Foglietto 11 dicembre 2011 (Famiglie Visitazione)
1) Venne [lett: ci fu] un uomo mandato da Dio, il suo nome era
Giovanni: questo e i due versetti seguenti sono presi dal prologo di Gv.
Si sta parlando del Verbo e della sua luce; qui si inizia a parlare di
Giovanni: ci fu un uomo.
2) Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce: si
parla della rivelazione della luce e Giovanni è il testimone della luce.
Come in tutto l’AT, Dio sceglie misteriosamente di farsi conoscere attraverso
dei testimoni e li manda in tempi precisi della storia umana.
3) Non era lui la luce: la grandezza della testimonianza
inevitabilmente sovrasta il testimone e molto spesso sfocia nella sua
persecuzione da parte degli uomini: anche in questo Giovanni si ricollegherà
alla tradizione profetica dell’AT.
4) Questa è la testimonianza di Giovanni: nel testo c’è stato un salto.
Si è passati dal prologo alla narrazione storica.
Qui Giovanni è presentato essenzialmente come testimone più che come precursore
e apripista.
5) Tu, chi sei: i capi di Gerusalemme hanno aperto un’inchiesta, c’è
diffidenza per quest’uomo. In Lc Gesù stesso
dirà a un certo punto: anche i
pubblicani, ricevendo il battesimo di Giovanni, hanno riconosciuto che Dio è
giusto. Ma i farisei e i dottori della Legge, non
facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro.
(Lc7, 29-30).
6) Io non sono il Cristo: invece di rispondere alla domanda (io
sono…), Giovanni parte con una prima negazione.
Va subito al centro della preoccupazione dei Giudei, al fatto cioè che sia arrivato
un Messia che sfugga ai loro schemi, al loro controllo, lontano da Gerusalemme
e dal tempio. Le due domande successive (sei tu Elia… sei tu il profeta) confermano
questo fatto: la tradizione associa la venuta del Messia con il ritorno di Elia
o con la venuta del profeta di cui parla Mosè in Dt 18,15: Il Signore, tuo Dio, susciterà per te… un profeta pari a me. Gv dunque si discosta dai sinottici che definiscono Giovanni come quell’Elia che deve venire (Mt 11,14):
in Gv la grandezza di Giovanni Battista consiste nell’essere il testimone per
eccellenza di Gesù.
7) Io sono voce di uno che grida nel deserto: il testo è più
essenziale (io voce gridante nel deserto).
Nella linea dell’umile testimone, manca il verbo “io sono”, che nel vangelo di
Gv è tante volte sulla bocca di Gesù. Il
Battista è una semplice voce, Gesù è il Verbo, la parola.
“…se avete ormai compreso la distinzione
tra voce e parola, ascoltate ciò che vi deve stupire in questi due, Giovanni e
Cristo. La parola è di grandissimo valore anche senza
voce; la voce non ha senso senza la parola” (Agostino, Sermo, 288,3).
8) Io battezzo nell’acqua. In mezzo
a voi sta uno che voi non conoscete: i farisei vorrebbero indagare ancora
sul Battista, ma lui sposta l’attenzione su un altro.
Non dice nulla di più, se non che lui è tanto più piccolo di colui che deve
venire, quasi a indicare che la loro inchiesta, i loro ragionamenti non
serviranno, che solo una rivelazione divina, da accogliere con semplicità,
potrà farli incontrare con il Cristo che viene.
Isaìa 61,1-2a. 10-11
1) Lo spirito del Signore è su di me: Gesù
dopo aver proclamato questo passo di Isaia nella sinagoga di Nazareth afferma:
oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltato (Lc 4,21).
In Gesù si compiono tutte le profezie che la Scrittura riferisce al Messia
della stirpe di Davide ed al popolo messianico: Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse. . . Su di lui si poserà lo spirito del Signore (Is 11,1-2); Riverserò sopra la casa e sopra gli abitanti
di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione (Zc 12,10).
2) Perché il signore mi ha consacrato con
l’unzione: colui che è unto viene separato per essere consacrato a Dio (1Sam
16,12-13). I sacerdoti, i re e soprattutto il
Messia sono consacrati con l’unzione. La
parola di origine ebraica ‘Messia’, che in greco si traduce con ‘Cristo’, significa
‘unto’. Secondo un commento rabbinico è invece
il profeta Isaia colui che qui afferma di avere ricevuto l’unzione di Dio: “Che cosa ha meritato ad Isaia di giungere a
tal punto di lode e di gloria? Disse David: Tu hai amato la giustizia (cioè
tu hai amato di giustificare le sue creature) perciò Iddio, il tuo Dio ti ha unto con olio di allegrezza a preferenza
dei tuoi compagni” (Sal 45,8). L’eletto di
Dio, il suo unto, è colui che di fronte al Signore esercita il ministero di
giustificare i suoi fratelli e di consolarli.
Per questo viene eletto ed in questo consiste la sua giustizia di fronte a Dio.
3) Mi ha mandato a portare un lieto annunzio ai
poveri: una traduzione letterale possibile dal testo ebraico è: il Signore mi unse per annunziare ai
poveri, mi ha inviato per fasciare i cuori spezzati.
Il Messia è unto, cioè è costituito come Messia, per dare il buon annunzio ai
poveri. Questo annunzio non è dunque una
missione fra le tante possibili che viene affidata al Messia in conseguenza
della sua elezione, ma è la ragione stessa della sua elezione, ciò che lo identifica
e costituisce come Messia. Il buon annunzio
donato ai poveri (cioè il Vangelo) è il volto del Dio d’Israele e di Gesù (Is 57,15),
del tutto diverso da quello degli dei, che rappresentano la tensione umana
verso la grandezza.
4) A promulgare l’anno di grazia [in
ebraico: l’anno di favore; nei LXX: l’anno gradito; nella Vulgata: l’anno che espia] del Signore: la povertà che il Signore visita è, nella sua ultima e
più drammatica determinazione, quella povertà radicale dell’uomo che è la
povertà del peccato, la lontananza da Dio (Mt 4,12-17).
L’anno di grazia del Signore è il tempo favorevole in cui Dio apre senza misura
la porta della sua misericordia (2Cor 6,2; Lc 4,19; Lev 25,19-20).
5) Poiché, come la terra produce i suoi
germogli. . . così il Signore farà germogliare la giustizia davanti a tutte le genti:
la scrittura suggerisce che la Parola di Dio diffusa sulla terra è all’origine
della sua fecondità: Ecco, il seminatore
uscì a seminare (Mt 13,3). Come… la pioggia e la neve scendono dal
cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, così sarà della mia
parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto (Is 55,11).
Amore e verità s’incontreranno, giustizia
e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia
si affaccerà dal cielo (Sal 85,11-12).
1Tessalonicesi 5,16-24
1) Siate sempre lieti: nei versetti che
precedono Paolo esorta i suoi fratelli di Tessalonica a porre attenzione a
quelli che faticano, ad avere un grande affetto per quelli che fanno da guida
nel Signore. Chiede che tutta la comunità viva
nella pace: correggendo gli indisciplinati, sostenendo i più deboli e invitando
ad avere pazienza verso tutti. Chiede di
vigilare che nessuno renda ad un altro male per male avendo sempre di mira il
bene sia tra loro che verso tutti. Questo
lavoro sapiente porta frutto se è vissuto con un cuore lieto, gioioso, allegro.
In tutta la lettera, la gioia, è la bella condizione nella quale si muove la
relazione tra Paolo e la comunità di Tessalonica: avete seguito il nostro
esempio e quello del Signore, avendo accolto la parola in mezzo a grandi prove,
con la gioia dello Spirito Santo (1Ts 1,6).
Infatti chi, se non proprio voi, è la nostra speranza, la nostra gioia e la
corona di cui vantarci davanti al Signore nostro Gesù, nel momento della sua
venuta? Siete voi la nostra gloria, e la nostra gioia! (1Ts 2,19ss): Quale
ringraziamento possiamo rendere a Dio riguardo a voi per tutta la gioia che
proviamo a causa vostra davanti al nostro Dio (1Ts 3,9).
2) Pregate ininterrottamente: continuamente
Paolo rende grazie a Dio e ricorda nella preghiera i fratelli di Tessalonica e chiede
che anche loro lo ricordino nella loro preghiera.
La preghiera vicendevole è quindi un vincolo di affetto e di unità di tutta la
comunità. La preghiera continua, senza
stancarsi, è strettamente legata alla gioia di essere ininterrottamente in
comunione gli uni gli altri e con il Signore: mi indicherai il sentiero
della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra
(Sal 15,11). Gli apostoli ritenevano veramente
importante il non venire meno nella preghiera tanto che: In quei giorni,
mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti
verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione
quotidiana. Allora i Dodici convocarono
il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola
di Dio per il servizio delle mense.
Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni
di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest'incarico.
Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della parola» (At
6,1ss).
SPIGOLATURE
ANTROPOLOGICHE
La testimonianza prospettata e proposta dalla sapienza
ebraico-cristiana non è solo un’attestazione di verità, ma, più profondamente,
è la possibilità e la potenza di “rendere presente” la persona o la realtà che
viene testimoniata. Mentre quindi la missione
propria del testimone sarebbe quella di preparare ciò che deve avvenire e
l’accoglienza della persona che sta per giungere, la testimonianza proposta
dalla memoria evangelica giovannea proclama “presente” Colui che è atteso.
Il “paradosso” di tale testimonianza è il suo proclamarsi attraverso la
negazione. Il testimone compie il suo compito
negandosi: “Non sono io”! Mentre è istintivo e ragionevole pensare che la
testimonianza più forte sia quella che manifesta una qualche identificazione, e
una profonda assimilazione con chi si vuole testimoniare, qui la forza della
testimonianza è il proclamare la sua radicale diversità.
Si tratta di un testimone fedele, proprio perché quello che fa e quello che è si
colloca in assoluta distanza dalla realtà testimoniata.
“Io voce gridante nel deserto” è il testimone.
E dunque, mentre manifesta l’evento si colloca nella stessa situazione di
coloro che l’aspettano, di quelli di cui lui stesso dice : “Voi non lo
conoscete”.
Tutto questo si amplia ulteriormente quando nel testo di
Isaia il consacrato del Signore, e quindi quello che il Battista testimonia, è
a sua volta portatore di lieto annunzio, riferimento all’Altro”.
Lui stesso è “rivestito delle vesti della salvezza”, e quindi Lui stesso dice
“Io gioisco pienamente nel Signore”! Viene il pensiero che la testimonianza sia
sempre apertura all’Altro e mai giunga ad un termine.
Dunque, all’interno stesso del mistero di Dio, non c’è un riferimento “ultimo”.
Così anche nella comune interpretazione della vita, ognuno è sempre “in riferimento
all’altro”. Paolo scrive ai Romani che
“nessuno vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso” (Rm 14,7).
Solo la relazione, e quindi solo l’amore, dice la realtà che non può che essere
incessantemente perseguita. Perciò ai cristiani
vengono date queste straordinarie direttrici del cammino della vita: “Siate
sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie”, dove il
“sempre… ininterrottamente… in ogni cosa” dicono con eloquente efficacia che il
cammino non giunge mai al termine.