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Cercando il Dio del silenzio (La Repubblica, 4 aprile 2010) Enzo Bianchi

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Quando uno varca la soglia di un monastero, a volte trova di fronte a sé un affresco o un’icona del patriarca dei monaci, san Benedetto che, dito sulla bocca, invita al silenzio: “Tace!”. Del resto, già i padri del deserto nel IV secolo cercavano di vivere secondo il detto di abba Arsenio: “Fuge (cioè ritirati in disparte), tace (fa’ silenzio), quiesce (ricerca la pace)!”. Per quanti fanno vita monastica, il silenzio è l’atmosfera, l’ambiente in cui vivono la loro tensione a quaerere Deum, a cercare Dio, impegno che contiene innanzitutto il quaerere hominem, cercare l’essere umano.

Dal canto dell’ultima preghiera della sera (verso le 20,00) fino all’ora ancora notturna che precede l’alba (attorno alle 4,00), i monaci e le monache osservano il “grande silenzio”: da soli, nella loro cella, cercano di vegliare, di leggere, di pensare e di pregare. Ma anche durante il giorno le regole chiedono che il monaco faccia silenzio, parli se è necessario alla carità, e comunque vigili sempre a che la sua parola miri a ciò che è essenziale, autentico, veritiero, evitando non solo ogni doppiezza o menzogna, ma anche di di dire ciò che non fa o che non pensa in profondità.

Senza questo silenzio – che pur conosce contraddizioni da parte dei monaci – non sarebbe possibile una vita di lotta contro la dispersione, l’ansia, la distrazione, il de....ment, come lo definiva Pascal. Si tratta, infatti, di unificare la vita, di giungere a una semplificazione del cuore attraverso il lungo lavoro di “ordinare” i pensieri, i sentimenti, le azioni: uno sforzo costante verso la conoscenza di sé, del proprio profondo, in modo da imprimere alla vita consapevolezza, responsabilità e bellezza.
Ma a volte questo silenzio dei muri, dei corridoi, delle celle, del chiostro, del giardino o del bosco appare abitato da pensieri che urlano con voce straziante. Antonio, il primo monaco solitario cristiano, li chiamava “demoni” e aveva la percezione di vederli nella cella, intenti ad assalirlo mentre si sentiva solo, debole e fragile, fino a interrogarsi se Dio non lo avesse abbandonato... Sono le tentazioni dell’eremita, come di chi vive la solitudine all’interno di una comunità monastica. Ma sono anche le stesse tentazioni proprie di ogni uomo, perché il monaco è un uomo come gli altri, vulnerabile come gli altri: la solitudine, il silenzio, l’ascesi gli consentono forse una maggiore consapevolezza nel guardare in faccia questi pensieri-tentazioni e nell’affrontarli. Sono “avversari” di ogni tipo, dalle tentazioni più basse ai pensieri più sottili: il non credere più in Dio né in nulla, lo spettro della nientità che tutto dissolve in nonsenso, il peso dei propri peccati che porta a dubitare del perdono e della possibilità di trovare il bene nell’uomo... Il monaco conosce anche questa contraddizione al silenzio che viene dal suo cuore, dalla sua psiche e che lo rende a volte esperto di a-teismo.

Anche per questo, nella sua vita quotidiana il monaco giustappone al silenzio il canto, più volte al giorno: vive nella custodia amorosa del silenzio, eppure canta assieme agli altri nella preghiera con inni, salmi, orazioni... La preghiera, intessuta della parola di Dio è lo spazio vitale in cui lo stesso silenzio è ricondotto alla sua qualità di ricerca di Dio: lì si esprime quella sete che dal deserto, dalla terra arida che ciascuno sente di essere, fa muovere verso l’essere umano autentico la cui vita può divenire un capolavoro. E nella preghiera comunitaria si ritrova anche l’altro elemento fondamentale della vita monastica, cui il silenzio stesso è orientato: l’ascolto. Sì, l’invito di san Benedetto al silenzio è in funzione di quell’esortazione che apre la sua regola per i monaci: “Ascolta!”. Ascolto del silenzio che parla, certo, ascolto della parola di Dio che richiede di far tacere le altre parole, ma anche ascolto dell’altro, del fratello e della sorella, di quanti bussano alla porta del monastero per confidare soprattutto le loro fatiche e le loro sofferenze, quando la durezza della vita li porta a interrogarsi sul senso ultimo che sovente lo star bene ottunde.
Il lungo silenzio del monaco in cella, la sua solitudine a volte così pesante da portare alla sera – silenzio e solitudine abitati dalla preghiera – sono così preparazione all’ascolto degli altri: ascolto a volte faticoso, perché richiede comprensione, simpatia, condivisione e magari parole che non si vorrebbero pronunciare né udire... Sovente questo silenzio oggi inusuale spaventa chi vi si accosta per la prima volta: non manca chi si affretta a tornare alla propria vita quotidiana in cui il rumore, il chiacchiericcio, la molteplicità dei messaggi distoglie dal porsi le domande vere e dall’affrontare i pensieri-tentazioni che sorgono nel cuore. Ma così si preferisce il sonnambulismo spirituale, il non conoscersi in profondità, e si finisce per imboccare percorsi di alienazione anziché vie di umanizzazione.

Sì, c’è un grande silenzio che avvolge molte esistenze piene di vita, fatte di lavoro e di preghiera in un nascondimento che oggi molti non riescono più a comprendere, un silenzio soprattutto dei corpi e dei volti, che talora si celano nell’anonimato anche quando si fanno eloquenti nella scrittura, firmandosi semplicemente come “un certosino... una monaca benedettina... un eremita... un monaco d’occidente...”. Eppure forse sono là in disparte anche per ricordarci che ogni parola autentica nasce dal silenzio e dal silenzio è custodita.

Enzo Bianchi

Fonte: MonasterodiBose
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