Piero Stefani "Il tribunale di Cristo. Camminare in novità di vita"
Nell’omelia da lui pronunciata nella Domenica del perdono (6 marzo 2022), il patriarca di Mosca, Cirillo, si è appellato al giudizio di Dio. L’attenzione dell’opinione pubblica si è incentrata sulla giustificazione «metafisica» da lui proposta per l’invasione russa dell’Ucraina; merita, tuttavia, una qualche attenzione anche il modo in cui Cirillo parla del perdono, tema a cui è dedicata la domenica immediatamente precedente l’inizio della Quaresima ortodossa.
Il patriarca si chiede che cosa significa perdonare e risponde affermando che si chiede perdono a qualcuno che ha infranto la legge di Dio o che ha compiuto qualcosa di male nei nostri confronti; così facendo non lo si giustifica, si smette semplicemente di odiarlo: «Quella persona cessa di essere un vostro nemico, il che significa che con il vostro perdono lo consegnate al giudizio di Dio (…) Perdoniamo, rinunciamo all’odio e alla vendetta, ma tuttavia non possiamo cancellare là, nei cieli, gli errori umani; con il nostro perdono, quindi, consegniamo coloro che ci hanno fatto del male nelle mani di Dio, affinché su di loro si compiano il giudizio e la misericordia di Dio» (cf. Regno-doc. 7,2022,242s).
Il perdono avrebbe, paradossalmente, un andamento paragonabile a quanto avviene nei cosiddetti salmi imprecatori, nei quali il nemico è sì maledetto, ma senza che ciò comporti alcuna azione violenta; ciò avviene proprio perché l’avversario è consegnato al giudizio di Dio. Per Cirillo il perdono sembra collocarsi sul piano semplicemente interpersonale, senza ricadute su quello internazionale, dove la logica appare ben diversa.
Anche in quest’ambito ristretto non mancano però problemi. La più autentica questione «metafisica» riguarda la figura stessa del Dio giudice, tema indiscutibilmente biblico (e coranico) ma che andrebbe anche soppesato confrontandolo con orizzonti più lontani. Emergerebbe allora che il giudizio divino, anche quando prevale la misericordia, presuppone sempre l’esistenza di una imperfezione nelle leggi che regolano il mondo. Per convincersene basterebbe appellarsi al termine sanscrito karma.
Il karma
Karma letteralmente significa «azione» e deriva dalla radice indoeuropea kr-, «agire, fare». Nella visione indiana classica, ha assunto il senso di «conseguenza ineluttabile dell’azione» che si esplica in una rinascita commisurata alla qualità di atti compiuti nella vita precedente. La forza della legge che presiede al ciclo ininterrotto delle rinascite (samsara) deriva dalla sua ferrea concatenazione interna, la quale, al pari di tutte le realtà davvero ordinate, per affermarsi non ha bisogno di alcun intervento estrinseco affidato a un giudice esterno. Una norma perfetta si auto-regge.
Il karma costituisce, quindi, l’inesorabile maturazione di ogni atto volitivo che, compiuto in un’esistenza, predetermina un momento correlato nell’esistenza futura. Si legge in un antico testo buddhista: «Ogni essere vivente è erede delle proprie azioni, l’erede dei propri atti. I suoi atti sono la matrice dalla quale ha tratto origine; egli è legato a essi, ed essi sono il suo rifugio. Egli sarà erede di qualsiasi azione compia, buona o cattiva [che sia]».1
Qui tutto si lega e tutto si tiene. Non vi è frattura tra la successione dei tempi e quella dell’agire. Il karma è semplicemente la legge che stabilisce la corrispondenza tra l’agire e i suoi effetti, senza bisogno d’appellarsi a un giudice trascendente.
Parlando a grandi linee, l’orizzonte muta quando, a causa della fede nella creazione, l’attenzione si rivolge a una serie di esistenze individuali considerate uniche e irripetibili. In tal caso, per sanare gli scompensi, occorre rivolgersi a una terza dimensione non legata alle dirette e intrinseche conseguenze dell’agire. In questa o nell’altra vita, il giudice divino da un lato fa ricadere sull’empio i frutti del suo operare mentre, dall’altro, premia il giusto. Come avviene nei tribunali umani, anche in quello celeste la figura del giudice attesta che, tra l’agire e le sue conseguenze, non sussiste sempre uno stretto vincolo di causa ed effetto. Pronunciare una sentenza comporta cercare di sanare una situazione che, lasciata a se stessa, sarebbe contraddistinta da un irrimediabile squilibrio.
Ma chi siederà come giudice in quel tribunale celeste?
Più che il giudizio, la risurrezione
Una supplica ricorrente nell’ambito delle varie liturgie ortodosse è di domandare una fine serena della propria vita senza dolore e senza rimorsi, e «una buona difesa innanzi al tremendo tribunale di Cristo». Quest’ultima espressione suona lontana dalla sensibilità presente tra i fedeli occidentali. È però certo che alle sue spalle vi è un preciso riferimento biblico. Si tratta di un passo paolino: «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando si era nel corpo, sia in bene sia in male» (2Cor 5,10). Limitarsi a osservare la mancanza dell’aggettivo «tremendo» non basta. Occorre scavare più a fondo.
Nella Lettera ai Romani, Paolo, per rafforzare un’esortazione a non giudicare il proprio fratello, afferma che «tutti ci presenteremo al tribunale di Dio» (Rm 14,10). Per Paolo i due termini «Dio» e «Cristo» non sono mai impiegati in maniera equivalente. Qual è lo specifico del «tribunale di Cristo»? Una recente corrente di studi, dopo aver enfatizzato l’influsso avuto sul pensiero paolino dalla tradizione apocalittica giudaica, sottolinea la non equivalenza tra i due termini chiave di «giustificazione» e «salvezza»: «Quando Paolo parla di giustificazione per fede, parla di qualcosa di diverso dal giudizio finale secondo le opere di ciascuno».2
Una persona che è stata giustificata ha ricevuto il perdono per i peccati che aveva commesso in precedenza ed è dotata di una capacità di obbedire al volere di Dio. Il giudizio finale stabilirà se la vita successiva del fedele è stata conforme al beneficio ricevuto. Solo in questo caso si dischiuderà per lui la vita eterna, se ciò non avviene sarà dannato.
È fuori discussione che vari passi neotestamentari affermano l’esistenza di un giudizio che avviene in base alle opere compiute (cf. per esempio Ap 20,11-15). È anche indubbio che, nei Sinottici, il Figlio dell’uomo sia presentato come giudice escatologico (cf. per esempio Mt 25,31-46); dal canto suo il Vangelo di Giovanni dichiara che il Padre non giudicherà nessuno perché ha lasciato il compito al Figlio (Gv 5,22). Il versetto che parla del «tribunale di Cristo» compare, però, come conclusione di una prospettiva che ha ben poco da spartire con il timore di una possibile condanna.
La maggior parte del passo precedente esprime infatti una fiducia e una tensione. La prima si estrinseca nella convinzione «che colui che ha risuscitato il Signore Gesù dai morti, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui» (2Cor 4,14); dal suo canto, la tensione si manifesta nel fatto che mentre si vive in questo corpo si sospira perché «ciò che è mortale venga assorbito dalla vita» (2Cor 5,4). Può essere vero che giustificazione e salvezza si presentino come momenti diversificati; tuttavia se la speranza è quella di risorgere con Gesù Cristo, occorre affermare che è la risurrezione stessa a presentarsi come salvezza e non già come pura precondizione per venir giudicati e poi eventualmente salvati.
Nella Lettera ai Romani, Paolo domanda ai credenti di camminare in novità di vita (cf. Rm 6,3-9). Una richiesta divenuta ormai antica in quanto troppo largamente disattesa. Ma perché è tanto arduo conformarsi a questo invito? La risposta più autentica è contenuta nel brano stesso. La si coglie subito quando lo si confronta con il nostro essere naturale, sociale e culturale.
Per noi la nascita è il nostro passato, la vita il nostro presente, la morte il nostro certo, quanto imprecisato, futuro. Di contro, secondo la prospettiva paolina, nella vita dei credenti le cose stanno al contrario. Per chi crede è la morte a essere alle nostre spalle, mentre la vita piena ci sta ancora davanti. Siamo vivi, ma non ancora pienamente compartecipi alla vita di Gesù risorto. Ci è chiesto di camminare in novità di vita, mentre siamo ancora al di qua della vita vera. «Se ora siamo morti con Cristo crediamo anche che con-vivremo con lui» (Rm 6,8).
Ci sono due frasi rette da tempi diversi: «siamo stati con-sepolti (synetaphemen)», con Cristo nel battesimo (Rm 6,4) «con-vivremo con lui (syzesomen auto)». Nel credente la morte precede la vita. La novità di vita a cui siamo chiamati è paragonabile al Sabato santo: siamo già sepolti con Gesù Cristo, ma non siamo ancora completamente risorti con lui.
In questo sabato non ci è dato però di riposare. La fede in Gesù Cristo implica che la parola ultima spetti alla risurrezione, non già al giudizio. L’unica condanna pensabile nel «tribunale di Cristo» è di non «con-vivere con lui».
1 Il passo è tratto dall’Aguttara-nikya citato in O. Botto, Buddha e il buddhismo, Oscar Mondadori, Milano 1989, 67.
2 G. Boccaccini, Le tre vie di salvezza di Paolo l’ebreo. L’apostolo dei gentili nel giudaismo del I secolo, Claudiana, Torino 2021, 176.