Ci sono storie che non smettono mai di parlarci e, anzi, sono in grado di rivelarci segreti della nostra stessa esistenza. L’Odissea continua a farci navigare attraverso il viaggio di Ulisse, che non è solo un percorso verso casa né un ritorno alla vita precedente. Lo conferma Alessandro D’Avenia, che, dopo quattro anni dalla sua ultima opera (L’appello, Mondadori 2020), torna in libreria con Resisti, cuore (sempre per Mondadori), un libro che porta per sottotitolo L’Odissea e l’arte di essere mortali. Infatti, essere mortali non è solamente un dato di fatto, come potremmo pensare; Ulisse sceglie deliberatamente di esserlo e con questa decisione tutt’altro che scontata mostra un percorso che D’Avenia ripercorre con trasporto, precisione e passione.
Se è vero che ognuno di noi vive una propria odissea, accanto al racconto del poema omerico lo scrittore si misura con quanto di quei versi risuona nella propria vita. Non si tratta di un’esibizione egotistica della propria esistenza, perché D’Avenia (che abbiamo intervistato) non mira a nessuna autocelebrazione; al contrario, nel raccontarsi si mostra con schietta sincerità ai suoi lettori, condividendo, quasi fossero confidenze ad amici preziosi, scampoli di un cammino tutt’altro che lineare.
Ne emerge un racconto intimo, che trova tanto conforto quanto svelamento nei versi del poema odissiaco.
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L’Odissea non è solamente un poema dedicato a un viaggio avventuroso (anzi, gli incontri e i viaggi di Odisseo riguardano un numero limitato di libri del poema), ma è un’opera che ci aiuta a “resistere”, nel senso di “ri-esistere”. Perché, D’Avenia?
“Durante le mie molteplici riletture dell’Odissea, mi hanno sempre colpito i versi in cui Ulisse si rivolge al suo cuore. E in particolare quello in cui Omero – con la precisione dei grandi – paragona il cuore a una cagna che difende i suoi cuccioli da una minaccia mortale. Ulisse, dunque, parla al cuore con lo stesso senso di protezione che una madre impiega nel proteggere i propri figli minacciati dalla morte. C’è un rapporto radicale col proprio cuore, perché la madre non sta facendo altro che agire per sopravvivenza, per istinto. Per Omero il cuore è un luogo radicale come l’istinto di sopravvivenza e Ulisse per sopravvivere dialoga con il proprio cuore dove trova tutto ciò che gli serve per resistere, e ri-esistere”.
Quando troviamo questa similitudine?
“Siamo in un momento delicato: Ulisse vede lo sfacelo in cui è stato ridotto il palazzo di Itaca durante la sua assenza e deve resistere alla tentazione di dimostrarsi per ciò che è veramente, rovinando l’effetto sorpresa necessario a sconfiggere i Pretendenti che assediano il palazzo e lo maltrattano come se fosse un mendicante in cerca d’elemosina”.
In effetti, pare molto difficile per un guerriero come Ulisse resistere all’istinto di sguainare una spada.
“Sì, però in questo momento Ulisse non ha bisogno di schiacciare l’avversario. C’è un’identità profonda in gioco: è quella che lui ha conquistato passo a passo nell’Odissea”.
E dunque occorre sopportare…
“Mi ha sempre colpito il verso che spesso viene tradotto come ‘sopporta, cuore’, ma il verbo in greco secondo me testimonia una forza diversa: porta con sé la radice di Atlante, che è per eccellenza chi sopporta un peso (Atlante, addirittura, ha il peso di tutto il mondo sulle spalle). In quell’imperativo rivolto al cuore c’è una forza che ci serve anche oggigiorno: dobbiamo ricordarci di rispolverare ogni tanto questa conversazione interiore. Il mondo antico ci ha consegnato questa pratica come un modo fondamentale per conoscere sé stessi: entrare nel cuore”.
Insomma, il vero riconoscimento è anzitutto un auto-riconoscimento?
“Sì, se consideriamo che è proprio parlare con il proprio cuore che riporta Ulisse a ciò che lui è veramente, a una rinascita. Solo così trova la forza per portare in vita il destino che gli è proprio. In tutto il percorso di Ulisse il fatto di avere a che fare con la morte o con ciò che assomiglia alla morte, come l’umiliazione di essere trattato – lui che è il re di Itaca – come un mendicante, è un invito a una nuova nascita. Questa resistenza è una ri-esistenza, quel ri- indica non solo l’iterazione di qualcosa (quindi non solo il sopportare gli ostacoli che si frappongono tra noi e il nostro destino), ma significa portare qualcosa di nuovo nell’esistenza. Insomma, tutta la resistenza di Ulisse è funzionale a una sua ri-esistenza, alla realizzazione di un destino che è nel suo cuore ma deve essere portato fuori”.
Quando Ulisse inizia questo suo percorso di ri-esistenza?
“Tutto comincia nel V libro, quando Calipso gli propone di restare a Ogigia con lei e con la garanzia dell’immortalità. In fondo, è ciò che tutti vorremmo: stare su un’isola paradisiaca, da immortali, godendo di un amore incondizionato. Invece Ulisse fa una scelta assurda e per questo eroica. Tornare a Itaca e da Penelope, benché sua moglie, destinata a invecchiare e, un giorno a morire, sia meno avvenente della ninfa immortale e Itaca meno bella dell’isola paradisiaca. Ma Ulisse risponde a Calipso che lui sceglie Penelope. Sceglie di essere mortale”.
Come mai nel libro questa ri-esistenza è spesso connessa alla parola “nascita”?
“Ulisse a Ogigia è su un’isola definita ‘l’ombelico dell’oceano’, è in una placenta in cui tutto è perfetto, vive quel sentimento oceanico di cui parlava Freud e che noi durante la vita forse rimpiangiamo per sempre, proiettandolo su esperienze del passato che idealizziamo. Ulisse invece sceglie la condizione mortale: giungere alla terraferma è il suo nascere. Quando arriva a Itaca Ulisse sta dormendo (e Omero paragona quel sonno alla morte), senz’altro che un lenzuolo. Lasciato sulla terra di Itaca dai Feaci che lo scortano, inizialmente non la riconosce, tant’è che vuole la garanzia che quella sia davvero la sua terra. Insomma, è appena nato”.
E non viene riconosciuto subito…
“Infatti c’è poi una seconda parte del viaggio – metà del poema e la mia preferita –, che è quella delle agnizioni, dove si trova quel ‘ri-esisti, cuore’, perché il cammino giusto è quello. E questa ri-esistenza si compirà pienamente attraverso i riconoscimenti, e in particolare il più importante: quello di Penelope. Alla donna non basta vedere Ulisse per riconoscere in lui suo marito; devono riconoscersi, per usare un’espressione omerica, ‘nel cuore’, cosa che Penelope riesce a fare attraverso lo stratagemma del letto. In fondo, Penelope ha tutte le caratteristiche di Ulisse”.
Cioè?
“Penelope ha la sua stessa intelligenza, il suo nome significa ‘colei che va a zig-zag’, riesce a evitare i nemici, naviga pur restando ferma, perché la sua nave è quella della tessitura (la navetta del telaio), fa e disfa la trama del tempo… Certo, siamo in una cultura in cui la donna rimane subalterna e vive per lo più in casa, ma lo scarto che trovo in Omero mi sorprende: ci racconta un viaggio di Penelope da ferma. In questa figura femminile c’è una grandezza che è pari a quella del marito. E non a caso Omero ripropone gli stessi versi che ha già usato per un naufragio reale di Ulisse, quando dice che Penelope, riconosciuto il marito, lo abbraccia come un naufrago che tocca la terraferma. Entrambi hanno viaggiato e mi sembra che non ci sia Itaca senza questo duale tra Penelope e Ulisse”.
Itaca non è solamente un luogo geografico, ma è molto altro. Cosa?
“Itaca è la grande immagine del destino unico e irripetibile che ciascuno di noi ha già scritto nel cuore. Spesso quando si parla di Ulisse si pensa alla ‘nostalgia’, ma questo è un sentimento molto più moderno, come la nascita della parola nostalgia. Il nostos (da un verbo che all’attivo significa salvare e al medio-passivo tornare) dell’Odissea non implica di voler ritornare al mondo di prima; è fondare un mondo nuovo, una nuova dimensione dell’esistenza. Itaca in fondo è tutta già fatta nel cuore, ma è ancora tutta da fare nella realtà: a Ulisse non basterà conquistarla militarmente attraverso la difesa della propria casa. Insomma, Itaca non è tanto la petrosa isola di foscoliana memoria, ma l’insieme delle relazioni di Ulisse: Telemaco, Penelope, il cane Argo, suo padre Laerte e, cosa strana, i suoi servi più fedeli, che diventano addirittura protagonisti, Euriclea, Eumeo”.
Cosa c’è di più universale di questo?!
“L’Odissea riguarda tutti noi, costituisce il ‘DNA’ narrativo dell’homo sapiens, lì dove il viaggiare di Ulisse non è l’esplorazione dantesca dell’assoluto con mezzi insufficienti o la curiosità dell’esploratore moderno. L’Ulisse di Omero è un uomo che deve e può tornare dopo essersi spogliato di tutte le illusioni di destino e di immortalità, non a caso al centro del viaggio c’è l’incontro con l’aldilà e la profezia sulla sua morte”.
E quando torna il suo percorso non è ancora davvero compiuto.
“Non ancora, ne manca metà. Mentre Achille è riconosciuto da tutti per le sue abilità in battaglia, Ulisse non è riconoscibile né è riconosciuto immediatamente, se non dal cane Argo. È attraverso una serie di segni condivisi che Ulisse si fa riconoscere: il giardino e i nomi delle piante con Laerte, il letto con Penelope, la cicatrice con Euriclea, la parola con Telemaco, con cui non condivide ricordi, dal momento che è partito quando suo figlio era un neonato. Ciò che conta qui non è la guerra, ma le relazioni profonde”.
In che senso il viaggio di Ulisse riguarda tutti noi?
“Mi sono reso conto che l’Odissea agiva in me come ‘libro-madre’, mi ha rivelato in anticipo cose che non volevo affrontare né avevo ben chiare in me. Questo libro è arrivato nel momento in cui ho trovato il coraggio di confessare tali verità a me stesso – resisti, cuore! – e di raccontarle di scorcio, sempre in ombra rispetto alla luce dell’Odissea. La letteratura ha questo compito: smascherarci, farci venire alla luce, farci vivi a noi stessi”.
Eccoci a parlare della parte più autobiografica: sembra che l’Odissea sia un’occasione per misurarsi con sé stesso, con il proprio passato e per analizzare il proprio presente. Forse, anche, per chiedersi verso quale futuro ci si sta dirigendo. Cosa significa per lei mettersi così a nudo davanti ai propri lettori, condividendo dubbi, emozioni ed esperienze fortemente intimistiche?
“Mi ha sempre colpito il fatto che gli eroi omerici sappiano piangere: quando compare per la prima volta nel V libro, Ulisse è in lacrime; gli manca Itaca perché gli manca il suo destino. È il pianto che ci accompagna tutte le volte che veniamo alla luce, il pianto del nascere. Quello che mi interessava era recuperare una dimensione in cui l’autobiografia non è esibizione narcisistica, ma il terreno di verifica dell’universalità di un’esperienza: essere umani e non essere soli e persi nella vita”.
Quindi un’autobiografia con echi universali? Certamente ha scelto una via complessa…
“Non a caso questo libro arriva dopo quattro anni dall’ultimo. Se ri-raccontare il poema ha costituito per me la parte più gioiosa e rassicurante di questo lavoro, è stato difficilissimo invece verificare su carta che molto dell’Odissea riguarda tutti gli uomini. Io ho dovuto dare il buon esempio per primo, e quindi sono partito da esperienze che mi sono capitate, con la speranza che i lettori possano rispecchiarvisi. A me interessa la verità di un’esperienza, e l’Odissea è un ottimo catalizzatore di verità”.
Ha già avuto qualche feedback?
“Sorprendentemente sì, anche se siamo a pochi giorni dall’uscita. C’è chi sta leggendo questo libro con la matita in mano; qualcuno lo ha già terminato e lo sta rileggendo. Alcuni lettori sottolineano parti che a me sembrano molto personali: invece, sto avendo conferma che sono esperienze che riguardano tutti”.
Secondo lei da cosa dipende questa straordinaria capacità dell’Odissea di continuare a raccontare l’uomo e la donna, attraverso i secoli?
“Il mare di guai che l’Odissea racconta ci accomuna. Non è un mare che separa, ma ciò che i greci chiamano “pontos”, ovvero qualcosa che lega le isole in un enorme arcipelago. Se Resisti, cuore riesce a unire un po’ del nostro mondo così frammentato, facendoci sentire meno ‘isole’, ecco, secondo me ha raggiunto il suo obiettivo. È questo che chiedo alla letteratura di fare nella mia vita e nella vita delle persone a cui tengo”.
Nelle parti autobiografiche torna spesso la sua esperienza di insegnante. Da alcuni episodi si comprende quanto in classe ricordi sempre di trovarsi di fronte a persone, ognuna con il proprio carattere e il proprio umore, con un vissuto che, inevitabilmente (e per fortuna!) influenza un’identità in crescita. Cosa consiglia ai colleghi insegnanti che temono di mostrare chi sono davvero, nel profondo?
“Si educa anzitutto con l’essere, solo in seconda battuta con le parole. Quello che conta nella mia storia di alunno, per esempio, è stato come brillavano gli occhi al mio professore di Lettere quando spiegava Dante, Baudelaire,… L’unica forza capace di interrompere l’entropia è l’amore, non in termini sentimentali, ma il riconoscere il valore di qualcosa e accordargli le proprie forze per farlo brillare. Se il mio professore aveva quell’energia e quella luce negli occhi, è perché amava ciò che stava facendo: non è la singola lezione di Dante a essermi rimasta in mente, ma il suo desiderio di trasmettere Dante. Mi veniva da pensare: io nella vita voglio amare le cose nello stesso modo in cui quest’uomo le ama”.
Dunque, chi è l’insegnante?
“L’insegnante è chi ti restituisce al tuo destino, che, d’altra parte, è già dentro di te. Omero scomoda la dimensione verticale, addirittura l’Olimpo: infatti, dietro Mentore, che “sveglia” Telemaco al proprio destino, si nasconde proprio Atena. In una società come la nostra, in cui è meno diffusa la ricerca di un rapporto con la dimensione verticale, possiamo trovare questa scoperta del proprio destino nel rapporto quotidiano col mondo e in una certa verticalità che può riguardare il rapporto tra allievo ed educatore”.
E come si colloca in questo percorso la parola dei classici?
“La parola che viene dai classici è un modo di far venire alla luce l’esperienza umana. A volte l’esperienza è la mia e poi andiamo a verificare se è anche quella di ragazzi. Altrimenti, perché continueremmo a leggere Dante o Omero? Se raccontiamo da secoli certi autori e certe scoperte è perché riteniamo che siano i compleanni dell’umanità, quando cioè l’umanità è stata risvegliata a vivere in un modo migliore, a essere presente a se stessa”.
All’interno dell’opera cita numerosi passi dall’Odissea nella traduzione di Maria Grazia Ciani (ed. Marsilio): come mai ha preferito una traduzione in prosa?
“La caratteristica delle traduzioni in versi di Omero è che vivono nella paura di tradire la poesia e a volte sono appesantite da una retorica che, per quanto legittima, ostacola la fruizione del testo. Ciani, da filologa raffinatissima, è riuscita a fare ciò che secondo Steiner consiste nello scrivere quel libro come se fosse nato nella mia lingua. Ciani, infatti, restituisce al testo la sua potenza romanzesca, che in tante traduzioni in poesia, secondo me, si perdono, e poi riesce a tradurre le sfumature femminile di un poema pieno di donne: da Atena a Nausicaa, passando per Circe, Calipso e tante altre”.
E qual è l’effetto di una traduzione in prosa sui lettori?
“Di solito le persone a cui consiglio questa traduzione si godono l’opera senza la paura degli accapo. Trovo che la traduzione di Maria Grazia Ciani, rigorosissima, aiuti ad avvicinarsi al testo in una maniera che rispecchia maggiormente il nostro tempo: il gusto del romanzo. È per questo che ho chiesto a Mondadori di impiegare questa traduzione in Resisti, cuore. Forse la scelta di tradurre in prosa il poema con un linguaggio e una sensibilità più vicini ai nostri suggerisce che l’Odissea è il più grande romanzo di tutti i tempi. Questo è tradire? No, questo è tradurre”.