Umberto Galimberti “Cara Cecilia, ora usa la tua forza per rimanere chi sei”
Siamo tutti contenti per la liberazione di Cecilia Sala. Ma questa gioia collettiva non ci deve far dimenticare le conseguenze non proprio leggere che venti giorni di reclusione in una cella, da sola, con la luce accesa notte e giorno, senza un materasso su cui potersi adagiare, con una coperta sul pavimento e una per difendersi dal freddo, senza indumenti di ricambio, senza - almeno nella prima parte della prigionia - un giornale o un libro da leggere e senza neppure gli occhiali da vista per poter leggere, possono aver lasciato come traccia, speriamo non indelebile, nel corpo e nella psiche di Cecilia, improvvisamente sottratta al suo mondo e racchiusa in quel non-mondo che è la cella carceraria in cui è stata relegata.
Quali strategie mentali e comportamentali Cecilia può aver messo in atto per fronteggiare una situazione, a dir poco problematica e stressante, commisurata alle sue competenze e abilità? Come si può pianificare una propria strategia capace di trovare una soluzione idonea a reggere una situazione che, senza esitazione, possiamo definire angosciante?
E qui non uso la parola “angoscia” nell’accezione generica con cui spesso viene impropriamente impiegata. A differenza della “paura” che è un ottimo meccanismo di difesa che ha sempre un oggetto determinato da cui ci si vuol difendere, l’angoscia non ha un oggetto determinato perché è l’“esperienza del nulla”, nel senso che non c’è proprio nulla a cui far rifermento per poterci tranquillizzare. Per meglio capirci pensiamo ai bambini che non hanno paura di niente, per cui vanno sempre sorvegliati in quanto sempre sono esposti ai pericoli, ma cadono in angoscia quando, non ancora addormentati, la mamma, spenta la luce, esce dalla stanza, e nel buio il bambino “perde letteralmente il suo mondo” di riferimento e fa esperienza del nulla perché, nel buio, non c’è proprio nulla a cui potersi riferire per tranquillizzarsi. E perciò, “angosciato”, si mette a strillare. Cecilia non era al buio, ma le pareti mute della sua cella, l’assenza di qualcuno a cui potersi relazionare, la destrutturazione della temporalità che non consentiva di distinguere la notte dal giorno, l’assenza di motivazione che rendeva ai suoi occhi incomprensibile la carcerazione, potevano innescare, e forse hanno anche innescato, processi di “derealizzazione” con persistenti e ricorrenti vissuti di irrealtà del proprio ambiente circostante, avvertito come onirico, distante o distorto, quando non anche processi di “depersonalizzazione” con ricorrenti vissuti di sentirsi distaccata da sé, come se fosse un’osservatrice esterna dei propri processi mentali ed emotivi.
Tutta questa esperienza angosciante è finita con la sua liberazione? Ce lo auguriamo tutti e Cecilia stessa se lo augura, anche se sa che purtroppo dovrà fare i conti con quello che la psicologia chiama “stress post-traumatico”, ben noto a chi è stato vittima di disastri naturali improvvisi, come terremoti, maremoti, eruzioni vulcaniche, disastri naturali come le epidemie di cui abbiamo fatto recente esperienza, disastri ecologici come le carestie da cui fuggono tanti che vengono da noi, disastri improvvisi come incendi, esplosioni, incidenti nucleari come Chernobyl. Come le guerre che noi vediamo solo in televisione, le diaspore, i trasferimenti di popolazione, le migrazioni a cui assistiamo con una certa insofferenza. Come i traumi conseguenti a incidenti stradali, stupri, abusi, molestie sul lavoro a cui non diamo troppa importanza, emarginazione sociale come spesso accade ai senzatetto o ai detenuti le cui condizioni carcerarie inducono spesso al suicidio nella nostra assoluta indifferenza, come agli immigrati a cui neghiamo lo sbarco in porti vicini.
Anche Cecilia, sia pure avvantaggiata dalla sua giovane età e dalla riconosciuta e apprezzata sua professionalità, come farà a riprendere la sua vita precedente come se nulla fosse successo? Nessuno può rimuovere una simile esperienza, perché, come Freud ci ricorda, «il rimosso ritorna». Ritorna negli incubi notturni, nel nuovo modo di relazionarsi un po’ avvelenato da un ingiustificato senso di colpa indotto da chi tacitamente e ipocritamente ti lascia intendere che un po’ questa sorte te la sei cercata andando in Iran. Ritorna nel modo di amare e di essere aperti al mondo come lo si era prima, perché lo stress post-traumatico, coinvolgendo aspetti cognitivi, affettivi, sensoriali viscerali e aspetti comportamentali che interagiscono tra loro, quando oltrepassa le capacità di resistenza del singolo individuo, indeboliscono il sistema immunitario e di conseguenza espongono il soggetto al rischio di patologie psichiche o somatiche o entrambe per periodi più o meno lunghi.
A Cecilia, ovviamente non auguro nulla di tutto questo, anche se non possiamo trascurare le testimonianze di quanti hanno vissuto esperienze simili alla sua e per un tempo più prolungato. Un solo consiglio, se mi è consentito: la capacità di controllo che Cecilia ha dimostrato nel periodo della sua detenzione lo riutilizzi per governare gli effetti dello stress post- traumatico che le consentirà di mantenere intatta al propria autostima, che è il bene più prezioso che questa terribile esperienza può averle fatto conoscere.
Nessuno può rimuovere una simile esperienza. Ritorna negli incubi, in un ingiustificato senso di colpa indotto da chi ti lascia intendere che un po’ te la sei cercata.