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Sabino Chialà "Nessuno è senza autorità"

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Nessuno è senza autorità: 
lectio su Mc 13,33-37 

50ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia 
Trieste 4 luglio 2024 

 Il brano evangelico scelto per questa meditazione costituisce la conclusione dell’ultimo grande discorso di Gesù, secondo il vangelo di Marco, cui fa seguito dal racconto della passione, morte e resurrezione. 
 Si tratta dunque di parole conclusive, che tuttavia non costituiscono il testamento del Maestro. Tale funzione Gesù la affiderà, poco oltre, non a delle parole ma un gesto. Quello dell’ultima cena, che riassume la sua intera vita: “Questo è il mio sangue, dell’alleanza (termine che la Vulgata traduce con “testamentum”)” (14,24). 
 Il testamento che lascia ai suoi, ciò che lo legherà ad essi per sempre, non è fatto di parole di sapienza, ma è il dono della sua stessa vita, sintetizzata nel gesto estremo della consegna di sé come cibo che nutre e bevanda che disseta. Gesù non si congeda dai suoi come un maestro di sapienza e significativamente non lascia nulla di scritto. Parla con la vita! La sua signoria (la sua autorità) si esprime nella qualità della sua esistenza. 
 Ma allora come intendere questo ultimo discorso che l’evangelista Marco ci trasmette? Come indicazioni per vivere il tempo che sta tra la resurrezione e ascensione di Cristo e il suo ritorno glorioso alla fine dei tempi. Indicazioni preziose per vivere il tempo della storia, anche la nostra, così complessa e contradditoria, con le sue sfide e le sue opportunità. 
 In questa meditazione vorrei evocare brevemente quattro tratti che mi paiono descrivere altrettante dimensioni che il nostro brano suggerisce relativamente al modo in cui siamo chiamati a vivere questo nostro tempo. Quattro tratti che definirei così: il clima, il tempo, lo spazio e il compito. 

 Iniziamo dal clima, vale a dire il tono accorato delle parole di Gesù. In pochi versetti si susseguono quattro imperativi, tutti volti a chiedere attenzione e vigilanza: “Guardate! (blépete)”, “vegliate! (agrypnéite)” (13,33); e ancora: “rimanete svegli! (gregoréite)”, ripetuto due volte (13,35 e 37). Gli imperativi aprono e chiudono il nostro brano, che inizia con: “Guardate!”; e termina con: “Rimanete svegli!”. 
 Perché tanta insistenza? Perché qui si annida il primo pericolo di una collettività (comunità credente o società civile): il pericolo della distrazione e dell’oblio. Prima qualità, invece, di una comunità (e dunque primo requisito di una democrazia) è la responsabilità dell’attenzione. Attenzione che questi quattro imperativi possono aiutarci a scandagliare e approfondire, disponendosi in un crescendo significativo. 
 Il primo verbo chiede semplicemente di “guardare” (guardate!). Chiede l’impegno di tenere gli occhi aperti! Di non vietarsi di vedere ciò che accade. E di conseguenza chiede di non negare l’evidenza, magari per preservare la propria quiete e il proprio presunto benessere. 
 Il secondo verbo invita alla “veglia” (vegliate!). Non basta guardare: è poi necessario restare in ciò che si è visto, durare nell’azione del guardare. Non basta limitarsi a uno sguardo sfuggente, ma è necessario rimanervi, interrogare ciò che si vede, e anche occuparsene, “prendersene cura” (infatti uno dei significati del verbo greco qui impiegato, agrypnéo,  è quello di “prendersi cura” di qualcosa). 
 Infine il terzo verbo, ripetuto due volte, è un quasi sinonimo del precedente. Tuttavia è possibile cogliere in esso una sfumatura particolare: la capacità di restare svegli, di non “cedere al sonno”. Come un’esortazione a non lasciarsi prendere dall’ottundimento, a restare attenti, critici, non ottenebrati né abbagliati: coltivare la lucidità di chi sa ancora riconoscere il valore delle cose, delle situazioni, delle parole; a mantenere viva la propria capacità critica. Non adeguarsi! Non lasciarsi trascinare in facili accomodamenti e addomesticamenti. 
 Dietro ciascuno di questi imperativi scorgiamo dunque una possibile degenerazione e un pericolo per il nostro vivere insieme. L’abbrutimento e lo sfilacciamento di un tessuto comunitario passano attraverso questi cedimenti: si comincia col non voler guardare ciò che pure è visibile; si passa al non voler capire, approfondire, ciò che si vede; e infine si giunge al non voler valutare con lucidità e senso critico quello che accade. 

 Ma perché tanta insistenza sull’attenzione? Questa domanda ci introduce al secondo tratto che vorrei evocare dal nostro brano: quello che esso ci indica circa il tempo che ci è dato di vivere. 
 In primo luogo, tanta insistenza a guardare e a rimanere svegli è giustificata dal fatto che noi esseri umani siamo più propensi al sonno che alla veglia. Il testo però ci rivela un’altra ragione più precisa, che è ripetuta per due volte: “Perché non conoscete quando…” (ouk óidate gàr póte)…” (13,33 e 35). L’attenzione è necessitata da una non-conoscenza che accomuna tutti gli esseri umani, talmente netta da essere ribadita per due volte. 
 Nel primo caso l’oggetto di tale ignoranza resta vago. Gesù dice: “Perché non conoscete quando è il momento” (13,33), o il “tempo opportuno (kairòs)”. Nel secondo caso l’oggetto dell’ignoranza è meglio specificato: “Perché non conoscete quando il padrone di casa ritornerà” (13, 35); qui il riferimento è al Figlio dell’uomo, il Messia Gesù, attesto per la fine dei tempi. 
 L’attenzione è resa necessaria dal fatto che noi tutti viviamo in una condizione di ignoranza, o meglio di incertezza relativa: pur sapendo “cosa” ci attende - il ritorno del Figlio dell’uomo - ne ignoriamo il “quando”. 
 Questo determina la qualità del tempo del credente, e dunque del tempo nel quale siamo chiamati a edificare e vivere la nostra comunione, a organizzare il nostro vivere insieme. Un tempo definito da due consapevolezze: conosciamo l’evento, ma ignoriamo il tempo del suo compimento. Come a dire che l’orizzonte è ampio ma non incerto. La storia ha molto di ignoto, ma al suo culmine, per chi crede, vi è il ritorno del Signore. Una promessa che non svuota la storia ma le conferisce spessore, dandole una direzione. 
 Siamo così chiamati a vivere il tempo conoscendone il compimento, ma non i passi necessari per giungervi, e in tale aporia si genera lo spazio in cui una qualsiasi comunità può edificare relazioni sane: fra un télos noto e un kairós ignoto. 
 Per i cristiani il télos è costituito dalla promessa del Signore che ci viene incontro dalla fine della storia. Una promessa troppo spesso dimenticata, eppure così importante. Per chi crede altrimenti o non crede, tale orizzonte sarà definito da altro, tra cui gli ideali che lo animano o quel bene desiderabile senza il quale il mondo sprofonda nella barbarie, senza il quale non è possibile costruire un tessuto connettivo condiviso né si dà cammino comune. 
 Il nostro tempo, definito dall’attesa, va abitato nella consapevolezza che noi tutti ignoriamo molto, e dunque dobbiamo cercare insieme vie percorribili. 

 Il terzo tratto che emerge da queste parole di Gesù riguarda quello che egli, tramite un’immagine, ci rivela circa lo spazio che abitiamo. Egli afferma: “È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa” (13,34). 
 L’uomo di cui si parla è facilmente identificabile con il Figlio dell’uomo atteso alla fine dei tempi, mentre la casa è il mondo in cui ci troviamo a vivere. Ne risulta un’immagine suggestiva, in cui noi esseri umani siamo rappresentati come ospiti di una casa che appartiene a un Dio partito per un viaggio (apódemos)
 Tutti ospiti, dunque, in una casa che ci accoglie, ma non ci appartiene. Che ci è stata affidata in custodia. Appartiene invece a quel “padrone di casa (ho kýrios tês oikías)” che, come si dice poco oltre, “ritornerà” (13,35). 
 La consapevolezza di abitare uno spazio che non ci appartiene è un altro elemento essenziale per edificare una sana convivenza: rispettosa della casa comune che ci accoglie, come anche degli altri ospiti di quella medesima casa. Per i cristiani, poi, a questo si aggiunge un tratto ulteriore: il mondo che ci ospita, per chi crede, non è solo “casa comune”, ma è anche “casa del Signore”. Appartiene a lui e dunque come tale va da noi amministrata, curata, abitata. Questo ci dovrebbe rendere ancora più responsabili nei confronti della creazione. 

 Veniamo infine all’ultimo tratto, particolarmente importante per il tema di questi giorni (la democrazia). È quello che ho definito il compito. Dice Gesù che il Figlio dell’Uomo, partendo, “ha dato l’autorità ai suoi servi, a ciascuno la sua opera (tò érgon autoû), e ha ordinato al portinaio di rimanere sveglio (hína gregorê)” (13,34). 
 Si parla innanzitutto di una autorità, che ha come prima caratteristica quella di essere affidata a tutti i servi. Di conseguenza, possiamo porre l’importante asserzione che nessuno è senza autorità! Né nella chiesa né nella società. 
 Il testo quindi specifica che tale autorità si esercita attraverso un’opera concreta, un compito da adempiere, un érgon, cioè un’opera da svolgere! Non si tratta dunque di titoli di cui fregiarsi, né di ruoli, ma di azioni concrete! L’autorità s’invera dell’azione svolta; è atto di responsabilità, che appartiene a tutti, nessuno escluso. Tutti abbiamo il potere di edificare o distruggere, ciascuno alla sua misura. 
 Tale consapevolezza è importante e fondamentale nell’edificazione di un corpo comunitario, di qualsiasi natura, e dunque anche di una democrazia: l’autorità, che corrisponde a un’azione concreta e dunque a una responsabilità, non appartiene ad alcuni, ma a tutti. E ciascuno deve riconoscere non solo la propria autorità, ma anche quella dell’altro. Tale riconoscimento è richiesto in modo particolare in chi, nella società e nella chiesa, svolge un ruolo di guida (una autorità istituzionale) che potrebbe essere tentato di considerarsi l’unica autorità e magari di non riconoscere l’autorità dei suoi collaboratori. L’autenticità di una figura di autorità la si riconosce, invece, dalla sua capacità di rispettare l’autorità altrui, in particolare di quanti egli stesso ha costituito in un determinato compito. 
 Nasce così la democrazia, che non si riduce al diritto di scegliere i propri rappresentanti politici, pure importante. Democrazia è innanzitutto partecipazione a una responsabilità condivisa, a un’opera concreta affidata a ciascuno. E ciascuno, per la sua parte, con la sua opera (mai insignificante) concorre a “tenere” il nostro mondo. Ricordo in proposito che il verbo kratéo, da cui deriva la seconda parte del termine “democrazia”, significa certo “esercitare un dominio”, ma secondo un’ampia gamma di possibili accezioni. Ci sono tanti modi di “dominare”: dal “tenere stretto in pugno”, soffocando, al “tenere sul palmo della mano”, sostenendo. 
 L’autorità (exousía) costituisce un’esperienza altamente problematica e ambigua. Ce lo ricorda anche il termine greco, che io ho tradotto con “autorità”, ma che è reso correntemente anche con “potere”. Nel NT il medesimo termine è tradotto appunto nei due modi, con prevalenza di “potere” quando si fa riferimento a un cattivo esercizio dell’exousía. 
 L’autorità è ambigua! E oggi, con i vari abusi di potere a vari livelli che vengono alla luce, ce ne rendiamo ancora più chiaramente conto. L’autorità è ambigua! E non solo quella esercitata dal singolo. Abusante può essere anche l’autorità esercitata da una collettività. Anche una “democrazia” (o meglio un sistema collettivo che si pretende democratico) può essere abusante; un sistema economico può essere abusante, un sistema di comunicazione può essere abusante. 
 Nel vangelo secondo Luca, l’exousía è una delle tre tentazioni vissute da Gesù nel deserto: “Il diavolo lo condusse su un alto monte, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: ‘Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio” (Lc 4,5-6). Gesù vince quella tentazione. Non così i suoi discepoli, tra i quali la prima discordia si consuma proprio intorno al tema dell’esercizio dell’autorità, quando discutono per stabilire chi “tra loro fosse il più grande” (Mc 9,34), interpretando l’autorità come supremazia. E, ancora nel vangelo secondo Luca, si parla di un “potere delle tenebre” esercitato dai capi religiosi (Lc 22,53). 
 Questi esempi ci mostrano che non basta esercitare insieme l’autorità perché questa non degeneri in abuso. Abbiamo invece bisogno di imparare da Gesù come l’ha vissuta. I cristiani hanno in lui il modello autoritativo da imitare Ad esso vale la pena di guardare brevemente. Mi limito a tre passi evangelici in cui sono indicate quelle che mi sembrano le qualità essenziali dell’autorità come Gesù l’ha vissuta e dunque come i cristiani sono chiamati a viverla. 
 Il primo è all’inizio del vangelo secondo Marco, laddove l’evangelista annota che, coloro che udivano Gesù, “erano stupiti del suo insegnamento, perché egli insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mc 1,22). Ecco il primo tratto di una autorità autentica ed efficace: una parola credibile. La prima qualità di un’autentica autorità si esprime nella parola: una parola leale, rispettosa, credibile; la parola di chi crede in quello che dice, che ne è implicato personalmente. E dunque il primo fallimento dell’autorità, il primo scivolamento verso un potere abusante è il cattivo uso della parola: una parola disonesta, menzognera, irrispettosa, volgare, offensiva. A volte sentiamo dire: “Ma solo parole!”, per sminuire la gravità di certe affermazioni irrispettose o false. Invece no: non sono solo parole! 
 Un secondo passo che vorrei menzionare, perché ci consegna un ulteriore tratto da cui si riconosce l’autorità di Gesù, è laddove la folla, davanti a una guarigione da lui operata, esclama: “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità” (Mc 1,27). Qui l’autorità si esprime in capacità di compiere efficacemente il bene, di risanare; la vera autorità è terapeutica, opera il bene dell’altro, aiuta a stare al mondo, si spende per l’esistenza dell’altro. Di conseguenza, il secondo fallimento dell’autorità si dà quando ci si serve degli altri, anziché servirli, o, peggio ancora, quando si opera per la morte, anziché per la vita. 
 Colgo infine un terzo tratto dell’autorità di Gesù in una sua espressione, tratta dal quarto vangelo, importante perché costituisce il fondamento di tutto. Mi riferisco al passo in cui Gesù parla dell’autorità che egli ha di deporre la propria vita (Gv 10,18). Qui non si tratta di un’autorità esercitata su altri, ma su se stesso… 
 Qui è il fondamento! Un’autorità autentica, che si esprime in una parola credibile ed è capace di un’azione terapeutica, si fonda sulla libertà da se stessi, che qui Gesù esprime con questa affermazione: ho l’autorità di deporre la mia vita. 
 Solo gli uomini liberi – innanzitutto liberi da se stessi e dal proprio narcisismo – potranno essere davvero autorevoli. L’autorità presuppone la più difficile delle libertà: quella dal proprio “io”, e dunque – ed ecco il terzo tratto dell’autorità di Gesù – l’autorità autentica è oblativa. Viceversa, ogni abuso di autorità è sintomo di mancanza di liberta da se stessi. 
 L’autorità di Gesù è stata dunque contrassegnata da questi tratti che possiamo considerare distintivi di ogni autorità autentica, individuale o collettiva: una parola credibile, un’azione benefica, e un atteggiamento oblativo. 
 Dicevo che nel nostro brano si afferma l’universalità dell’autorità. Essa non è appannaggio di qualcuno, neppure di chi, in una qualsiasi comunità, svolge un ruolo autoritativo istituzionale. Tuttavia in questa affermazione non vi è alcun appiattimento, poiché a ciascuno è affidato un “compito” particolare, definito da un érgon; e tra i vari “compiti”, Gesù, prima di concludere, ne specifica uno: quello di chi, all’interno della comunità, svolge un ruolo di custode e di guida: quel “portinaio” cui il padrone partito in viaggio “ha comandato di rimanere sveglio” (13,34). Nella comunità credente si tratta di chi esercita un ruolo di guida. Con alcune precauzioni, si potrebbe estendere il concetto a ogni comunità civile. 
 Tale “portinaio” non costituisce l’unico detentore di autorità nella comunità, come anche l’epoca sinodale che stiamo vivendo ci sta abituando a riconoscere, tuttavia si tratta di una figura necessaria, per le ragioni – e le funzioni – che il testo qui ci suggerisce attraverso le immagini impiegate: è detto “portinaio” e ha il compito di “rimanere sveglio”. 
 Il portinaio è colui che è posto in un luogo doppiamente critico. Perché lì è possibile affrontare coloro che potrebbero nuocere a chi abita la casa; gli è dunque affidato un ruolo di custodia. Ma la porta indica anche la soglia della casa del Signore che il portinaio attende; da quella posizione potrà, meglio di altri, scorgere il ritorno del padrone e dunque esserne memoria. Lì, inoltre, è nella posizione di poter meglio cogliere quanto accade oltre la porta, al di fuori della casa. È così chiamato ad essere uomo di confine, ad abitare la soglia; a essere sentinella, per riprendere l’immagine di Is 21,11. 
 Inoltre, a lui in particolare, è chiesto di rimanere sveglio, nelle quattro fasi del giorno e della notte, cioè in tutte le situazioni, soprattutto le più critiche. Perché il Signore viene in ciascuna di esse: “Alla sera, a mezzanotte, al canto del gallo, al mattino” (13,35). 
 Abitare sulla soglia e lì restare sveglio, è il compito di chi nella comunità svolge un ruolo di guida, resistendo alla doppia tentazione di abbandonare la porta e di cedere al sonno. Due tentazioni di cui chiunque svolga un tale ruolo è esperto, e cui deve imparare a resistere. Rimanendo sveglio, egli è anche chiamato a sostenere gli altri nella veglia. Fuori di metafora, ad aiutarli a non cedere a quelle vie di abbrutimento che, come dicevo all’inizio, sono conseguenza del non voler guardare, vigilare e rimanere svegli. 
 Il vivere insieme si sostanzia dunque di un’autorità condivisa da tutti, nella diversità dei ruoli, tra cui quello di chi ha come compito il vegliare alla porta e aiutare a rimanere svegli! Le false guide, invece, cercano piuttosto di addormentare quanti sono affidati alla loro cura, magari facendo leva sui loro istinti peggiori.

 

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