Alessandro D’Avenia "Stanchezza e vergogna"
Qualche giorno fa una ragazza si è tolta la vita con una sciarpa nel bagno di un’università milanese: nel biglietto d’addio chiedeva scusa per i suoi fallimenti. Vorrei andare oltre la critica alla cultura della performance per capire piuttosto come curare in tempo le ferite che uccidono, fisicamente o spiritualmente, i futuri ventenni. Da tempo collaboro con il regista Gabriele Vacis e abbiamo realizzato un lavoro tratto dal libro «L’Appello» con i bravissimi ragazzi della sua scuola di teatro, i quali alla fine del triennio hanno costituito una compagnia (PEM) che ha appena portato in scena a Torino «Antigone e i suoi fratelli», spettacolo ispirato alla tragedia di Sofocle in cui una ragazza si oppone alle leggi ingiuste della città per difendere i legami familiari, pagando con la vita. Vacis ha chiesto ai ragazzi di rispondere alla domanda chiave dell’opera: per chi o cosa, come Antigone, vale la pena dare la vita? E così è nato il monologo «Ho nostalgia della guerra» di Lorenzo Tombesi, uno degli attori poco più che ventenni dei PEM. Incastonato nello spettacolo è una dolorosa confessione sulla fatica di trovare, oggi, una ragione sufficiente per cui dare la vita: «Sia l’una cosa, morire, che l’altra, cioè vivere, richiedono una scelta. Io non ho il coraggio di fare una scelta. E quindi cambio idea, continuamente. Non ho una fede. Non ho una causa per cui lottare, perché ne ho troppe». Non mancano le cause, ma allora che cosa manca?
Il monologo risponde: «Il piccolo motore interno che ho mi ha portato lontano da casa, ma per fare un mestiere che non credo valga più di un altro. Quanto è stata ribellione? Quanto è stato talento? Forse oggi recito, ma domani? E questo mi fa rabbia! Perché significa che niente è insostituibile, che niente è indispensabile. Necessario. Anzi che tutto è inconsistente, è troppo comodo, è fiacco, è opaco, sicuro, vecchio, tutto è uguale a tutto!». L’attore si chiede in che cosa è insostituibile: non vuole la resa alla realtà ma una presa sulla realtà. Per questo ai miei studenti dell’ultimo anno dico: «Per avere la maturità (non l’esame, formalità superata dal 99,5% dei maturandi) dovete riuscire a rispondere a una sola domanda: perché sei venuto al mondo?». La risposta smaschera le finzioni (copioni di vita imposti o interiorizzati ma non propri) con cui cerchiamo di armare il nostro ego e indebolisce la paura che paralizza le scelte e quindi la crescita. Provo a rispondere io: sono venuto al mondo per aiutare altri a trovare il proprio destino, attraverso la bellezza. Scrivere, insegnare, raccontare a teatro... sono modi di realizzare, nello spaziotempo in cui vivo, ciò per cui sono qui. A molti ragazzi oggi manca «il perché», che non li aiutiamo a trovare e a far fiorire (in famiglia e a scuola) soffocandolo con decine di «come» e di «che cosa» fare. Infatti Lorenzo continua: «Non ho il coraggio di dimenticare l’idea della sicurezza economica, che rispetto ad altri considero meno perché ho intrapreso una strada molto incerta, ma mi pesa il timore di non riuscire a raggiungere una stabilità. Non ho il coraggio di credere in Dio, in Allah, in Zeus, perché chi dovrebbe raccontarmi certe storie non ne è più capace. Sono davvero invidioso dei giovani ucraini… a loro è capitata la guerra e non hanno altra scelta che prendere in mano il fucile». Lorenzo afferma provocatoriamente che vorrebbe esser messo in una questione di vita o morte. Nei periodi di pace i suicidi dei giovani aumentano, smascherando il vuoto di una cultura che, non offrendo ragioni per vivere, è poi costretta a darsene una per morire, come la guerra. È una pulsione che Freud chiama «di morte», opposta all’unico fine perseguito dalla specie: la sopravvivenza (conservazione e perpetuazione). Quest’ultima però non è sufficiente, non ci basta sopravvivere, noi vogliamo vivere «sopra», cioè dare un senso alla vita, e se non lo troviamo decidiamo incredibilmente di dare e/o darci la morte. Il monologo infatti finisce così: «Dico queste cose e allo stesso tempo mi accuso - mea culpa mea culpa mea culpa, ma come faccio a non subire il fascino di chi sceglie di morire? Non voglio più avere tutte queste reti, tutte queste possibilità, tutte queste alternative! Come faccio a scegliere se c’è tutta questa scelta? Forse un tempo c’era la rabbia, a me è stato lasciato quello che viene dopo: la stanchezza. C’è qualcosa per cui saresti disposto a morire? Per cosa vale la pena vivere? Non ho niente da rispondere. E mi vergogno anche per avere pensato le cose che ho detto, e soprattutto mi vergogno di averle dette». Troppe scelte, nessuna che valga la vita, la seduzione della morte e le ferite generazionali: stanchezza e vergogna, quelle che portano al suicidio una ventenne. Che fare? La risposta di Antigone è valida da quando fu pronunciata quasi 25 secoli fa: «Io sono nata (éphyn) non per odiare (synéchthein) ma per amare (synphiléin)». Sofocle inventa per lei due verbi che in traduzione sbiadiscono: a philéin (amare) e a échthein (odiare) aggiunge infatti syn (con), preposizione che indica unione e pienezza (sinergia e compagnia, simpatia e compassione, sintonia e concerto, simposio e congresso...).
La giovane Antigone afferma che il suo destino (il verbo significa nacqui, venni al mondo, la mia natura) è syn-philéin: «con-amare», «tutto-amare», e non «con-odiare», «tutto-odiare», cioè creare legami (essere amata e amare) e non catene (essere odiata e odiare), cioè guerra, in ogni forma, tra singoli o popoli, di parole o fucili. L’odio infatti è capace di dare senso ed energia alla vita come ci riesce l’amore, ma con esiti opposti: (auto-) distruttivi. Con amare qui si intende l’appartenere a qualcuno a tal punto da poter anche dare la vita per lui, come quando diciamo ti amo da morire (cioè voglio impegnarmi perché tu esista di più, costi quel che costi). Il sapere «perché» è venuta al mondo rende quindi Antigone capace di opporsi al potere e dare la vita per i fratelli: non può tradire se stessa, smetterebbe di vivere da viva. Compito educativo, ieri come oggi, resta quindi quello di far sentire ai ragazzi questa «appartenenza» (relazioni autentiche e stabili) che consente poi loro di «venire al mondo» con coraggio, da infanti a fanti, che vanno «alla vita» e non «alla guerra». L’assenza di relazioni di appartenenza significative, legame profondo con la vita, impedisce di darla: solo chi viene «da» poi può essere «per», se non sono in cordata non avanzo e non conto per nessuno (non sono insostituibile), sono uno «slegato».
Auguro allora a Lorenzo (in fondo aver creato i PEM grazie a un maestro come Vacis non è già una risposta?) e ai ventenni come lui di non cedere alla seduzione della distruzione che manda a morire tanti giovani (come i fratelli di Antigone che si sono dati la morte a vicenda pur di ottenere il potere), provando invece a vivere in queste domande: a chi appartengo e chi mi appartiene? Perché sono venuto al mondo? Che cosa posso essere e fare solo io, oggi, per aumentare la vita in e attorno a me?