Massimo Recalcati "Chi non ama scompare"
Il giudizio dell’ateo Freud non lascia speranze: l’uomo religioso si affida a Dio come un bambino impaurito affida la sua vita inerme alla potenza protettiva di un padre idealizzato.
Ma questo affidamento non può salvare l’uomo dal suo destino mortale. È la paura nei confronti della morte ad aver sospinto gli esseri umani, sin dalla notte dei tempi, a pregare gli dei. La stessa idea filosofica dell’immortalità dell’anima non sarebbe altro, sempre secondo Freud, che un’idea difensiva nei confronti della natura inevitabilmente finita della nostra esistenza. Nel rapporto di Gesù nei confronti della morte, il giudizio di Freud è però costretto a stemperarsi. Egli, infatti, non scongiura affatto la morte, ma la incontra nella sua forma più traumatica. Nessuna rimozione, dunque, nessun misconoscimento. Gesù sa bene che non può accettare il sillogismo filosofico di Epicuro che vorrebbe separare la morte dalla vita seguendo la celebre argomentazione per la quale la morte non sarebbe un problema perché fintanto che c’è la vita non c’è la morte e quando c’è la morte non c’è la vita. Nella notte del Getsemani Gesù incontra l’impostura di Epicuro: nessuna scappatoia di fronte alla morte. Non a caso la sua postura non assomiglia per nulla a quella imperturbabile di Socrate di fronte alla sua decisione di darsi la morte. Il suo corpo trema, suda sangue, cade a terra. La prima preghiera che rivolge a Dio è una supplica: non vuole morire, vuole continuare a vivere, chiede al padre di essere risparmiato, di allontanare il calice amaro della morte dalla sua bocca. Respinge la morte perché ha amato e ama profondamente la vita. Nessuna scorciatoia, dunque, nessuna rimozione del trauma della morte.Nemmeno la sua resurrezione può attenuare questo trauma. Essa non è, diversamente da quello che pensava Freud, la negazione infantile della morte, ma, casomai, l’esito di un suo attraversamento. Non a caso tutta l’iconografia cristiana rappresenta il corpo del risorto con le ferite indelebili della sua passione. Nel racconto evangelico, il sepolcro di Gesù appare vuoto. Gli angeli che lo presiedono chiedono alle donne impaurite che si sono recate alla sua tomba: «Perché cercate il vivente tra i morti? Non è qui, ma è risorto». (Lc, 24,5-6). È questo vuoto il grande mistero della Pasqua cristiana vista con gli occhi di un laico. Lui non è più qui: un lutto necessario si impone poiché in ogni lutto “lui” o “lei” non sono più tra noi. Un’assenza travolge la nostra presenza nel mondo; un’assenza che è dolore ma che forse proprio per questo è anche una forma radicale dell’amore, come scrive Roland Barthes nel suo straordinario taccuino scritto dopo la morte di sua madre e intitolato Dove lei non è. Ma il vuoto del sepolcro non impone solo il lutto. Esso apre anche la possibilità di qualcosa di inaudito. Gesù non si può trovare tra i morti. Egli, sebbene morto, è ancora vivo. Cosa può significare? Per un verso Gesù non è più qui, non è più a disposizione di coloro che lo hanno amato, è andato via. Anche le apparizioni post-pasquali sono fugaci, destinate a dissolversi nell’assenza. Questo significa che il risorto non è un rinato. La resurrezione non può cancellare l’esperienza della perdita. Per questa ragione nelle sue apparizioni Gesù inizialmente non viene riconosciuto, ma appare come un estraneo. Perché però lo cercate nella sua tomba? La resurrezione non rafforza affatto una immagine sovrumana di Dio. Per un altro verso la risurrezione di Gesù è una radicale disattivazione della terribile potenza della morte. Essa non può, infatti, essere l’ultima parola sulla vita. Nella sua predicazione egli ha mostrato che la paura della morte coincide con la paura della vita proponendo se stesso come la testimonianza di una vita viva, di una vita sovrabbondante di vita: «Io sono la risurrezione e la vita» (Gv,11, 25). Egli si è chiesto che cosa sia una vita viva, una vita generativa, una vita capace di vita. La mera conservazione della propria vita limita la sua trascendenza, la sua, come direbbe Paolo a proposito della Grazia, “sovrabbondanza”. Essere in vita non significa di per sé essere davvero vivi. Gesù pone il problema della differenza tra una vita morta e una vita viva. Egli è incarnazione del vivente, l’“acqua viva” che disseta in eterno, la vita come potenza generativa. Dunque, non si può cercare Gesù tra i morti. Perché i morti sono coloro che hanno rinunciato alla vita, sono i sacerdoti, i custodi della lettera, le persone avide, incapaci di amare, i morti sono coloro che hanno paura della vita. Non bisogna cercare Gesù tra i morti perché il suo nome è un nome della vita che non si lascia vincere dalla morte.
In questo senso Gesù è la resurrezione che continua ad accadere al di là della sua morte. Il vuoto del sepolcro è il luogo di un’assenza che, diversamente da quello che vorrebbe Tommaso, non può però essere ricuperata. La resurrezione non è la rianimazione di un corpo morto che ritorna in vita, ma è la vita che non può mai essere tutta distrutta dalla morte. Gesù lo dice chiaramente: «Chi crede in me, anche se morto, vivrà» (Gv, 11,25). Noli me tangere, non mi toccare, non trattenermi, dice il Signore risorto a Maria Maddalena. La morte è una distanza che si apre nella vita, ma non è sparizione, distruzione, putrefazione. La resurrezione non è una immagine dell’immortalità. Gesù non è un immortale come sono immortali gli dei pagani. Gesù è un uomo che ha conosciuto la morte: deve partire, deve andarsene da questo mondo. Non può più essere toccato. Ogni uomo non può, infatti, più tornare indietro dalla morte, non può più recuperare la sua vita. Ma questo andare via, questo tornare dal padre, è anche un modo per restare: «Vado e ritornerò da voi» (Gv, 14, 28), dice ai suoi. La fede in Gesù non necessità il feticismo del toccare, ma preserva la distanza, il mistero dell’intangibile. Se per credere bisogna toccare, come esige l’incredulo Tommaso, la fede implica invece l’incontro con l’ignoto che resta tale. Mentre il discorso religioso si costituisce sulla credenza, quello di Gesù – profondamente anti-religioso e anti-idolatrico – si istituisce sul salto nel vuoto della fede. È la profonda differenza tra Maddalena e Tommaso: una ha fede in ciò che non può toccare, mentre l’altro esige di toccare per poter credere. Gesù mostra che la sua morte non coincide con la fine della sua parola. Tutto il contrario: il vuoto del sepolcro assomiglia ad una luce di una stella morta che insiste a rilasciare luce anche dopo la sua fine.