’arresto di Gesù, come “tutti allora abbandonandolo fuggirono” (Mc 14, 50). Quando i discepoli superarono lo choc e cominciarono a sperimentare il Crocifisso risorto ancora presente in mezzo a loro, dovettero accettare che la sua morte coinvolgeva la volontà stessa di Dio che, proprio per il dono totale che egli aveva fatto della sua vita, lo aveva esaltato. Da quel momento coloro che credettero e continuano ancora adesso a credere in Gesù sono obbligati a comprendere il nesso tra sofferenza e Dio. Il IV vangelo formula chiaramente il nodo che le generazioni seguenti dovevano sciogliere: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. È questa la gloria del Figlio sulla croce, perché la gloria del Figlio, nel IV vangelo, è quella che appare sulla croce. Gesù nel quarto Vangelo risorge sulla croce. La gloria del Padre (anzi,stando al significato originale del termine kabod, che significa “pesantezza”), la pesantezza di Dio che irraggia la gloria del Padre si manifesta in colui che adempiendo la sua volontà accetta fino in fondo di donare la propria vita. Ma questo significa riportare la sofferenza del Crocifisso dentro Dio stesso. Ed è proprio qui che inizia il travaglio della mente dei cristiani. Giacché questo implica che la storia di Gesù, figlio di Dio, sia assunta all’interno della vita stessa di Dio, di un Dio che allora “patisce”, anzi “muore”, come Tertulliano enunciava già con semplicità e senza approfondimenti in Adversus Marcionem II, 16. E il nodo viene sciolto in qualche modo nel VI secolo con la cosiddetta formula teopaschita, sostanzialmente accolta da papa Ormisda nel 521: “Unus de Trinitate passus est”, e poi confermata nel 553 dal Costantinopolitano II che ci chiede di credere che “ al Verbo di Dio incarnato e fatto uomo, appartengono sia i miracoli che le sofferenze che volontariamente ha sopportato nella sua carne”.[10]

La sofferenza entra in Dio. Ovviamente c’è tutto un approfondimento teologico che si è misurato su questo, ed è uno dei temi più forti della teologia attuale. Ma questo è il punto: Deus patiens, un Dio che patisce, la sofferenza entra nella sfera propria di Dio. Ma alla luce di questo possiamo comprendere il detto di Giobbe: l’uomo che soffre, sia religioso o no, si sia allontanato o no dal timore di Dio, ha diritto alla nostra partecipazione, al nostro hesed che sta a significare “magnanimità, disponibilità dell’umano a rinunciare a se stessi ed essere per l’altro”[11]. La sofferenza è lo strato più profondo dell’umano, quello che richiede una solidarietà assoluta, senza condizioni. Nella sofferenza dell’altro, così com’è, nella sua cruda realtà, senza nessuna spiegazione aggiunta, neppure di ordine religioso, l’uomo è chiamato a rispondere di se stesso all’altro. È la sofferenza dell’altro che ci detta allora la prassi adeguata.

Questa fu la prassi messianica di Gesù davanti alle ferite non solo fisiche, ma anche morali della gente che incontrava. Ai peccatori e alle prostitute, emarginati dalla società religiosa del suo tempo, Gesù offre immediatamente la sua vicinanza, come prossimità dell’amore misericordioso di Dio. Al popolo della terra, am ha aarez, che egli percepisce come un gregge disperso egli si sente vicino in modo viscerale, si preoccupa della sua sussistenza, comanda ai discepoli di distribuire quel poco che hanno: non di moltiplicare i pani ma di distribuire quel poco che hanno, ciò da cui verrà la sovrabbondanza. Al lebbroso emarginato dalla società civile e religiosa, con gli stessi sentimenti, offre la possibilità di reintegrarsi subito nella società religiosa.

La lacerazione del 1789 determinò una svolta nella prassi dei cristiani. La chiesa si sentì estromessa dal nuovo assetto sociale e culturale. Quando cominciò lentamente, nel corso dell’800, a invitare i cristiani ad assumere la loro responsabilità nella società considerata nemica della Chiesa, lo fece in nome di una dottrina sociale che un grande storico e teologo al tempo stesso, come il padre Chenu, considerò una ideologia orientata al controllo delle dinamiche sociali.[12] Una ideologia che prendeva le distanze dalle altre concorrenti, come il liberalismo da una parte e il socialismo dall’altra, innalzando così steccati secondari rispetto alla prima urgenza, rappresentata dalla sofferenza delle vittime, e causando un enorme esodo del mondo operaio.

La prassi messianica non prende posizione di fronte alle ideologie. Parafrasando un detto di Gesù, potremmo dire che “Dio sa che avete bisogno di tutte queste cose”, il pane e tutto il resto. Ma il primato resta ad altro, al Regno di Dio annunciato alle vittime del sistema che ogni volta condiziona brutalmente il nostro essere nel mondo. Il cristiano, come Gesù resta un “apocalittico”, per lui “passa lo schema di questo mondo”, egli vive nella apokaradokia della creazione. Apokaradokia significa disperazione. È nella disperazione che la creazione attende la liberazione e la gloria dei figli di Dio (cf. Rom 8, 19-21), perché è stata sottomessa controvoglia al male, alla caducità. L’urgenza del cristiano è un’altra, curare le ferite, senza chiedere a nessuno chi sia, ma sapendo che egli resta amato da Dio, “beato”.

Questa non è una condanna delle ideologie e della politica che ad esse si alimenta. È soltanto il faro che il vangelo del messia Gesù accende sulle vicende della storia. E del resto a ben guardare cosa accomuna i politici più lungimiranti del secolo passato, pur così diversi gli uni dagli altri: da Gramsci, a Rodano, a Berlinguer, da Dossetti a La Pira, a Moro, se non la preoccupazione di alleviare le sofferenze delle vittime del nostro sistema? Ma qui, sulla politica, il discorso diventa diverso e non sta a me il parlarne.

Giuseppe Ruggieri

[1] Articolo 13:

Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.

Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.

Articolo 14:

Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.

Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.

[2] Evangelii Gaudium 53: 24 novembre 2013.

[3] “… l’uomo comunica la sua propria essenza spirituale nella sua lingua. Ma la lingua dell’uomo parla in parole. L’uomo quindi comunica la propria essenza spirituale (in quanto essa è comunicabile) nominando tutte le altre cose. … Non si obietti che non conosciamo altra lingua al di fuori di quella dell’uomo: che non è vero. Solo nessuna lingua denominante conosciamo oltre quella dell’uomo … L’essenza linguistica dell’uomo è quindi di denominare le cose.” Walter Benjamin scrisse il suo saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo nel 1916. Adesso in W. Benjamin, Opere complete I. Scritti 1906-1922, 281-301. La citazione a p. 281.

[4] A. Nolan, Jesus before Christianity, London 1992, 27

[5] Lévinas pronunciò quel testo alla Semaine des intellectuels catholiques sul tema Qui est Jésus Christ (Bruxelles 6-13 marzo 1968), su invito dello storico René Rémond che allora presiedeva il Centro cattolico degli intellettuali francesi. La sessione in cui prese la parola Lévinas era presieduta da Claude Bruaire.

[6] E. Lévinas, Difficile liberté,4 Paris 2006, 120.

[7] Prossimità è un’altra delle parole chiave di Lévinas per dire chi è il Messia.

[8] È il cuore del messaggio contenuto nella lunga intervista (ben 29 pagine della rivista) che Papa Francesco ha concesso al direttore di «La Civiltà Cattolica», padre Antonio Spadaro. Un colloquio di sei ore avvenuto il 19, il 23 e il 29 agosto 2013.

[9] Evangelii Gaudium, 24

[10] Conciliorum oecumenicorum denegeraliumque decreta 1, Turnhout 2006, 178.

[11] H.J. Stoebe, E. Jenni-Cl. Westermann, Theologisches Handwörterbuch zum Alten Testament, 1, Gütersloh 2004, 611.

[12] M.-D. Chenu, CHENU (M.D.) La Doctrine sociale de l’Eglise comme idéologie, Paris 1979
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