«Il problema - dice Cacciari - sta nella scristianizzazione. Pensiamo al modo in cui sono state affrontate le ultime guerre, ai naufraghi lasciati affogare... Scristianizzazione anche nel centro sacrale della cristianità. Che senso ha parlare di periferie se viene meno il centro?»
Che senso ha il Giubileo oggi, professore?
«Non certo quello di giubilare. L’etimo è inventato ma bello, il Giubileo è una bella notizia che
dovrebbe far gridare di gioia, il momento della conversione che produce risultati concreti come la
remissione dei debiti. E invece...».
Il filosofo Massimo Cacciari non ha grandi aspettative: «Vede, le
figure degli ultimi pontefici sono tragiche. Hanno cercato di restituire al Giubileo il suo significato
perché conoscevano la situazione».
E qual è, la situazione?
«Il problema non è la secolarizzazione, come si sostiene. Si potrebbe anzi affermare che inizia con
il cristianesimo: è il cristianesimo stesso a dire che dobbiamo vivere nel secolo, cos’è l’incarnazione
se no? Gesù passa attraverso il laós, il popolo, è laico. Parlare di secolarizzazione non dice la
tragedia».
E la tragedia dove sta?
«Nella scristianizzazione. Nel fatto che non si ascoltano più le parole di Gesù. Puoi benissimo non
credere in Dio, non credere che Gesù sia il Lógos che sta presso Dio eccetera, ma le sue sono parole
di una figura storica, pronunciate e trasmesse. Qui non c’entra la “morte di Dio” alla Nietzsche.
Sono le parole del Vangelo, le Beatitudini, il Samaritano, che oggi tacciono».
Come, tacciono?
«Pensi al modo in cui sono state affrontate le ultime guerre, ai naufraghi lasciati affogare. È
evidente che le parole del Vangelo non hanno contato nulla. Non che abbiano mai agito
profondamente, già Kierkegaard parlava di duemila anni di scandalo. E tuttavia vi era una
disponibilità all’ascolto in vastissimi strati della società e della politica. Malgrado non si siano mai
davvero incarnate, se non in figure straordinarie come Francesco d’Assisi, almeno chiamavano.
Potevo non sentire la forza di seguirle, ma chiamavano».
E ora?
«Non chiamano più questa società. Se uno giace come morto per strada devi soccorrerlo, se ha fame
dargli da mangiare, se è nudo vestirlo. Fine. Se non lo fai, senti di essere venuto meno a una voce
che ti chiamava a farlo. Ora non c’è neanche questo. Ci saranno ancora cristiani, resti d’Israele, in
qualche monastero o sotto casa mia, ma sono persone, non costituiscono più la nervatura di una
comunità. Quelle parole non parlano più in alcun modo nella azione politica, in coloro che formano
l’opinione pubblica. La politica fa esattamente l’opposto e non se ne vergogna neanche più. Questo
è il salto».
Francesco aprirà una porta santa in carcere come un richiamo al Vangelo... «È un grande gesto, come lo è stato non andare a quella cerimonia blasfema a Notre-Dame, tra quei
potenti. Ma cosa fate lì, precipitatevi a salvare vite umane in Ucraina o a Gaza, piuttosto».
Resta la tragicità della situazione.
«Sì. È tragica la figura di Wojtyla che lotta tutta la vita contro l’ateismo comunista e scopre infine
che il pericolo viene dal consumismo. È tragico Ratzinger, grande teologo e grande europeo, che
vede la scristianizzazione nel centro sacrale della cristianità, Roma, l’Europa, e si dimette perché
non dilaghi nella stessa Chiesa. Ed è tragico Francesco che la dà per scontata e parla di periferie: d’accordo, ma come si fa? Che senso ha parlare di periferie se viene meno il centro?».
Fonte: Corriere della Sera
Sì, sono d’accordo, ma solo in parte. C’è una mancanza di visione nell’analisi di Cacciari (Corriere della Sera, 24 dicembre, p. 9). Cos’è che ha portato a questo oblio nel cristianesimo? È l’indifferenza “morale”? Il cristianesimo è diventato così secolarizzato da aver dissolto la percezione del bene e del male? Il cristianesimo moralista sembra essere giunto alla fine in Occidente: non è riuscito a salvare né il mondo fuori dalla chiesa né quello dentro la chiesa. Perfino le corde usate per flagellare e purificare il tempio di Dio si sono consumate. Tutti sono scappati. Ma dove sono andati?
“Dio è morto!”, ha detto Nietzsche. Ma questa affermazione non sembra più valida ai nostri tempi. Che Dio non interessi più, che sia vivo o morto, che sia nato o non si sia mai incarnato. Stiamo entrando in un’altra era. Non abbiamo più bisogno di fruste per punire, né di luci per scoprire chi ha ragione o torto. Né abbiamo bisogno di puntare il dito.
È tempo di ascoltare. È tempo di disseppellire il tesoro nascosto sotto terra di quanti sono fuggiti dal tempio. È tempo di togliere le ceneri di un Occidente ridotto in polvere, di riaccendere nell’uomo il fuoco sopito, ma non spento. È necessario restaurare la visione, lo sguardo di Dio sul mondo. Non “facendo” qualcosa, ma ricominciando dal centro. Non dal centro del cristianesimo – Roma – né dalle periferie degradate. Dal centro di noi stessi.
Il Vangelo è una voce. Una voce che grida nel deserto, che sussurra nel silenzio. Una voce debole, non per il suo contenuto, ma per il modo in cui parla. È infantile, senza parole. Eppure grida, come sulla croce.
Abbiamo perso lo sguardo, la visione, lo stupore. Lo sguardo dei pastori, lo sguardo degli astanti davanti al crocifisso. Ritornare a contemplare. Non per “fare”, ma per guardare. Non per stare a guardare, ma per sintonizzarci sulla voce debole dell’eterno adesso. Non la voce del “Tu devi”, ma la voce dell’“io sono”. In silenzio.
Paolo Gamberini
Fonte: ApertaMente
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