Franco Garelli "Alla Chiesa servono relazioni"
Il cristianesimo è diventato tiepido, non bada ai fondamenti della fede e per intercettare la spiritualità dei giovani e le loro richieste la parola di Dio non basta più, c’è bisogno di legami e ideali.
C'è una distinzione cristiana nel panorama delle fedi nel mondo? Quanto il cristianesimo e le Chiese sono oggi sfidate dalle nuove spiritualità? Qual è il travaglio della Chiesa cattolica, con particolare riferimento alla situazione italiana, nell'epoca del pluralismo? Ecco, a mio avviso, i temi principali sollevati da Monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino, nell'articolo pubblicato qualche giorno fa su La Stampa, che ha generato un'interessante reazione di Vito Mancuso sullo stesso quotidiano.
Mancuso si sofferma anzitutto sulla frase con cui Repole (da credente e da Vescovo) conferma il suo primato nella fede in Gesù Cristo, portatore di una salvezza che non ha uguali nella storia. «Chiedo perdono - afferma il prelato torinese - ma per meno di questo io non riuscirei ad essere cristiano». A detta di Mancuso, questa posizione sembra tipica di un cattolicesimo "esclusivo", ripropone l'idea tradizionale che la salvezza spetti soltanto a quanti si identificano nella proposta cristiana, mentre tutti gli altri (chi professa fedi diverse o quanti non credono in Dio ma operano per la giustizia e vivono in modo responsabile) siano collocati a questo livello in una posizione subordinata. Ora, è ovvio che quella di Repole è un'espressione forte, che in un mondo ricco di fedi diverse (e dove molti credono altrimenti) può creare sconcerto. Tuttavia, si tratta di una affermazione da contestualizzare. Non si può infatti pensare che il Vescovo di Torino, che è un teologo assai qualificato, si distanzi dalla linea del Concilio Vaticano II, per il quale la Chiesa cattolica non era più presentata come l'unica società religiosa che conduce alla salvezza, pur ribadendo la centralità in questo campo della rivelazione cristiana. Piuttosto, l'affermazione di Repole assume il suo vero significato a fronte di considerazioni precedenti, là dove egli osserva che oggi «molti cristiani non sentono più l'urgenza o la bellezza di annunciare e testimoniare Gesù Cristo agli altri»; uniformandosi in qualche modo al «nichilismo contemporaneo» o a quel "relativismo culturale" che mette sullo stesso piano ogni tipo di credenza religiosa o "parareligiosa"; come se una valesse l'altra. Dunque, qui il richiamo è ai cristiani perché riscoprano la ricchezza specifica della fede che professano (la distinzione cristiana, appunto), nella responsabilità che questo "dono" comporta e nel pieno rispetto ovviamente delle altre fedi e tradizioni religiose.
Questo cristianesimo tiepido (poco attento ai fondamenti della fede cristiana) è uno dei motivi che più preoccupano la Chiesa oggi. Ieri, in una società perlopiù cristiana, poteva essere in qualche modo tollerato, mentre oggi, in un contesto ricco di proposte spirituali di altra natura (dove non mancano forme nuove o alternative di spiritualità) esso emerge con grande evidenza. Su questo aspetto c'è ampia convergenza di pensiero sia in Repole che in Mancuso. Il primo individua un punctum dolens della presenza cattolica in Italia (anche tra i cattolici più impegnati) nella carenza di spiritualità, nella debolezza della riflessione religiosa che si riscontra nelle varie comunità; e ciò pur in un cattolicesimo ancora fortemente attivo in campo caritativo e solidaristico. Tuttavia, a detta di Repole, «la Chiesa non può limitarsi ad aiutare i poveri, accontentandosi di operare una "pseudocarità" separata dall'adesione a Cristo; ma "dovrà essere profetica", dovrà farsi portatrice di una spiritualità che da un lato sorregge l'impegno per gli ultimi e dall'altro offre alle persone e alla società intera un orizzonte di senso più alto e più ampio. Quanto a Mancuso, anch'egli condivide l'idea che oggi vi sia nel Paese una frattura tra la proposta religiosa cristiana e la ricerca spirituale contemporanea. Entrambi sono convinti che la domanda di senso e di spiritualità sia assai diffusa alle nostre latitudini, rispetto alla quale l'offerta cristiana sembra (citando Mancuso) «sempre più irrilevante e sempre meno capace di parlare all'inquietudine dei cuori».
Da sociologo, sarei più cauto su questa nuova domanda di spiritualità di cui si parla molto nella società contemporanea (con particolare riferimento ai giovani), interrogandomi sulla qualità di questa istanza e sul riverbero che essa può avere sia nella vita delle persone sia nella presenza sociale e pubblica. Ciò in quanto le indagini empiriche che approfondiscono il tema rilevano una situazione controversa. Non tutti i giovani affermano di avere una vita spirituale (essendo forse più attaccati alla "concretezza" della vita), una parte di essi esprime al riguardo più un'intenzione che un vissuto, molti coltivano una spiritualità incentrata sull'armonia umana e personale, sullo stare bene con se stessi, con gli altri e con la natura. Anche in questo campo, quanti esprimono una spiritualità impegnata (connessa sia a una fede religiosa sia a forme spirituali nuove e alternative) costituiscono delle minoranze, pur qualificate.
In tutti i casi, come afferma monsignor Repole, sono sempre di più i giovani che disertano le chiese. Per cui in linea con la sua visione pastorale, egli ha da tempo messo in atto una serie di incontri diocesani (che risultano assai affollati) rivolti ai giovani per annunciare la bellezza e la fecondità della proposta cristiana per la loro vita personale e sociale. Nelle sue testimonianze c'è sempre una chiara professione di fede, che sa un po' di sana "apologetica". Quella che ricorda a tutti la ricchezza di una spiritualità cristiana capace di illuminare i tempi bui della storia e di compensare le rigidità della Chiesa istituzione in molti campi; che ha espresso grandi profeti e mistici e figure esemplari di credenti; che può aver molto da dire anche alla coscienza moderna, in quanto lo sguardo verso l'Alto può offrire alle persone una migliore comprensione di sé e della propria collocazione nel mondo. Resta da chiedersi se l'annuncio fermo ed esplicito attraverso la parola sia la via migliore per interpellare una generazione ormai affine ad altri linguaggi, che anche sulle grandi questioni riversa il suo sguardo incerto e altalenante, perlopiù propensa a valutare la bontà di un ideale in un coinvolgimento affettivo e relazionale a tutto campo.