Paolo Gamberini "La casa sta crollando… Ma ci preoccupiamo di cambiare le lampadine"
Rocca n° 22/2024
Il nostro mondo sta cambiando velocemente e la Chiesa è ancora a discutere su questioni di ministeri, rilevanza della teologia nella scena pubblica,
su come dare benedizioni a persone
dello stesso sesso senza però crederci
che siano vere.
RIMANERE NELLA CHIESA PER
CAMBIARE DALL’INTERNO
Di fronte a tutto questo ci viene di chiederci: dobbiamo lasciare la Chiesa? La
mia risposta è di rimanerci come persone
mature. Essere critici fino in fondo, ma
restare sempre “dentro la Chiesa”. Questo
significa dialogare, protestare, confrontarsi, ma farlo all’interno dell’istituzione
ecclesiale, e, se possibile, con una certa stima, anche quando l’amore sembra
mancare. Quando si sceglie di uscire dalla
Chiesa per ragioni profonde, si esprime
un disagio, un malessere, forse addirittura un dono profetico. Tuttavia, è fondamentale rimanere “dentro”.
Proprio come ha fatto Gesù, che è stato
un profeta “dentro” il Giudaismo del suo
tempo, rimanendo un ebreo osservante
senza allontanarsi dalla Torah o dalla Halachà (la legge ebraica). Tuttavia, ha reinterpretato questa tradizione, restituendo
il suo significato autentico: “Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te
stesso”. Chi critica la Chiesa e si definisce
seguace di Gesù dovrebbe seguire il suo
esempio, cercando di cambiare le cose
dall’interno, senza abbandonare la Madre
Chiesa che li ha generati.
IL GESÙ STORICO E IL CRISTO
UNIVERSALE
Gli studi degli ultimi cinquant’anni sul
Gesù storico concordano sul fatto che fosse un ebreo “riformato”. L’idea di un Gesù
anti-ebraico è stata costruita per giustificare la separazione tra cristiani ed ebrei.
Personalmente, credo in Gesù non solo
perché è ebreo, ma perché è il “Cristo”.
Non è necessario che io “cristiano” diventi “ebreo” perché Gesù era un ebreo “fino
in fondo”. Lui può rimanere quello che è,
ma tra me e lui ci sono 2000 anni di storia
e di cultura religiosa differenti. Credere in
Gesù non significa credere in “quel” Gesù
ma nel Gesù reso vivo nello Spirito (1Pt
3,18).
È questa azione dello Spirito su Gesù
che lo rende a noi “contemporaneo” per
cui possiamo anche “trasgredire” ciò che
Gesù ha detto e compiuto, a motivo della maggiore comprensione ed evoluzione
spirituale: “Quando però verrà lo Spirito
di verità, egli vi guiderà alla verità tutta
intera” Gv 16,13.
E il Cristo non è solo una persona, ma ancor più un processo continuo di trasformazione dell’umano. Il Cristo (Universale) va oltre Gesù (l’ebreo): come una vite,
le cui radici sono “gesuane/ebraiche”, ma
i cui rami si estendono grazie alla linfa vitale dello Spirito. La realtà di Cristo trascende le radici ebraiche di Gesù. La vite,
nella sua interezza, è “Cristo”. Il Cristo
“cosmico” di cui parla Teilhard de Chardin.
LA CRISI DELLA RELIGIONE
TRADIZIONALE E LA NUOVA
SPIRITUALITÀ
La domanda che mi pongo è questa: la
“vecchia” religione con il suo teismo è
ormai morente o addirittura già morta
(R.I.P.)? La scienza sembra essere diventata la nuova religione, con le sue teorie
che fungono da nuovi miti o meta-narrazioni culturali. Questi nuovi racconti cercano di esprimere la spiritualità, un fuoco
che resta sempre presente sia nella Chiesa
che nella scienza. Sia nell’una che nell’altra, stiamo passando dal certo all’incerto,
dal necessario al probabile, dalla definizione all’intuizione.
Parlando del Cristianesimo, già nel secolo scorso Teilhard de Chardin si rendeva conto che la religione stava perdendo
“prestigio e fascino”, non solo per i laici,
ma anche tra i cattolici. Egli si chiedeva:
“Cosa non va più?”. La sua risposta fu
quella di riconoscere che una forma specifica di cristianesimo, quella tradizionale, era in grande in crisi. Tale forma non è
più in grado di “conferire un senso totale
all’Universo in corso di scoperta attorno
a noi” (La mia fede, Queriniana, Brescia
1993, 149). Egli riteneva che era ancora
possibile ridare senso al Cristianesimo
partendo dalla categoria dell’evoluzione
(scienza) e dall’esperienza cristiana dell’amore (fede). Nell’enciclica Laudato Si’,
papa Francesco menziona direttamente
Teilhard (n. 83), quando afferma che “il
traguardo del cammino dell’universo è
nella pienezza di Dio, già raggiunta da Cristo risorto, fulcro della maturazione
universale”.
Spiritualità è un genere, e cristianesimo o
ogni altra espressione di essa, perfino l’ateismo, è la differenza specifica. Questo è
divenuto il dato “concreto” e non astratto
della cultura almeno in occidente, dove
appunto il cristianesimo nelle sue forme
abituali è in crisi. Le recenti riflessioni di
Vito Mancuso (La Stampa, 7 agosto 2024),
che anch’io condivido, intendono fotografare il dato presente, prima di giudicarlo.
A questo punto riprendo la domanda di
fondo di Mancuso che guida la sua risposta. Qual è il rapporto tra “cristianesimo”
ed “esclusività”? Certamente è una domanda “dogmatica” si potrebbe dire astratta,
ma dalla risposta a questa domanda “dogmatica” derivano conseguenze. È l’esclusività ancora essenziale alla fede cristiana
oppure è un dato culturale che risale alle
origini dell’esperienza cristiana (cfr. NT)?
È possibile pensare la fede cristiana “senza” l’esclusività dell’unico nome di Gesù
Cristo, così come in altri monoteismi c’è
o l’unicità della Torah oppure l’ultima
rivelazione di Dio nel Qur’an? Le guerre
di religione, certamente, non sono state
“causate” solo dalla fede monoteista, altre
ragioni vanno identificate tra cui quella
economica e di espansione militare è fondamentale, ma pur sempre “motivate” da
questa fede.
Penso e qui mi ritrovo nelle analisi di Vito
che l’esclusività sia un dato culturale ovvero un modo con cui la fede cristiana
si può esprimere. Senza questo attributo
non si nega la fede cristiana ma la si dischiude alla spiritualità nel senso che prima accennavo. Mi ritrovo pertanto nelle
considerazioni di Stanislas Bréton sulla
unicità del cristianesimo. Della fede cristiana si addice non quella di eccellenza
(o esclusività) ma di singolarità: uni-cum.
Si è “unici” mai senza gli altri (Michel de
Certeau). Così anche il Cristo: non è “unico” se non con gli altri, anche le altre religioni. Il passaggio culturale che stiamo
vivendo in Occidente è proprio questo: riformare il cristianesimo su questo punto.
Un cristianesimo senza esclusività, è un
cristianesimo con più umanità.
Cristianità, cristianesimo sono declinazioni storiche di un evento ben preciso: l’esperienza che uomini di Galilea hanno fatto
con Gesù nel I secolo. La sua storia con
loro ha inciso nella loro vita. Anche loro
– come noi – uomini in ricerca. “Che cosa cercate?” (Gv 1,38). La perdita della passione per tale ricerca fa sì che il cristianesimo perda il suo sapore. Altrimenti non saremmo qui a porci la domanda come mai
le chiese sono diventate alberghi o pubs in
alcuni paesi. Più spiritualità significa riaccendere con forza la passione di verità e di
autenticità nella propria vita.
Proprio di questo ha parlato papa Francesco durante l’incontro interreligioso
con i giovani a Singapore (13 settembre
2024). “Tutte le religioni sono percorsi
verso Dio”. Queste sono “lingue diverse
che esprimono il divino”. Tale dichiarazione è stata fraintesa da alcuni cattolici,
che hanno interpretato erroneamente le
parole del Papa, pensando che egli volesse affermare che tutte le religioni sono
ugualmente vere. In realtà, papa Francesco intendeva sottolineare che ogni religione offre un modo per comunicare con
Dio, ma non che tutte siano identiche o
equivalenti in termini di verità. Infatti, le
religioni si contraddicono tra loro alla superficie dei loro riti, testi sacri, dottrine e
istituzioni, ma si incontrano nella umanità vissuta. “A volte noi pensiamo che l’incontro tra le religioni sia una questione
che riguarda il cercare a tutti i costi dei
punti in comune tra le diverse dottrine e
professioni religiose. In realtà, può succedere che un approccio del genere finisca
per dividerci, perché le dottrine e i dogmi
di ogni esperienza religiosa sono diversi”
(Giacarta, 5 Settembre 2024).
Se approcciamo, invece, le religioni da
quella sorgente che è la “ricerca dell’incontro con il divino, la sete di infinito che
l’Altissimo ha posto nel nostro cuore, la
ricerca di una gioia più grande e di una
vita più forte di ogni morte, che anima
il viaggio della nostra vita e ci spinge a
uscire dal nostro io per andare incontro
a Dio” allora scopriremo che queste “non”
si contraddicono, ma si dicono a vicenda,
poiché le religioni sono l’esperienza della vita “il desiderio di pienezza che abita
il profondo del nostro cuore, noi ci scopriamo tutti fratelli, tutti pellegrini, tutti
in cammino verso Dio, al di là di ciò che
ci differenzia” e sapremo “ricercare insieme la verità imparando dalla tradizione
religiosa dell’altro (Giacarta, 5 Settembre
2024).
IL RUOLO DELLE RELIGIONI NELLE
NOSTRE SOCIETÀ “SCRISTIANIZZATE”.
Una società si fonda sul senso della vita.
Senza questo, tutto crolla. Il senso della
vita è la “humanitas”, che la spiritualità
riaccende in ciascuno: ciò che fa crescere l’umano. Le religioni, nei vari tempi
storici, hanno espresso questa spiritualità attraverso riti, testi sacri e istituzioni.
In particolare, il cristianesimo ha approfondito il significato della “humanitas”
al punto da identificarsi con esso. Essere
uomo significava essere cristiano (Naturaliter christianus). Nel mio dialetto romagnolo, ad esempio, la parola “tscièn” non
significa solo cristiano, ma ancora di più:
uomo. Nel passato sia la Chiesa cattolica
che le altre Chiese cristiane si sono identificate con l’umano da finire per monopolizzare la spiritualità, al punto che si
è giunti a identificare cristianesimo con
spiritualità.
Così facendo, la Chiesa – specialmente
quella cattolica – ha perso di vista quella
che un tempo era la teologia naturale, con
il suo desiderium naturale videndi Deum,
ovvero l’apertura dell’umano al senso della Vita. La fine della cristianità non corrisponde alla fine della ricerca del senso
della vita, che resta l’ossatura di una società. Senza spiritualità, una società è destinata a crollare.
Un esempio rende l’idea: se in una città si
propaga un incendio, concentrarsi esclusivamente sulla propria casa (intesa come
Chiesa o religione) senza guardare oltre la
propria sopravvivenza è un atteggiamento
miope.
Non è forse questo il senso più vero dell’annuncio della “seconda venuta” di Gesù Cristo? “Ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da
bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo
e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”
(Mt 25,35-36). La seconda venuta di Gesù
Cristo è il simbolo di quel raccolto alla fine
dei tempi, di cui parla Gesù nelle sue parabole. “Tutta la storia del cristianesimo è
già la ‘seconda venuta di Cristo’, una venuta nell’anonimato, negli altri, e il Giudizio
universale sarà solo il culmine di questa
venuta e l’abolizione definitiva dell’anonimato di Gesù” (Tomaš Halìk, Il sogno di
un nuovo mattino. Lettera al papa, Vita e
Pensiero, 122).
C’è da riscoprire l’unicità dell’umano in
Gesù, specialmente in quelli che “non
hanno nome e corpo” (no-body). Questa
è la linfa spirituale del cristianesimo. È
ciò che la Chiesa cattolica e le altre chiese sono invitate a vivere prima ancora di
annunciare. Come dice sant’Ignazio di
Antiochia, in un passo della sua Lettera agli Efesini: “È meglio rimanere in silenzio ed essere, che dire e non essere”. Non
sono solo le lampadine della Chiesa da
cambiare: strutture ministeriali e sinodali, programmazioni e strategie pastorali,
formazione dei chierici. C’è da riformare
il cristianesimo, prima che crolli la nostra
casa comune e l’umanità di noi tutti.