Omelia 13 ottobre 2011 (Ludwig Monti)
Is 1,2-5a; Lc 11,47-54
Guai a noi…!
Parole dure i «guai» rivolti da Gesù a farisei e
dottori della legge, cioè a coloro che sono deputati a interpretare le sante
Scritture a favore del popolo. Parole che fanno sorgere in noi un
interrogativo. Come può parlare in questo modo lo stesso Gesù che ha detto: «Amate i vostri
nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi
maledicono» (Lc 6,27-28)?
Per sciogliere questa apparente contraddizione occorre
ricordare che i «guai» – ben attestati
nelle Scritture, in particolare nei profeti – non sono, secondo l’opinione comune, delle maledizioni. Essi sono degli avvertimenti, degli aspri richiami in
vista della conversione; sono invettive e insieme lamenti pronunciati con
dolore da chi continua a sperare che i destinatari possano fare ritorno a Dio… Gesù
vede la via di male sulla quale questi uomini religiosi sono incamminati e
cerca di renderli consapevoli di tale situazione. Con un’appassionata veemenza
mista a tristezza grida: «Infelici, sventurati voi se non capite che dovete
cambiare il vostro modo di comportarvi!».
Ma queste parole sono un rimprovero rivolto anche a
noi. Guai a noi, doppiamente guai a noi se ci lavassimo la coscienza attribuendo
gli errori stigmatizzati da Gesù a una categoria diventata mitica e
proverbiale, «gli scribi e i farisei». È per ricordarci questo che san Girolamo
scriveva: «Guai a noi, miserabili, che siamo ricaduti negli stessi vizi dei
farisei!». E da che cosa Gesù ci mette in guardia? In sintesi, dal terribile
vizio contro il quale si è scagliato lungo tutta la sua vita: l’ipocrisia, cioè la falsità, quel vizio che spinge a privilegiare l’apparire
sull’essere, a costo di fingere, di simulare, di recitare una parte davanti
agli altri.
Qui Gesù ne sottolinea due manifestazioni.
In primo luogo l’edificare i sepolcri ai profeti, coloro che cercano di farci
conoscere il volto di Dio, i porta-parola della sua grazia a caro prezzo.
Mentre sono in vita li ignoriamo o li perseguitiamo; anzi, lasciamo ad altri
questo «lavoro sporco», mentre noi ci accontentiamo di approvarlo. Poi, appena
morti, li ricordiamo con falso rimpianto, corriamo a mettere fiori sulla loro
tomba. Un’altra faccia dell’ipocrisia è quella messa in luce nel secondo monito:
«Avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a
quelli che volevano entrare l’avete impedito». È un rischio grossolano e
sottilissimo nello stesso tempo. Grossolano perché evidente in ogni casta religiosa:
è l’impadronirsi del potere per il puro gusto di detenerlo, giungendo anche a
fingere di interessarsi alle cose di Dio pur di esercitarlo. Sottilissimo
perché si manifesta in una lettura delle Scritture che le depotenzia, le
svuota, le rende oggetto di speculazione e non fonte di vita. Sì, si può giungere persino a depotenziare il
Vangelo proprio mentre si dice e si crede di volerlo vivere: è un esito
terribile eppure possibile… Così non si entra nella vita, ma soprattutto – e
questa è la vera colpa – si impedisce ad altri di entrare!
Seppellire i profeti e depotenziare il
Vangelo: infelici noi se non comprendiamo quanto questi rischi ci minaccino
quotidianamente; beati noi se
comprendiamo e viviamo che la chiave per non rimanere fuori, ai margini della
vita, è lasciarci giudicare ed evangelizzare dal Signore Gesù e dal suo
Vangelo.