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Paolo Crepet «Dobbiamo riaprire le nostre comunità»

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intervista a Paolo Crepet a cura di Francesca Dalrì

«Siamo all’11 gennaio ed è già ricominciata la conta dei femminicidi: non possiamo essere così arresi e limitarci a contare i morti. Siamo di nuovo a Giulia, la storia si ripete. Anche nel civilissimo Trentino, ciò che continuiamo a dire e denunciare evidentemente non è ancora così ovvio e scontato. Non siete un’isola felice». Non usa mezzi termini lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet nel provare a commentare la tragedia di Valfloriana.

Crepet, cosa c’è dietro il gesto di un uomo che prima uccide la sua ex compagna e poi si toglie la vita?
«C’è una solitudine terrificante, che aumenta e non diminuisce. Da voi in Trentino si parla sempre di un tessuto sociale importante, di una comunità densa di storia e fatta di collaborazione, eppure registriamo una solitudine che fa paura. Io credo che quest’uomo non si sia interfacciato con nessuno prima di compiere questo gesto: non un prete, non uno psicologo. Non si parla più, forse non esiste nemmeno più un’osteria dove un uomo può andare con quattro amici e confessare di essere disperato perché la compagna lo vuole lasciare. Siamo di fronte a una totale improbabilità che qualcuno intercetti la tua infinita tristezza, soprattutto quando vira e diventa astio, odio, determinazione».

Determinazione?
«Guardi che ci vuole una determinazione incredibile per fare ciò che quest’uomo ha fatto, non stiamo parlando di persone fragili, ci vuole una forza da Ercole a uccidere la madre dei tuoi figli e poi a togliersi la vita, anche se questo è secondario, condannando i tuoi figli a rimanere per sempre orfani».

Come in tutti i femminicidi, ora qualcuno parlerà di raptus.
«Chi lo dice non sa cos’è l’umano. Ma quale raptus, non ti alzi la mattina e fai una strage. Lo ripeto per l’ennesima volta: queste non sono cose che nascono all’alba e si realizzano al tramonto. Non può non aver pensato ai figli, è che è prevalso l’egoismo di un uomo ferito. Un uomo che ci avrà pensato diecimila volte. Eppure nessuno è stato in grado di intercettare questa disperazione».

Perché non riusciamo a scardinare un fenomeno che sembra essere diventato sistemico?
«Facciamo i conti con un’atavica incapacità dell’uomo inteso come compagno, marito, fidanzato, spasimante a sopportare la frustrazione. Nonostante sia del tutto evidente che parliamo di un femminicidio, forse non abbiamo ancora detto con la dovuta forza che queste tragedie nascono proprio perché la donna è più libera. Non è ancora passato culturalmente il fatto che una donna possa cambiare vita. Una parte degli uomini, non tutti, non sa cosa voglia dire la frustrazione o che il fatto di essere moglie e madre non sia più un ricatto. Però c’è un’altra cosa su cui ragionare».

Ovvero?
«Dentro questa cultura ci sono anche le donne. Non ci sono solo i padri a difendere i figli bulletti a scuola che “menano un po’ perché sono fatti così di carattere”: ci sono anche le madri».

Cosa dobbiamo fare?
«Dobbiamo riaprire la comunità, ci siamo chiusi dentro i nostri telefonini, le nostre chat. Io non ce l’ho con le tecnologie, però dobbiamo tornare ad avere luoghi di aggregazione. Inventatevi qualcosa, anche una tombolata. E non lo dico solo ai sindaci, ma anche ai privati, perché se ognuno pensa “menomale che non è successo a me”, non andiamo avanti».

Il pensiero va inevitabilmente anche ai tre figli e allo zio che li ha presi con sé. Cosa direbbe loro?

«Allo zio direi che ha bisogno di avere accanto altre persone, sia dal punto di vista affettivo sia professionale, perché nemmeno uno psicoterapeuta con quarant’anni di esperienza alle spalle saprebbe come affrontare questa situazione. A questi bambini, invece, che almeno per ora devono rimanere con lo zio per mantenere una continuità, va raccontata la verità: con estrema gradualità e tenerezza, ma anche con tanta sincerità».


Fonte: Il quotidiano

 

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