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Luciano Manicardi "Timore, tremore e gioia"

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18 aprile 2019
Giovedì santo
omelia in Coena Domini


Gv 13,1-15

1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. 2Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, 3Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 5Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto. 6Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?».7Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 8Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 10Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti».11Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.

Fratelli e sorelle, sorelle di Cumiana, amici e ospiti,

noi questa sera, con questa liturgia, cerchiamo di entrare nel mistero pasquale rivivendo i gesti e riascoltando le parole di Gesù durante l’ultima cena. In particolare, noi riviviamo il momento in cui, ponendo il gesto di lavare i piedi ai discepoli, Gesù ha posto anche il gesto fondativo della comunità cristiana, gesto più eloquente di molti discorsi, il gesto accompagnato da parole che non intendono semplicemente fondare la ripetizione di un rito, ma più radicalmente intendono fondare la qualità dei rapporti quotidiani all’interno della comunità cristiana. La quotidianità, infatti, è il luogo in cui si esprime la verità della fede, la verità dell’amore e la verità della speranza del credente. Perché è lì – nelle relazioni quotidiane, nei gesti e nelle parole, nei silenzi e nelle omissioni che ogni giorno intrecciano le nostre vite – che noi costruiamo la comunione di una comunità o la distruggiamo, che noi formiamo il corpo di Cristo o lo sfiguriamo.

E queste sono le parole di Gesù che accompagnano la lavanda dei piedi: “Se io, il Signore e Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (Gv 13,14-15). Questo è il dinamismo della vita ecclesiale, dove tutti, tutti, non uno solo, sono servi dei servi di Dio, ma questo è anche il dinamismo della vita di una comunità monastica. Un antico detto dei padri del deserto recita: “Ci sono tre cose preziose per i monaci alle quali dobbiamo accostarci con timore, tremore e gioia spirituale: la comunione dei santi misteri, la tavola dei fratelli e la lavanda dei piedi” (Serie anonima 85). Sì, è con tremore e con gioia che noi ci accostiamo a questo gesto; con tremore, perché in esso vi è la nostra responsabilità a cui non vogliamo e non possiamo sottrarci pur essendone certamente tentati; con gioia, perché in esso vi è anche tutta la gratuità del dono divino e dell’amore di Gesù Cristo.

Ci avviciniamo con tremore a questo gesto perché sappiamo che la sua verità è nel quotidiano, nel concreto farci servi gli uni degli altri, entrando in un dinamismo di amore che non chiede reciprocità, che anzi incontrerà ostilità e rifiuti, durezze e rigidità, incomprensioni e insofferenze, e che implica la fatica immensa di differenziare le parole e i gesti per sperare di raggiungere adeguatamente ciascuno. E sapendo che in esso saremo mancanti in molte maniere. Ma ci accostiamo anche con gioia grande, e noi siamo realmente, profondamente nella gioia, anche se gli eventi di cui facciamo memoria sono drammatici; sì, siamo nella gioia perché noi fissiamo lo sguardo su Gesù, colui che ha lavato i piedi a tutti noi, che ci ha amato fino alla fine deponendo la sua vita per noi. E Gesù, su cui fissiamo questo sguardo, ci dona pace. E diviene lui il fondamento del nostro vivere la comunione nella comunità.

Ed è guardando a Gesù che noi ora riascoltiamo il vangelo della lavanda dei piedi. Il passare del tempo ci conduce, anzi, quasi ci costringe, ci obbliga, a distogliere lo sguardo da noi stessi e da ciò e da quanti ci circondano, per volgere sempre di più lo sguardo del cuore su Gesù, perché solo questo sguardo ci dona pace e saldezza e ci dona anche la giusta luce e la necessaria lucidità per guardare noi stessi e gli altri. Guardare gli altri in Cristo: ecco il nostro mandato da cui scaturirà la possibilità di amarli come Cristo ha amato noi. Ed è proprio questo che ci viene chiesto oggi dal vangelo: come ho fatto io, fate anche voi. Come sono io, siate anche voi: cioè, servi gli uni degli altri. Quando Giovanni Cassiano, nel IV libro delle Istituzioni cenobitiche pone la lavanda dei piedi a fondamento dei servizi quotidiani e settimanali della vita comunitaria – i servizi spiccioli, invisibili, nascosti, poco gratificanti, poco appariscenti, a volte evitati dai monaci, spesso fastidiosi, sempre impegnativi – di molti cenobi da lui visitati in Oriente, afferma anche che coloro che smontano dal servizio “lavano i piedi a tutti”, chiedendo perdono per le eventuali omissioni o mancanze. Cioè, il gesto di Gesù di lavare i piedi ai suoi discepoli vuole ispirare l’azione di tutti e di ciascuno in comunità, il che significa che ognuno è chiamato non solo a lavare i piedi agli altri, ma anche a lasciarseli lavare, non solo a servire, ma anche ad accogliere il servizio degli altri.

La pagina evangelica si apre su un’annotazione che ci fa entrare nella vita interiore di Gesù. “Gesù sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre”. Tutti i gesti che Gesù compirà sono mossi da questo suo sapere e radicati in esso. Questo sapere è anzitutto coscienza, coscienza di fede. Non si dice infatti che Gesù sapeva che stava per morire, ma che sapeva che era giunta ormai l’ora di passare da questo mondo al Padre. La morte, certo, ma letta e assunta e creduta nella fede come pasqua, come passaggio, come esodo. Quella morte non è più fine, ma passaggio, compimento. E questa coscienza di fede viene ribadita come intima convinzione che egli sta per tornare al Padre dopo essere venuto dal Padre, e ancora che il Padre gli ha dato tutto nelle mani. Siamo di fronte al mistero della vita nascosta di Gesù con il Padre, la vita di fede che egli stesso vive e che gli consente di affrontare anche le prove drammatiche che gli stanno di fronte senza vacillare. O almeno, senza crollare, pur vacillando, pur provando turbamento e timore, come ci verrà detto poco dopo sempre nel IV vangelo (cf. Gv 13,21).

Questo sapere è dunque coscienza intima, non è esibito, non è proclamato, non è divulgato, ma è pudicamente protetto con discrezione e custodito nel cuore. E lì Gesù trova la forza per andare fino in fondo, fino alla fine. Questo sapere di fede infatti abbraccia e comprende anche il sapere che uno dei Dodici, Giuda, sta per tradirlo. La conoscenza di Dio gli consente di sopportare anche la conoscenza dei suoi fratelli, la conoscenza del tradimento di Giuda, ma anche la conoscenza del rinnegamento di Pietro, la conoscenza del male che gli sarà rivolto contro. Gesù sa, sa ciò che ha in cuore colui a cui sta per lavare i piedi, Gesù sa che tutto gli è stato affidato da Dio, anche chi lo rigetta e gli si oppone. Ora, questo sapere, questa certezza non diviene motivo di intervento contro Giuda. E noi possiamo chiederci che sofferenza implichi per Gesù questo sapere che lo situa in una profonda solitudine, questo sapere che non è condiviso dai suoi discepoli i quali non sanno, i quali continuano a vivere nell’incoscienza, nell’ignoranza di ciò che qualcuno di loro ha nel cuore, ma anche nell’ignoranza di fede, nell’incapacità di vivere l’oggi, i momenti e i rapporti quotidiani cogliendovi la presenza di Dio. Sì, se Gesù sa, i discepoli non sanno. E Gesù lo dirà esplicitamente a Pietro: “Quello che io faccio, ora tu non lo sai”, non lo conosci e nemmeno lo comprendi nella fede, non lo cogli nel suo senso recondito e profondo che rinvia alla mia morte e resurrezione. L’azione che scaturisce da questo sapere non è contro Giuda, né di ammonizione a Giuda, e neppure di esclusione o di espulsione, ma di sottomissione. È un’azione che l’evangelista chiama di amore, di agape. Gesù, sapendo, amò fino alla fine.

Giovanni pone in continuità ciò che Gesù compie ora con ciò che ha sempre compiuto. Avendo amato i suoi, li amò fino alla fine. Gesù persevera nell’amare, nella fatica dell’amare. Il sapere che lo abita, anche la conoscenza deludente dei suoi, la conoscenza che certamente lo amareggia, e che arriverà a turbarlo profondamente (Gv 13,21), conoscenza sintetizzata in Giuda che tradisce e Pietro che rinnega, non lo porta a interrompere la sua fedeltà, a smettere di amare, ma lo spinge ad andare fino alla fine sulla via dell’amore. Gesù decide di amare, ne fa una scelta anche se questa scelta lo divora, lo inghiotte, lo uccide, potremmo dire. Gesù, fa dell’amore il suo abito: con il suo svestirsi e vestirsi, con il suo deporre il mantello e con il suo vestire il panno di lino che lega attorno alla vita con una cintura, egli in verità fa dell’amore il suo abito. Ma l’abito dell’amore è l’abito del servo, è l’atteggiamento dello schiavo. L’amore fino alla fine è farsi servi di coloro che si ama. Certo, ci possiamo chiedere: che amore è questo in cui c’è tale dissimmetria tra colui che ama e coloro che sono amati? È un amore vivibile sapendo il Padre, conoscendo il Padre, cioè, grazie alla fede. Sì, mentre si dice che Gesù amò fino alla fine, si dice anche, in verità, e forse ancor più profondamente, che Gesù credette fino alla fine. Ebbe fede fino alla fine. E solo grazie alla fede Gesù poté amare fino alla fine anche chi amabile non era, anche chi rifiutava il suo amore o semplicemente non lo vedeva o vi restava indifferente. Certo, il gesto di Gesù, il gesto scandaloso per cui il Signore e il Maestro si fa schiavo e compie i gesti dello schiavo, è irricevibile e Pietro lo dice a chiare lettere: “Tu lavi i piedi a me?”, “Tu non mi laverai mai i piedi”.

C’è un rifiuto di questo gesto percepito nella sua portata scandalosa così come nel IV vangelo c’è anche il rifiuto delle parole di Gesù percepite come troppo dure. Dopo il discorso sul pane di vita dove Gesù si è presentato come pane disceso dal cielo e dopo aver affermato che chi mangia di lui vivrà anche per mezzo di lui, ecco che molti suoi discepoli si scandalizzarono e dissero: “Questa parola è dura, chi può ascoltarla?”. E anche lì si parla della conoscenza che Gesù ha dei suoi discepoli, delle mormorazioni del loro cuore, e di chi fosse colui che l’avrebbe tradito (cf. Gv 6,60ss.). Rifiuto della lavanda dei piedi e rifiuto delle parole sul pane di vita dicono la non-fede dei discepoli: “Gesù sapeva chi erano coloro che non credevano e sapeva anche chi era colui che l’avrebbe tradito” (Gv 6,64). Pietro rifiuta un Gesù schiavo. E probabilmente non capisce nemmeno esattamente cosa significhi Gesù quando gli dice che se non si lascia lavare i piedi non avrà parte alcuna con lui. Infatti, Gesù dovrà riprendere il suo gesto e le sue parole e spiegare ancora e dire: “Capite quello che ho fatto per voi?” (Gv 13,12). Che significa aver parte con Gesù? Come si ha parte con Gesù? Tutto diventa chiaro quando Gesù dice che i discepoli dovranno fare come ha fatto lui: vestire gli abiti dello schiavo, perché questo è vestire l’abito dell’agape, l’abito dell’amore, perché questo è vestire l’abito di Gesù. L’incomprensione di Pietro, il suo rifiuto di comprendere era dunque non banale: è il rifiuto di una condizione che da Gesù passa ai discepoli: la condizione dello schiavo, dell’amore fino all’estremo, fino al punto di non ritorno. I versetti finali del nostro testo (Gv 13,12-15), conoscono l’abbondare del “voi” dei discepoli: si assiste al trapasso da Gesù ai discepoli. Aver parte con Gesù, ovvero essere là dove anche lui è stato, vestire l’abito che anche lui ha vestito. E queste parole sono consegna di un compito che è anche fondativo di una comunità.

Per questo, se noi ci accostiamo con timore e tremore all’evento della lavanda dei piedi, perché è un compito che nel nostro quotidiano spesso tradiamo, o adempiamo malamente, o a cui ci sottraiamo, tuttavia noi ci avviciniamo ad esso anche con gioia. Nella gioia, perché è ciò che ci consente di essere là dove Gesù stesso è stato. Nella gioia perché è ciò che, grazie alla fede, noi possiamo fare ogni giorno, da subito, in ogni momento. La vita ecclesiale, la vita di relazione, la vita monastica cenobitica, ci consentono l’adempimento di questo comando. Un testo di Teodoro Studita afferma: “Gesù non abbracciò la vita dell’eremita né quella dello stilita, ma piuttosto la regola della sottomissione. Egli si cinse di un asciugatoio e, come un servo, lavava i piedi ai discepoli, asciugandoli con l’asciugatoio. Se dunque egli ha adottato la vita di sottomissione che è la nostra, rallegratevi ed esultate, siate pieni di gioia e di esultanza, perché vivete in modo simile al Signore”. La gioia apre al rendimento di grazie. La vita comune è una grazia, scrive Bonhoeffer, di cui occorre imparare a rendere grazie. “Rendiamo grazie a Dio che ci ha dato fratelli che vivono nell’ascolto della sua chiamata, del suo perdono e della sua promessa. E forse che lì dove colpa e malintesi dominano la vita in comune, anche il fratello peccatore non resta pur sempre il fratello insieme al quale mi trovo sotto la parola di Cristo? Solo chi ringrazia per le cose piccole riceve anche quelle grandi”. Così ora noi completiamo il nostro ascolto del vangelo ripetendo il gesto della lavanda dei piedi e ringraziando il Signore con la liturgia eucaristica.

Fonte: Monastero di Bose
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