Venerdì santo Omelia di ENZO BIANCHI, priore di Bose 2 aprile 2010
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abbiamo ascoltato il racconto della passione di Gesù secondo il quarto  vangelo, secondo Giovanni. Tutti sappiamo che questo è l’altro vangelo  rispetto ai primi tre, detti sinottici perché si possono leggere  insieme, con una sola ottica; il quarto vangelo narra gli stessi eventi  della passione di Gesù, ma in un altro modo. Nei vangeli sinottici, che  riproducono con poche varianti il racconto iniziale dovuto a Marco, c’è  la narrazione del dolore, delle sofferenze, della condanna a morte di  Gesù, fino alla morte in croce. C’è in sostanza la croce con il suo  scandalo e la sua follia: un Messia che termina la sua vicenda in quel  modo è uno scandalo per il giudeo, è una follia per il greco (cf. 1Cor  1,22-25). E secondo i sinottici soltanto la resurrezione dirà la gloria  di Gesù, potremmo dire che soltanto la resurrezione darà ragione a Gesù,  dirà con chiarezza l’identità di Gesù, Figlio di Dio, Messia crocifisso  ma resuscitato dal Padre. 
Nel quarto vangelo c’è invece una nuova comprensione della passione. La  gloria, e dunque la rivelazione che Gesù è il Signore, è il Figlio di  Dio, la presenza del Padre che autentica la vocazione e la missione di  Gesù, stanno già nella passione. Anzi, nella morte di Gesù sulla croce,  noi siamo posti non davanti all’abbassamento più profondo di Gesù, ma  davanti al suo innalzamento glorioso. Sì, noi siamo abituati a  rappresentarci la glorificazione, come d’altronde fa il Nuovo  Testamento, nella resurrezione di Gesù, nella vittoria della vita sulla  morte, quando la vita vince la morte per sempre, quando Gesù è  riconosciuto nella sua vera identità dai discepoli. Invece il quarto  vangelo ci sconcerta, perché ci porta, lui solo, a leggere la gloria di  Gesù nella sua morte.
Se i vangeli sinottici sono attraversati dai tre annunci riguardanti la  passione, morte e resurrezione di Gesù – voi tutti ricordate quelle  parole molto simili: «È necessario che il Figlio dell’uomo soffra molte  cose, sia condannato, sia ucciso e risorga il terzo giorno» (cf. Mc  8,31-33 e par.; 9,30-32 e par.; 10,32-34 e par.) –, il quarto vangelo è  attraversato esso pure da tre annunci, ma con dei verbi diversi che non  dicono né condanna, né patimenti, né morte, ma parlano di innalzamento e  di glorificazione, dicono altro. Il primo annuncio lo dà Gesù in un  colloquio con Nicodemo, il rappresentante di Israele, dei giudei: «Come  Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il  Figlio dell’uomo» (Gv 3,14). Gesù poi a metà del suo ministero afferma:  «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io  Sono” (Gv 8,28). E nei giorni precedenti la passione, a Gerusalemme, per  la terza volta annuncia: «E io, quando sarò innalzato da terra,  attirerò tutti a me» (Gv 12,32). In tutti e tre i casi si usa il verbo ‘ypsóo,  che indica elevazione, innalzamento.
Questo momento dell’innalzamento coincide anche, secondo Giovanni, con  «l’ora» di Gesù, un’ora annunciata sempre come incombente, fin dal primo  segno in cui Gesù mostrò la sua gloria a Cana. Allora Gesù aveva  precisato: «Non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4), quindi la gloria  di Cana, la gloria di un miracolo, non è la vera gloria che attende  Gesù. Ma adesso è venuta quest’ora, come ora della gloria del Figlio  dell’uomo, e Gesù lo dice: «È venuta l’ora che sia glorificato il Figlio  dell’uomo» (Gv 12,23), l’ora del chicco di grano che caduto a terra  muore, ma proprio nella morte, acconsentendo a morire, produce la vita,  la vita da cui viene molto frutto, dunque vita abbondante (cf. Gv  12,24). Proprio di fronte a questo annuncio: «È venuta l’ora che sia  glorificato il Figlio dell’uomo», gli ascoltatori capiscono bene e  chiedono a Gesù: «Come puoi dire che il Figlio dell’uomo deve essere  innalzato?» (Gv 12,34). Gesù ha parlato loro solo di glorificazione, ma  essi hanno compreso bene: c’è coincidenza tra l’innalzamento, la  glorificazione (verbo doxázo) e l’ora di Gesù. E attenzione:  questo innalzamento, quest’ora, questa glorificazione sono azioni che  sono dovute agli uomini e a Dio. Sono gli uomini che agiscono durante la  passione, quindi quelle azioni sono fatte con una precisa intenzione  dagli uomini, eppure Giovanni le legge come realizzate dal Padre con  un’altra intenzione.
Giovanni è molto attento nel descrivere l’innalzamento di Gesù. Gesù dal  giardino oltre il Cedron è stato fatto salire in città, nella casa del  sommo sacerdote. Poi è stato ancora portato più in alto da Pilato, nella  fortezza Antonia. Pilato lo fa poi sedere addirittura in quello che era  il luogo alto per eccellenza, chiamato appunto in ebraico gabbatà,  «luogo alto», luogo del giudizi. Infine Gesù è condotto alla collina  del Golgota, più alta del tempio e di Gerusalemme, dove viene crocifisso  ma attraverso un innalzamento su un palo, in mezzo a due altri  condannati. Materialmente dunque c’è un innalzamento, ma un innalzamento  che è passione, degradazione umana, che è uno scendere nell’abisso  della sofferenza e dell’infamia. Di fatto, però, Giovanni legge in  questo essere posto sempre più in alto fino ad avere la posizione  centrale tra due malfattori, la posizione del Signore, legge il Kýrios  innalzato da terra. E per questo lui annota che quel cartello posto da  Pilato lo proclama, non è la causa della morte di Gesù; è il titolo che  dice che è lui il Re di Israele, il Messia. 
Ecco, agli occhi del quarto vangelo – ma Giovanni vuole indicarci ciò  che noi dovremmo comprendere sempre nella passione – c’è l’innalzamento e  la glorificazione di Gesù, anche se questa coincide con un’agonia, con  un’atroce sofferenza. Attenzione: Giovanni non elimina lo scandalo della  sofferenza, non ci vuole consegnare, come faranno gli gnostici, un Gesù  la cui l’umanità è totalmente assorbita dalla sua qualità divina. No,  Giovanni racconta la passione di Gesù come quella di un uomo, in tutto  uguale a noi, un uomo sofferente; mette in luce i patimenti di Gesù,  tradito nella menzogna da uno dei dodici, misconosciuto da Pietro,  abbandonato dagli altri. Dice con molta precisione, più dei sinottici,  che Gesù è stato schiaffeggiato, flagellato, incoronato addirittura di  una corona fatta di rami spinosi. Giovanni ci mette davanti un Gesù  flagellato, deriso, incoronato di spine, un uomo senza volto. E  significativamente solo Giovanni fa dire a Pilato: «Ecco l’uomo!»,  nient’altro che un uomo, l’Adamo. Nulla è occultato della sofferenza di  Gesù, non c’è davvero nessun docetismo, nessun tentativo di rimuovere la  sofferenza umana.
Ma Giovanni dice, e lo dice chiaramente, che questa sofferenza è  un’epifania di violenza umana. Stiamo attenti, perché nel nostro  immaginario in cui prevale più l’emozione che la comprensione dovuta  all’intelligenza spirituale, noi assimiliamo alle sofferenze, alla  passione di Gesù ogni sofferenza umana. Ma Gesù non soffre a causa della  natura; la sua passione non è a causa della malattia, neanche a causa  di catastrofi che producono delle vittime e in cui il dolore umano – lo  conosciamo bene – è un dolore terribile. Gesù nella sua passione soffre  della violenza di cui gli uomini sono capaci: questo non dovremmo  dimenticarlo. È certamente terribile soffrire per la malattia, soffrire  l’agonia in vista della morte, soffrire perché si è vittime di calamità  naturali. Ma Gesù qui soffre perché c’è stata falsità di un fratello  fino al tradimento, perché c’è la malvagità degli uomini che si scarica  su di lui, c’è un’oppressione ingiusta, una sentenza ingiusta. Questa è  la passione di Gesù. La sofferenza di Gesù non è dovuta alla sua  condizione umana per la quale tutti soffriamo, per la malattia, per la  debolezza o per la morte. La sua sofferenza è dovuta a una precisa  responsabilità dei capi religiosi di Israele e a una precisa  responsabilità del potere politico di Pilato, sempre pronto a farsi  complice del potere religioso ogni volta che teme qualcosa. Questa  sofferenza è dovuta alla gente, alla sua gente, alla gente di Gesù che  ha gridato: «Crocifiggilo!». La passione di Gesù è una sofferenza per la  cattiveria, la falsità di noi uomini. Noi siamo uomini come lui, ma la  sua sofferenza non è semplicemente la sofferenza creaturale, è la  sofferenza di chi vede scaricarsi l’odio, la cattiveria, la falsità,  l’inimicizia degli altri su di lui.
Giovanni mette anche in evidenza – ed è un ulteriore aspetto – come in  questa strettoia della passione Gesù ha saputo vivere senza rispondere,  senza opporre violenza alla violenza. Lo avete sentito, si è difeso, ma  si è difeso con grande razionalità e senza aggressione, senza violenza.  «Se ho detto male, dimmi dov’è il male, dimostramelo. Ma se ho detto  bene, perché mi percuoti?». Gesù aveva il diritto, come ogni vittima, di  dire: «Perché? Cosa ho fatto di male?», ma Gesù si è fermato qui.  L’unica preoccupazione di Gesù che si comprende tra le righe della  passione era quella di non fare nulla contro la volontà del Padre,  contro l’amore di Dio. Per questo risponde nella verità quando lo  interrogano, ma si afono, si fa muto quando invece non può rispondere  con amore. E accetta di ricevere la violenza su di sé, di assorbirla.  Gesù sa di essere la vittima, il capo espiatorio, ma vuole interrompere  la violenza, l’ingiustizia, e l’unica possibilità è patirla.
Il soffrire molte cose – il pollà patheîn dei sinottici (Mc 8,31 e  par.) – diventa nel quarto vangelo semplicemente un modo di amare  l’altro, gli altri, anche il nemico, il persecutore. Giovanni nel suo  racconto, dall’inizio alla fine, mostra questa qualità di Gesù, che è  una piena auto-conoscenza della sua vocazione. Gesù certamente l’ha  vissuta nei limiti di una persona umana ma con quella auto-coscienza  straordinaria che non sa né il quando né il come ma sa però il fine;  questo lo sa, come lo può sapere ogni cristiano. Non possiamo sapere né  il quando né il come, ma dobbiamo sapere che cosa costituisce il fine e  la fine: l’amore, l’agápe. Ecco perché Gesù lascia fare, lascia  che gli altri dispongano di lui, perché – dovremmo dire – non ha neanche  più una missione da realizzare, deve soltanto realizzare soltanto la  sua vocazione. Ha lasciato che Giuda uscisse dal cenacolo per tradirlo  (cf. Gv 13,30), non l’ha fermato pur sapendo tutto. Ha lasciato che lo  arrestassero, anche se poteva fermare quell’arresto. Avete sentito  quell’inciso in Giovanni: «Chi cercate?». Alla risposta: «Gesù il  Nazareno», replicò pronunciando il Nome di Dio, «Egó eimi, Io  sono» (Es 3,14), e tutti caddero a terra. Tutto questo storicamente non è  avvenuto, ma Giovanni ci vuole dire che Gesù aveva la possibilità non  solo di sfuggire all’arresto ma anche di avere di una vittoria facile,  invocando la sua identità. Invece no, ha voluto bere il calice che il  Padre gli ha dato da bere, sapendo che il Padre non voleva quella fine  ma voleva certamente che lui raccontasse il suo amore, che lui fosse  fedele all’amore. Gli uomini con il loro odio hanno costretto Gesù a  raccontare Dio nella passione e nella morte, una morte subìta, violenta,  ingiusta.
Ed eccoci ora davvero alla fine, al termine della vocazione di Gesù.  Sono le tre del pomeriggio, l’ora nona, Gesù è in croce ormai da ore, ha  subìto gli interrogatori, ha subìto la persecuzione, la tortura, e  grida: «Ho sete». Parole anche queste ambigue, con un doppio significato  perché dicono la sete di un moribondo appeso al palo da tre ore, ma  sono anche le parole con cui inizia il salmo 42: «Ho sete di Dio, il  Vivente» (cf. Sal 42,3). Dire queste parole – e Giovanni annota «per  adempiere le Scritture», le quali dicevano che nella sete del Servo di  Dio sarebbe stato dato a lui l’aceto, secondo il Salmo 69,22 –, dire  queste parole è dire non solo la sete fisica, ma anche la sete di Dio,  la sete di portare a termine tutto quello che il Padre gli aveva  chiesto. E Giovanni scrive che colui che aveva promesso di dare acqua da  bere a chi aveva sete – vi ricordate nel colloquio con la samaritana,  quando Gesù aveva detto: «Se uno viene a me e ha sete, io gli do l’acqua  da bere» –; colui che aveva detto: «A chi ha sete darò acqua da bere e  non avrà più sete» (cf. Gv 4,13-14); colui che aveva addirittura gridato  a Gerusalemme, nel tempio: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in  me» (Gv 7,37-38), ora è lui che ha sete. Sete di Dio dunque, sete di  compiere più la vocazione che sete fisica. E a questo suo grido, gli  danno da bere dell’aceto.
Ma Gesù allora dice l’ultima sua parola: «Tetélestai, è  compiuto», è davvero finalmente tutto realizzato, «e reclinato il capo  trasmise lo Spirito» (parédoken tò pneûma). Ha compiuto tutta la  sua vocazione, tutta la sua missione e quindi nella sua ora, l’ora  dell’innalzamento e l’ora della gloria, Gesù può trasmettere,  trasmettere lo Spirito. Notate che qui si usa il verbo paradídomi,  il verbo che indica anche la tradizione, la parádosis; dove gli  altri vangeli dicono che Gesù spirò, Giovanni non può dire se non che  Gesù trasmise lo Spirito. Ed ecco allora che dal suo fianco escono  sangue e acqua. Sangue perché Gesù è morto, e un uomo morto per la  violenza, se viene trafitto lascia uscire il sangue dalla ferita. Gesù,  ormai morto, ricevendo il colpo della lancia, da parte del soldato che  vuole verificare la sua morte, lascia uscire il sangue. Ma Giovanni  annota che ne uscì anche acqua. Questa è una novità, è lo straordinario,  e Giovanni vede davvero qui il compimento. Gesù aveva gridato: «Chi ha  sete venga a me e beva chi crede in me, perché sta scritto: “Fiumi di  acqua viva sgorgheranno dal mio fianco”» (Gv 7,37-38); ebbene, ora dal  fianco di Gesù esce anche l’acqua, esce lo Spirito santo. Là Giovanni  aveva annotato: «Così parlava del dono dello Spirito perché i credenti  non lo avevano ancora ricevuto» (cf. Gv 7,39). Ma ecco che qui Gesù  trasmette lo Spirito santo, e quell’acqua che esce dal suo fianco è come  l’acqua che esce dal fianco del tempio, dal lato del tempio, un fiume  di acqua viva (cf. Ez 47,1-12).
Carissimi, noi oggi siamo posti di fronte a questa morte umana vissuta  nell’amore, in modo che una morte, pur violenta, ingiusta, ignominiosa,  perché morte di un peccatore – Paolo dirà, addirittura, di un maledetto  da Dio e dagli uomini (cf. Gal 3,13) – non è più solo ignominia,  sofferenza e patimenti, ma è anche innalzamento e gloria. Noi dovremmo  ricordare questo, dovremmo ricordare lo specifico della sofferenza,  della passione di Gesù: l’ingiustizia dovuta agli uomini. Ma dovremmo  anche assumere una grande consapevolezza e responsabilità: noi, ciascuno  di noi, io, nella mia vita ho provocato e provoco sofferenza ingiusta,  oppressione agli altri? E come vivo la sofferenza subìta, provocata  dalla falsità e dall’ingiustizia degli altri? La domanda riguarda la  violenza che noi facciamo agli altri e la violenza che noi subiamo. Per  entrambe il riferimento è solo Gesù che, come dice Pietro, «nella sua  passione non rispondeva con violenza alla violenza» (cf. 1Pt 2,23). Il  riferimento è Gesù, colui che ha fatto di uno strumento ignominioso, la  croce, una via di gloria, la via dell’amore. 
ENZO BIANCHI, priore di Bose
Fonte: MonasterodiBose
 
 