Lidia Maggi "Ai poveri è annunciato il Regno di Dio"
Il testo che mi è stato suggerito, assegnato, è di fatto il discorso programmatico che Gesù fa all'inizio del suo ministero e che Luca ci racconta al capitolo 4 ed è il famoso discorso di Gesù nella sinagoga di Nazareth. Leggo il testo, so che l'avete sentito tante volte, quello che posso fare è leggerlo dalla nuova riveduta, se volete ascoltarlo in un modo leggermente differente.
Lc 4, 14-30
«Gesù, nella potenza dello Spirito, se ne tornò in Galilea e la sua fama si sparse per tutta la regione e insegnava nelle loro sinagoghe, glorificato da tutti. Si recò a Nazareth, dove era stato allevato e, come di solito, entrò il giorno di sabato nella sinagoga e si alzò per leggere. Egli fu dato il libro del profeta Isaia e, aperto il rotolo, trovò questo passo dove era scritto
Lo spirito del Signore è sopra di me, perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri, mi ha inviato per annunciare la liberazione ai prigionieri e il recupero della vista ai ciechi, per rimettere in libertà gli oppressi, per proclamare l'anno accettevole del Signore.
Poi chiuse il libro, lo rese all'inserviente e si mise a sedere e gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui. Egli prese a dire loro: “Oggi si adempie questa scrittura per voi che l'avete nelle orecchie”. E tutti gli rendevano testimonianze, si meravigliavano delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano “Ma non è costui il figlio di Giuseppe?” ed egli disse loro “Certo, voi mi citerete questo proverbio: “Medico cura te stesso. Fa’ anche qui nella tua patria tutto quello che abbiamo udito essere avvenuto in Cafarnao””.
Ma egli disse “In verità vi dico che nessun profeta è ben accetto nella sua patria. Anzi vi dico in verità che ai giorni di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e vi fu una grande carestia in tutto il paese, c'erano molte vedove in Israele, eppure a nessuna di essa fu mandato Elia, bensì a una vedova Sarepta di Sidone. Ai tempi del profeta Eliseo c'erano molti lebbrosi in Israele, eppure nessuno di loro fu purificato, bensì Naamàn, il Siro. All’udire queste cose tutti nella sinagoga furono pieni di ira, si alzarono, lo cacciarono fuori dalla città e lo condussero fino al ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per precipitarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò».
Da una parte è un testo solenne. Vi confesso che, proprio come la gente di Nazareth, l'ho udito, l'ho avuto nelle orecchie in questo tempo di preparazione, ma non riusciva a scendere nel cuore. E mi sono chiesta perché. Perché è una parola che ho così tanto amato, una parola che ho così tanto citato per raccontare l'opzione preferenziale per i poveri di Gesù. Eppure questa volta sentivo che proprio questa lettura così idealizzata, questa lettura che me la consegnava come parola solenne, mi impediva di cogliere alcune tensioni.
E non sto parlando di questa prima disastrosa predicazione di Gesù a Nazareth e dell'esito che ne consegue, ma di altre tensioni. Da una parte ho amato tantissimo questa lettura militante che fa riferimento a questo testo come manifesto programmatico di tutta la missione di Gesù, perché mi ha strappato al sospetto di un cristianesimo che dimentica l'istanza della liberazione, di un cristianesimo che relega solo ai confini dell'anima la liberazione che Gesù invece porta. Ed è una liberazione che chiama alla libertà, ai diritti e alla dignità.
Ma dall'altra parte rileggendo questo testo in questi giorni ho avuto la sensazione che questa fosse una lettura troppo semplicistica che mi rassicurava un po' troppo, una lettura anche infantilizzante che divide il mondo in buoni e cattivi.
I buoni sono quelli che accolgono questa parola, i cattivi sono quelli che invece resistono a questa parola. E siccome ho pure preteso di essere sofisticata, sono stata anche in grado di fare autocritica e dire “sì, è vero, però questi cattivi sono proprio all'interno delle nostre chiese.” Le nostre chiese spesso sono dei freni a mano ai processi di liberazione. E questo sia per un principio di realtà ma sia proprio per questa incapacità di cogliere che ero caduta in una trappola che semplificava troppo questo testo nelle orecchie e non nel cuore. Le cose sono più sfumate.
Il testo biblico mi metteva dei cartelloni di attenzione al cantiere in corso che io faticavo a vedere, eppure erano tutti là i segnali di questo percorso meno iniziale, meno lineare. Iniziale per esempio dal fallimento di Gesù che proprio mentre fa il suo discorso programmatico non riesce a rendere ragione della speranza che porta, ma soprattutto da uno strano fenomeno che accade ed è questo. C'è uno slittamento di tempi, quello che si chiama tecnicamente una prolessi, ovvero Luca costruisce il suo Vangelo mostrandoci un Gesù che dopo l'infanzia, gli inizi, entra in scena con Giovanni Battista, che viene trasportato nel deserto per essere tentato e poi lo ritroviamo a Nazareth. E la gente di Nazareth però racconta, o meglio Gesù racconta che la gente di Nazareth pensa, delle cose che lui ha fatto a Cafarnao ma non le ha ancora fatte. Anche la sintesi che questo testo ci dà è: «Gesù nella potenza dello Spirito se ne tornò in Galilea e la sua fama si sparse su tutta la regione, insegnava nelle loro sinagoghe, glorificato da tutti». Cioè Gesù ha parlato, non c'è stato nessun segno, certo la parola è una parola performativa, ma di fatto nella sintesi nel sommario di Luca ci viene presentato un Gesù che ha insegnato una parola di speranza e adesso qui egli dà voce a un dissenso non espresso che lui esprime (certo voi mi direte “medico cura te stesso”) e che dice “fai anche qui le cose che hai fatto”.
Un dissenso che potremmo facilmente rubricare come il dissenso dei cattivi che fanno ostilità al regno, oppure cogliere che in realtà in questo dissenso c'è una critica molto più forte ed è quella critica che ci sentiamo addosso tutte le volte che parliamo di speranza. E se sono solo parole? Gesù compie i grandi gesti di liberazione solo dopo aver fatto il suo commento al rotolo di Isaia, solo dopo aver pronunciato il suo manifesto programmatico, solo dopo essere arrivato a Cafarnao e allora il testo di Luca ci racconta “libera l'indemoniato, guarisce la suocera di Pietro, chiama i primi discepoli con la pesca miracolosa, guarisce il lebbroso, rialza il paralitico fino ad arrivare a chiamare Levi, l'esattore delle tasse”. Voglio dire nella costruzione di Luca Gesù insegna, Gesù fa il suo discorso programmatico a Nazareth, Gesù trova o dà voce a un'obiezione e poi quando viene cacciato da Nazareth e se ne va, passa in mezzo a quest'obiezione e inizia a fare quei segni miracolosi.
Di fatto anche noi lettori e lettrici capiamo che cosa vuol dire quel manifesto programmatico solo dopo, che cosa vuol dire annunciare l'Evangelo ai poveri: liberare, risollevare, nutrire, guarire, rialzare, accogliere, ovvero ridare diritti e dignità. Ovvero, annunciare l'Evangelo ai poveri significa, con i gesti di Gesù, rileggere l'esperienza liberante di un popolo schiavo e rialzato, rileggere l'Esodo.
Dunque, l'obiezione nella sinagoga di Nazareth potrebbe non coincidere solo con il campanilismo dei suoi, ma anche con il sospetto che quest'annuncio ai poveri possa essere solo l'eco di una bella parola, senza concretezza.
Dov'è l'oggi di Dio se intorno a noi c'è tanta miseria? Dov'è l'oggi di Dio se c'è un mondo ingiusto? Se i piccoli continuano ad essere umiliati? Se le piccole sono stuprate, ridotte ad oggetto sessuale? Come si compie per me questa parola se sento addosso le catene del pregiudizio e dell'indigenza? E nel mezzo di una crisi politica ed economica, proprio come quella che attraversava la gente di Nazareth, come sperimento la vita buona sognata da Dio? Dove sono questi poveri che hanno sperimentato l'Evangelo e non sono ridotti soltanto a persone che hanno ascoltato una bella parola? Questa è la domanda, non so se per voi è così, che mi accompagna sempre. Da una parte la speranza irrinunciabile, ma dall'altra parte il continuo voler verificare che questa speranza non siano soltanto belle parole e che si radichi in un contesto concreto, proprio come le testimonianze che abbiamo ascoltato.
Oggi ero in treno, un viaggio qualsiasi, e nel primo tratto di strada una donna aveva un biglietto scaduto, una donna straniera. Pazientemente la controllora le ha fatto comprendere che doveva ripagare il biglietto senza sovrattasse. Poi subito dopo si è seduta di fronte a me una donna italiana e mi ha colpito perché mi ha chiesto il permesso per sedersi vicino a me.
Aveva una borsa di Prada, aveva delle scarpe della Nike, era ben vestita, dignitosa, ma quando è arrivata la controllora di nuovo ha dato la carta di identità e si è fatta fare una multa perché non le era arrivato lo stipendio, così ha commentato, per un biglietto di 2,40 euro per quel tratto di strada. Ho detto adesso prenderò il Frecciarossa, sarà tutto diverso.
Bene, sono salita sul Frecciarossa e l'uomo vicino a me, quando è passato il carrello del bar ha preso un caffè ma non aveva 1,5 € per pagarlo, non aveva capito che non era gratis il caffè. Fortunatamente ha trovato un inserviente sensibile che ha soltanto ripreso il caffè e lo ha rimesso nella macchinetta nel termos.
Scene di ordinaria povertà mentre viaggio, scene che continuamente mi mettono di fronte al fatto che l'obiezione di Nazareth è seria e sono grata che Gesù, proprio Gesù nel momento più solenne in cui manifesta quello che è venuto a fare, abbia custodito questa obiezione. È lui che la tira fuori, tutti gli occhi sono puntati su di sé, dopo che arrotola il rotolo, lo consegna all'inserviente, si siede, tutti gli occhi sono puntati su di sé. E a questo punto egli dà voce a quell'obiezione che io mi porto dentro sempre ma che non oso porre, perché sospetto che sia poca fede e che invece lui esplicita, gli dà voce, gli dà dignità. Quella povera voce dentro di me che sospetta che siano solo chiacchiere viene presa così sul serio da Gesù che gli dà dignità, la risolleva e certo la discute.
Mi sono anche detta che forse quell'obiezione che Gesù nomina con la gente di Nazareth e che noi troppo facilmente classifichiamo come il campanilismo (“fai a noi quello che hai fatto agli altri prima ai nostri”), in realtà potrebbe essere un'obiezione che anche lui non ha ancora iniziato ad operare segni prodigiosi. Nel capitolo precedente Gesù ha affrontato le tentazioni della sua vocazione ed è come se quelle tentazioni non si fossero poi così concluse, del resto Luca ci aveva informato che, sempre nel capitolo 4: «allora il diavolo dopo aver finito ogni tentazione si allontanò da lui fino al momento opportuno» ed eccolo subito il momento opportuno, la prima predica, la resistenza della gente: “se sei l'unto, se sei tu che inauguri l'oggi di Dio, allora fa le cose che proclami, qui ed ora, falle”.
Oggi io volevo prendere con voi (perché con chi ne posso parlare se non con gente che ha dato la vita per questa parola e che l'ha radicata in un'esperienza di missione, con chi potevo tirarla fuori, se non con fratelli e sorelle che sentono la stessa passione?) questo fragile filo dell'ambiguità nella trama del testo, proprio per porre la questione dell'ambiguità che ognuno di noi affronta nell'annunciare la Signoria di Dio ai poveri in un mondo che invece annuncia altro: ai poveri è annunciato che sono un peso, che sono insignificanti, che vanno nascosti alla vista e deportati in Albania.
Poi però mi sono chiesta, ma come si muove Gesù nella sinagoga per provare a far sì che questa parola che io sento negli orecchi arrivi al cuore? Come si muove Gesù nella sinagoga per accendere un altro sguardo, che tenga sul serio questa obiezione e non la banalizzi, ma nello stesso tempo che mi faccia fare un cammino?
La prima cosa che mi viene da dire è “come di consueto”. C'è questo inizio con cui si racconta di Gesù che entra nella sinagoga, che non mi sembra soltanto finalizzata a testimoniarci l'ebraicità di Gesù, la prassi di Gesù religiosa, secondo me c'è di più, c'è la capacità di Gesù di stare con una comunità anche se questa è inadeguata, anche se questa fa fatica a riconoscerlo (“ma non è questo il figlio di Giuseppe?”). Perché Gesù ci annuncia il Dio biblico, che è proprio il Dio che ricomincia, che non si rassegna. Gesù di Nazareth inizia a Nazareth, ma in realtà questo è un ricominciamento, è questo forse quello che ci sta costruendo Luca con questa strana prolessi, in cui le cose che accadono dopo dovrebbero essere accadute prima. Perché la presenza di Gesù nella sinagoga, come di consueto, è la presenza di un Dio che non si stanca, non si stanca delle nostre chiusure, del nostro cuore indurito, di quella parola che non riesce ad arrivare al cuore. Un Dio che ricomincia, che non si rassegna. Il Dio dei ricominciamenti, il Dio delle seconde volte, di quante nascite abbiamo bisogno per venire al mondo, per convertirci alla vita buona. La tenacia di un Dio che affronta la povertà sociale, ma anche la nostra povertà spirituale e non si arrende a tutte le nostre resistenze, resistenze che a volte si nascondono dietro pronunciare in modo enfatico le belle parole e qualche volta si nascondono nelle obiezioni a queste parole.
Gesù, Cristo, il Dio che non si tira indietro e ricomincia, come di consueto. Così come entra nella sinagoga per una liturgia sinagogale di sabato, ecco che ci viene a visitare nelle nostre liturgie, nelle nostre adunanze, qui in mezzo a noi.
Il secondo movimento che Gesù fa per aiutarmi ad acquistare un nuovo sguardo è “apre il rotolo” e proprio aprendo il rotolo sono proprio le scritture che si ostinano ad accendere uno sguardo differente sul mondo da quello che il mondo ci consegna: i poveri come scarto, come peso. Oggi più che mai noi dobbiamo tornare ad aprire le scritture, a leggerle con lo sguardo di Gesù, ma senza sottrarci alla critica, all'ambiguità, alla complessità, perché anche l'ambiguità, la complessità, la critica è parte delle scritture. Metterci in ascolto, è un tema che ha segnato il filo rosso di questo inizio, sì, metterci di fronte alla parola e metterci in ascolto, perché questa parola ascoltata, letta e riletta, pregata, arrivi dagli orecchi al cuore.
Certo però di fronte alle urgenze può sembrare un lusso prendersi del tempo per ascoltare e farlo alla luce di una parola altra, alta. A questo punto mi commuove che persino Gesù, proprio nel momento in cui doveva consegnarci il suo progetto di missione, si sia fatto lettore, ascoltatore, ascoltatore di una parola antica; aperto il rotolo, uscendo dalla sua autoreferenzialità, Gesù, la novità di Dio, ha potuto dirsi a partire da una parola antica, a partire dal ritornare a rileggere una parola legata alla tradizione. Gesù, parola incarnata, figlio di Dio e anche figlio della parola.
La prima cura che ci dobbiamo nell'ascolto è proprio quella di custodire questo dono che abbiamo ricevuto, questa parola altra, questa parola alta che ci strappa alle nostre lucubrazioni, ai nostri monologhi, che ci fa scorgere un mondo diverso da quello che noi sperimentiamo con i nostri occhi affaticati e le orecchie stanche.
Una parola che ci rivela che il Dio di cui annunciamo la speranza è un Dio che parla, ha parlato e continua a parlare, con una parola che si fa comprensibile ma che ci interroga e tesse con noi un dialogo. E non è semplice fermarsi a leggere perché, lo dicevo, le urgenze sono tante, i poveri sono sempre tra di noi e ci sembra uno spreco quest'olio profumato della parola con la quale siamo stati unti nella comunità liturgica. La missione è fare, liberare, rivendicare la giustizia. È così che siamo fedeli al cantore di Nazareth, però fare, rivendicare la giustizia ma senza deliri di onnipotenza. La missione verso i poveri che Gesù identifica con l'esodo, la liberazione, liberare, noi l'abbiamo un po' tradotta con linguaggi più addomesticabili, linguaggi più ecclesiali, opere di misericordia. Per quanto riguarda la liberazione dei prigionieri, al limite ci accontentiamo di visitarli, visitare i carcerati, non certo di ridare loro libertà.
Eppure è proprio aprendo le scritture che invece incontriamo un altro sguardo, lo sguardo di Dio verso i poveri e scopriamo la Bibbia come quella parola sovversiva, che non si fa addomesticare, che passa oltre le nostre perplessità, che mette sottosopra il mondo, proprio come il cantico che abbiamo cantato ad apertura della liturgia, perché la Bibbia è un testo sovversivo. È un testo sovversivo perché ci racconta la storia, ma ci racconta la storia dal punto di vista dei perdenti, dal punto di vista degli ultimi, dal punto di vista di chi vede negati i propri diritti, dal punto di vista di chi è impoverito. La storia di Dio, la Bibbia, è la storia di chi non ha potere. Ecco perché è un libro che mette sottosopra il mondo e forse la fatica che oggi noi facciamo nel comprendere questa storia, questa narrazione, è perché guardiamo il mondo, ascoltiamo questa storia. da un altro punto di vista. Naufragi che vogliamo salvare, ma dalla sicurezza della spiaggia, dove noi comunque stiamo, perché abbiamo un ruolo, perché abbiamo una comunità, perché abbiamo istruzione.
Non siamo ricchi, ma siamo ricchi di relazione e paradossalmente questo che ci permette di essere solidali può essere anche una gabbia, perché ci impedisce una vera identificazione. Gesù apre il rotolo, legge le parole del profeta Isaia, arrotola il rotolo, lo passa all'inserviente e tutti gli occhi sono su di lui. Sente tutte le aspettative dei poveri del mondo, sente anche le nostre aspettative con la necessità di soddisfare subito i bisogni, ma si sottrae e forse nel sottrarsi ci sottrae a questa trappola, senza tuttavia rimuovere le ambiguità, almeno nell'immediato.
È interessante, per esempio lui cita due esempi, che sono due esempi ambiguissimi.
La vedova di Sarepta con Elia: Elia ha soccorso solo una vedova, ma non è la vedova che ha soccorso Elia dandogli del cibo? E poi il miracolo della condivisione anticipato da Elia e rivista in Gesù, che quel cibo è bastato per tutta la carestia. Poi Elia ha guarito il figlio, ha risuscitato il figlio morto della vedova, sollecitato dalla richiesta della vedova.
Secondo poi il caso di Naamàn il lebbroso: è la storia di questo Siro che ha la lebbra e ha una schiava ebrea, una di quelle schiave, che proprio come abbiamo ascoltato nel Congo, veniva presa durante i saccheggiamenti; questa ragazzina ebrea suggerisce Naamàn il lebbroso di andare a trovare quel profeta straniero, lui va e con molte titubanze e fatica, alla fine si convince a bagnarsi nel Giordano e ottiene guarigione.
Ma accanto a quella storia c'è la storia del servo di Eliseo. Eliseo ha fatto tutto questo nella gratuità, gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente darete, ma Naamàn vuole ripagare per quel gesto. Eliseo rifiuta, ma non il servo, che inganna Eliseo e inganna Naamàn e trattiene i beni.
Dunque queste storie che Gesù usa per raccontare come Dio abbia agito mandando dei profeti oltre i confini di Israele, sono comunque storie che hanno dell'ambiguità, sono segnali che le cose non sono così nette, non sono così chiare. Queste ambiguità vengono trattenute, diventano risonanze e sono proprio quelle ambiguità che ci portano forse a far scendere quella parola udita nel cuore.
Gesù non cerca il consenso (quante cose non si fanno per non dispiacere e lui no), perché vuole lavorare con i nostri cuori induriti.
Allora in questo contesto particolare, storico, dove più che mai affrontiamo delle contraddizioni all'interno delle nostre comunità, all'esterno, nelle famiglie, nella società, nel lavoro, noi forse siamo in grado di cogliere questo fragile filo di questo passaggio che impedisce di trasformare questa parola in una parola idealizzata. Noi siamo all'interno di una storia ambigua. Certo, questo vale per ogni storia, ma la storia è come un faro, diceva Bloch, che illumina a volte alcuni tratti e ne nasconde altri. Noi non riusciamo nel nostro momento storico a cogliere tutto l’orizzonte, però forse più che in altre stagioni riconosciamo l’ambiguità del nostro modo di fare missione, così parziale e del testo biblico; abbiamo un testo biblico da cui traiamo ispirazione, è la perla preziosa per la quale siamo disposti a vendere tutto, ma nello stesso tempo capiamo che sorgono troppe obiezioni e che le domande che sorgono, per nostra grazia Gesù non le censura anzi le esplicita. L’obiezione che è sempre presente, quella di mollare il colpo, viene presa sul serio da questa parola che si realizza proprio perché prende sul serio l’obiezione.
Oggi si tratta di giocare questa passione di Gesù per la parola, per i poveri nel mezzo di queste ambiguità provando come Gesù ad attraversarle a passarci nel mezzo senza rimuoverle, perché il male c’è, le ambiguità sono ingredienti fissi che non possono essere rimossi, possono soltanto essere arginati. Noi oggi alla scuola della Bibbia scopriamo questo, che queste ambiguità se non possono essere rimosse possono essere arginate, proprio come fa Dio agli inizi della creazione, non elimina il buio perché il buio possa esserci, non elimina le acque ma pone un argine perché la terra possa emergere e la vita possa esserci.
Persino l’Esodo, che sicuramente è una grande epopea, ci racconta una storia dove Dio pone un argine alle acque ma per un solo momento, per permettere un passaggio sicuro e poi queste acque ritornano ad inondare il mondo e le acque è un’immagine forte nella Bibbia per riferirsi al male.
È possibile custodire questa parola nella sua luminosità senza lasciarci strappare la speranza e tuttavia farsi carico anche di non censurare, come Gesù ha fatto, le obiezioni in una sinodalità che non è ricerca troppo veloce di armonia ma di fare i conti con il dissenso e di prenderlo sul serio e di discuterlo.
Questa parola che Gesù ci consegna, questo manifesto programmatico, che incontra immediatamente obiezioni e ostilità, risuona oggi in noi come parola luminosa e allo stesso tempo parola difficile, forse a ricordarci che questa parola è un seme da custodire e lavorare nel nostro terreno; e a volte il terreno è un terreno fecondo che permette a questo seme di radicarsi, a volte è un campo di battaglia, a volte è un terreno arido come un deserto.
Tuttavia quel seme a noi è consegnato insieme con la vocazione originaria, prendersi cura, la vocazione dei contadini, a partire dal non rimuovere quel fallimento iniziale del primo contadino della storia che è Caino, che non ha custodito il terreno della fraternità, della relazione e dunque si è trovato sradicato dalla sua vocazione.
Si può essere quindi missionari aperti alla speranza, capaci di proclamare con voce forte l’Evangelo dei poveri che è l’Evangelo di liberazione e insieme farlo senza tacere tutte le fatiche, tutte le difficoltà ad iniziare dalle nostre?