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Gianfranco Ravasi "Il Dante teologo e il Dante poeta"

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sabato 23 luglio 2022

Pubblichiamo la premessa del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, agli Atti del convegno su Dante e le grandi questioni escatologiche, pubblicati da Vita e Pensiero a cura di Luca Azzetta (pagine 272, euro 25). Il volume si divide in tre parti, dedicate a 'Paradigmi visionari all’epoca di Dante', 'Resurrezione dei corpi e unità della persona' e 'L’angelologia tra riflessione teorica e tradizione iconografica'. I contributi si rivolgono a Dante da àmbiti disciplinarti diversi; teologico, biblico, filosofico, linguistico, storico e artistico. Si coglie così al meglio la profondità del poema.

Sulla scia di una lunga tradizione iniziata già nel secolo scorso con vari documenti pontifici, la Santa Sede ha voluto celebrare i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri con un convegno, svolto il 25 e 26 novembre 2021 e dedicato alle «grandi questioni escatologiche » che pervadono sia la Divina Commedia sia la stessa teologia e filosofia contemporanee al Poeta. Alla radice di questo incontro dai molteplici profili, ospitato e accolto con grande e generosa partecipazione dall’Università Roma Tre, c’era la Commissione dantesca vaticana e sullo sfondo la Lettera apostolica Candor lucis aeternae che papa Francesco ha pubblicato il 25 marzo 2021, solennità dell’Annunciazione, una data che anticamente era il capodanno in Firenze e in altre città toscane. A dare sostanza al convegno sono stati convocati vari studiosi ai quali si potrebbe assegnare come motto la confessione che Dante rivolge al suo maestro Virgilio, l’aver cioè dedicato al Poeta il «lungo studio e ’l grande amore» (Inferno I, 83). Una testimonianza di amore che è stata proclamata nei secoli da una folla di lettori, di studiosi, ma anche di veri e propri genî dell’umanità, come ad esempio Michelangelo che senza esitazione dichiarava: «Simil uomo né maggior non nacque mai». E, se volessimo giungere più vicino al nostro tempo, è suggestiva l’affermazione di James Joyce: «Amo Dante quasi quanto la Bibbia». Ora, le Sacre Scritture e la teologia sono state un asse portante del pensiero, della ricerca e della poesia dantesca, per cui possiamo indubbiamente riconoscere che Alighieri fu sia poeta, sia teologo. È ciò che ha intuito e rappresentato in modo folgorante un altro genio, Raffaello, che nel 1509 creò nel Palazzo Apostolico, nella stanza della Segnatura, un mirabile affresco, la Disputa del SS. Sacramento. In realtà il suo progetto iconografico era ben più complesso. Certo, il fuoco prospettico e tematico della composizione è l’ostensorio con la particola consacrata, posto al centro dell’altare. Ma in alto sovrasta la Trinità in asse con l’eucaristia: il Padre be- nedicente, al centro il Cristo fra la Vergine e il Battista e, a emiciclo, la Chiesa celeste trionfante coi patriarchi, i profeti, i santi, mentre più in basso la colomba dello Spirito Santo irradia di luce l’ostensorio. Nel livello inferiore, appare l’assemblea della Chiesa militante coi grandi Padri della Chiesa: Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio Magno. A loro si aggregano i Dottori, cioè san Tommaso d’Aquino, san Bonaventura, il Beato Angelico e persino il Savonarola. Ma la sorpresa maggiore è rappresentata proprio da Dante a mezzo busto, coronato d’alloro, col volto segaligno e severo. Il Poeta, agli occhi dell’Urbinate, era quindi un teologo che aveva saputo comunicare la Verità divina attraverso la via pulchritudinis, ossia la bellezza e la profondità della sua poesia. È per questo che in quella stessa stanza della Segnatura, che allora era la sede della biblioteca privata del papa Giulio II, ritorna per una seconda volta Dante. Egli entra in scena nell’affresco che raffigura il Parnaso, il monte sacro ad Apollo e alle Muse, dal cui versante orientale scaturiva la fonte Castalia, ispiratrice della poesia. (...) Il tema escatologico, com’è ovvio fin dalla stessa tripartizione della Divina Commedia, è strutturale a tutto il testo nell’imponenza dei suoi 14.233 endecasillabi che conducono dal fango infernale alla luce gloriosa paradisiaca, passando attraverso la catarsi purgatoriale. Se volessimo cercare qualche motto tematico essenziale tra i tanti possibili, ricorreremmo a una trilogia di espressioni ritagliate all’interno dell’opera. La prima potrebbe essere l’incisivo «a l’etterno dal tempo» (Paradiso XXXI, 38) che riscrive in modo straordinario secondo un procedimento inverso il celebre versetto del prologo giovanneo: «Il Lógos carne divenne » (1,14), ove la «carnalità » ( sarx) designa appunto la temporalità e la caducità, mentre il Verbo ( Lógos) rimanda al divino e all’eterno, come si evince dallo stesso incipit di quel prologo innico: «In principio era il Lógos e il Lógos era presso Dio e il Lógos era Dio» (1,1). La teologia dell’Incarnazione è, quindi, efficacemente delineata in quell’ossimoro «etterno- tempo». Il secondo motto ideale potrebbe essere la formula «come l’uom s’etterna » (Inferno XV, 85), ove si intuisce il tema della grazia e della redenzione che è anche la meta ultima dell’itinerario della vita umana. Infatti è significativo che, nella contemplazione della purissima trascendenza della Trinità, Dante veda un volto umano: è quello di Cristo, la Parola eterna divina fatta carne nel grembo di Maria. Per questo la «circulazion», la dinamica trinitaria, di «tre giri / di tre colori e d’una contenenza », «mi parve pinta de la nostra effige» (Paradiso XXXIII, 116-117, 127, 131). Come commenta papa Francesco nella sua Lettera, «l’essere umano, con la sua carne, può entrare nella realtà divina, simboleggiata dalla rosa dei beati. L’umanità, nella sua concretezza, con i gesti e le parole quotidiane, con la sua intelligenza e i suoi affetti, con il corpo e le emozioni, è assunta in Dio, nel quale trova la felicità vera e la realizzazione piena e ultima, meta di tutto il suo cammino». Il terzo emblema che proponiamo è, invece, un verbo coniato dal Poeta, «trasumanare » (Paradiso I, 70), un termine caro a papa Giovanni Paolo II che, in occasione dell’inaugurazione della mostra Dante in Vaticano, il 30 maggio 1985, così lo commentava: «Trasumanare. Fu questo lo sforzo supremo di Dante: fare in modo che il peso dell’umano non distruggesse il divino che è in noi, né la grandezza del divino annullasse il valore dell’umano. Per questo il Poeta lesse giustamente la propria vicenda personale e quella dell’intera umanità in chiave teologica». È ciò che lo stesso poeta aveva delineato già nell’Epistola XIII a Cangrande della Scala: «Il fine del tutto e della parte è rimuovere i viventi in questa vita da uno stato di miseria e condurli a uno stato di felicità». Per questo giustamente papa Francesco nella sua Lettera definiva Dante «profeta di speranza» e «cantore del desiderio umano», proprio nel senso etimologico del termine, che rimanda ai sidera, alla trascendenza raggiunta a partire dall’orizzonte finito dell’umanità temporale e mortale.

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