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Brunetto Salvarani "Senza Chiesa e senza Dio"

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a cura di Daniele Rocchetti
La barca e il mare aprile 2023 
Intervista con Brunetto Salvarani

Il “mondo cattolico” è finito

Brunetto Salvarani è un teologo curioso e capace di sguardi plurali, da sempre attento ai cambiamenti in atto nella Chiesa e nel mondo.

Due settimane fa, per i tipi Laterza, ha pubblicato un testo dal titolo: “Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano”. Prendendo atto di una crisi profonda che attraversa le chiese cristiane europee, Salvarani si  interroga se questa trasformazione epocale riguarderà solo il mondo religioso o ci saranno conseguenze rilevanti per la società occidentale nel suo complesso. Non solo rilancia la necessità che la visione cristiana, se vuole essere ancora pertinente per l’uomo contemporaneo, va ripensata da capo ma con acutezza si chiede cosa rischiamo tutti di perdere in una cultura in cui il cristianesimo che abbiamo ereditato dal passato non funziona più. Di questo e di molto altro ho ragionato con Brunetto.

Cosa ti ha mosso a scrivere “Senza Chiesa e senza Dio”?  

Una convinzione precisa, che provo da tempo, e che sono certo sia condivisa da molti cristiani: la Chiesa è in crisi. Anzi, le chiese si trovano come sospese tra affanno e depressione, soprattutto nei paesi europei, e la loro appare a tutti gli effetti una crisi epocale. Al cuore delle comunità cristiane affiora un vistoso disagio, che viene da lontano, ha molteplici motivazioni e si manifesta in modi diversi. C’è chi preferisce, al termine crisi, quello di declino, riferendosi – nel tentativo di limitare i danni – all’esaurimento di una determinata forma storica di cristianesimo coniugata in chiave di religione, ma la sostanza non cambia.

In realtà, probabilmente, la si potrebbe dire una non-notizia, ormai, di fronte alla quale parte dell’opinione pubblica nazionale può trovare di che rallegrarsi, reagendo semmai, a mezza voce, con un “finalmente!” che riemerge da antichi e mai del tutto sopiti furori anticlericali. Peraltro, la novità di questi due o tre ultimi decenni – almeno in ciò che chiamiamo Occidente – è che la reazione media alle conclamate difficoltà che il cristianesimo sta trovando, nel suo sforzo di trasmettersi alle nuove generazioni in territori di antica tradizione e di presentarsi come parola credibile e autorevole nello spazio pubblico, corrisponde per lo più a un’alzata di spalle, a un disinteresse trasparente ed endemico.

Il fatto che – ad esempio – le chiese annaspino quale più quale meno in un vistoso dissesto etico, fra scandali sessuali e disastri finanziari, che i presbiteri e le religiose siano sempre più rari e affaticati, e che parole chiave nell’universo di senso cristiano come salvezza o redenzione non dicano più nulla a una quota crescente della popolazione, produce indifferenza e non preoccupa nessuno, o quasi. Forse, gli addetti ai lavori, alla fine pochi intimi. Qui sta il punto.

Mi sono chiesto, dunque: possiamo accettare con calma olimpica che la Bibbia sia ridotta a un libro assente nella cultura media di un cittadino italiano, e che una simile assenza ci impedisca di capire chi siamo stati, chi siamo, da dove veniamo e quali racconti hanno plasmato la sensibilità e le speranze di chi ci ha preceduto? Possiamo dare per scontata non solo e non tanto la fine della cristianità, appunto, ma anche ciò che la diffusione del pensare cristiano (certo, ibridato con molte altre radici e venature) ci ha offerto, spesso pagato a caro prezzo (l’apertura al futuro, l’emergere dell’umanesimo, il primato dell’amore per il prossimo, valori cruciali nelle relazioni interpersonali come il perdono e la misericordia)? E via dicendo…

Hervieu-Leger parla di esculturazione del cristianesimo. Ti ritrovi in questo cambiamento radicale che investe in modo prepotente l’Occidente cristiano?

Sì, decisamente. Del resto, anche Christoph Theobald, teologo gesuita molto stimato per la sua lettura del Vaticano II, ha adottato la stessa terminologia: es-culturazione del cristianesimo dall’Europa. Seguo da anni il lavoro, prezioso, di Danièle Hervieu-Léger, e trovo che le sue siano di solito analisi realiste e ben documentate. In effetti, la sensazione generale è che quello che era un paesaggio religioso conosciuto e abitato per secoli abbia negli ultimi decenni subìto dei mutamenti così sensibili, al punto da divenire irriconoscibile.

Il punto di partenza di qualsiasi ipotesi sul futuro delle chiese è così, inevitabilmente, la constatazione acclarata della fine di un mondo. Del mondo cattolico, perlomeno, nonché della cristianità che ebbe origine nel quarto secolo, in conseguenza delle scelte politiche dell’imperatore Costantino (e poi Teodosio) e dei grandi concili dogmatici, da Nicea (325) a Costantinopoli (381). Certo, non esiste una data precisa per un simile evento (che infatti non è un evento, bensì un processo che ha registrato più tappe lungo i secoli, ma soprattutto lo sfrangiamento progressivo di un universo di senso).

Sta di fatto che oggi quel microcosmo compatto e all’apparenza inscalfibile, capace di imporre in un territorio assai vasto, per secoli, il proprio sguardo sicuro sulla realtà sociale e sul dopo-vita, nonché di tener testa fieramente ai ripetuti attacchi dei suoi nemici di turno – atei, laicisti, materialisti, e via dicendo – ma anche di superare senza fiatare ogni refolo di contestazione interna – cosiddetti eretici, modernisti, reazionari, cristiani del dissenso, anticonciliari e via dicendo – non esiste più. Si è dissolto nel vento, o sta ormai per dissolversi. A nulla valgono le (sempre più flebili, a mio parere) nostalgie dei sopravvissuti, i rimpianti amari del bel tempo che fu, i richiami a una mitica età aurea, a “quando le cattedrali erano bianche” e il popolo delle città europee si ingegnava con ogni mezzo a coinvolgere architetti, artisti e maestranze varie per costruire chiese ed edicole, santuari, conventi e monasteri che segnassero il territorio.

Uno scenario, in ogni caso, consegnato alla storia. Si badi, non si tratta – per chi voglia darsi da fare per ricostruire dalle macerie – di ripartire da zero, ma di rendersi conto, in primo luogo, che non c’è solo da rimboccarsi le maniche, ma anche e soprattutto il pensiero. Per capire cosa sia successo, nonché come e perché è successo. 

La visione cristiana va ripensata da capo
Sessant’anni fa molti teorizzavano “la morte di Dio“. In realtà, la storia pare essere andata da un’altra parte al punto che Kepel ha scritto un testo dal titolo “La rivincita di Dio“. Perché invece ritieni che i cambiamenti in atto siano irreversibili e irreversibilmente cambino le forme della testimonianza credente, non solo cristiana?

Certo, è curioso, se misuriamo il peso specifico del religioso nelle nostre società, riandare alla stagione – era appena il tornante fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento – in cui campeggiavano senza se e senza ma nella cultura occidentale le teorie sociologiche della secolarizzazione, accompagnate appunto da quelle, sul versante teologico, della cosiddetta morte di Dio.

Che prendevano le mosse da due principali constatazioni: a monte, la sempre minore incidenza, un dato oggettivo, del cristianesimo nelle sue varie declinazioni sulla società, sulla politica, persino sul vissuto quotidiano dei fedeli; e a valle, l’ipotesi che anche le religioni altre – di cui ancora poco si sapeva e ritenute non di rado un relitto del passato di stampo medievale – erano destinate a scomparire, prima o poi, e comunque quando fossero venute a contatto con la modernità nei suoi aspetti più dinamici, l’avanzare impetuoso della scienza e la tecnologia su tutti.

Senza dimenticare che le teorie della secolarizzazione incorporavano almeno tre significati, prossimi ma distinti: il declino della religione tout-court; la crescente differenziazione fra le cosiddette sfere del sacro e del profano; e infine, la privatizzazione del rapporto con la fede.

Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, fino a renderci consapevoli che, a dispetto dell’ormai avvenuta secolarizzazione di costumi e stili di vita, la postmodernità in cui siamo immersi è ancora chiamata a fare i conti con le religioni. Spesso, purtroppo, a caro prezzo. Tanto che ormai appare legittimo – e, per quel che mi riguarda, doveroso – riprendere in mano l’interrogativo del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, il quale, dal carcere nazista in cui fu rinchiuso dal 1943 al 1945, si domandava per nulla retoricamente se sia possibile vivere, dopo duemila anni della sua storia, il cristianesimo “etsi Deus non daretur”. Fino a immaginare un “cristianesimo non religioso”.

Ottant’anni dopo, stiamo appurando che è perfettamente possibile vivere “come se Dio non ci fosse”, come capita oggi alla maggioranza dei cittadini europei, i quali in qualche misura ancora si dicono sì cristiani  qualunque cosa ciò significhi per loro – ma che alla questione di cosa o chi sia Dio, o ai dubbi relativi alla sua esistenza o alla sua inesistenza, non dedicano alcun interesse. Senza problemi, rimpianti o rimorsi.

Perché un gran numero di persone, in concreto, ha smesso di credere in Dio e le chiese non sembrano più in grado di affrontare tale situazione, di testimoniare e comunicare la buona notizia di Dio. Si tratta di un disincanto diffuso, rispetto a un discorso che è stato – e per certi versi è ancora – troppo sicuro di sé…

Johann Baptist Metz, uno dei maggiori teologi del postconcilio ideatore fra l’altro della teologia politica, pur ritenendo – naturalmente – la decadenza strutturale e la debolezza diffusa nella Chiesa una questione dirimente, ripetutamente sottolinea che ancor più rilevanza sta oggi acquisendo la crisi di Dio. Con un ulteriore paradosso: tale crisi non si manifesta facilmente, perché a sua volta essa si collega spesso a un’evidenza religiosa. Fino a far dire allo stesso Metz che si tratta di una crisi di Dio in un’epoca religiosamente entusiasta…

Questi cambiamenti mettono in atto nella Chiesa cattolica risposte molto diverse. Dalla difesa identitaria ad oltranza alla resa di fronte a un futuro dove pare che la questione religiosa non possa avere più diritto di cittadinanza…

Nel mio libro – che ha l’ambizione di provocare un po’ di dibattito al riguardo – provo a tracciare qualche risposta, ponendomi nella prospettiva della Chiesa di domani, individuandone le tracce già nella situazione odierna. Mi domando: cosa resterà, della Chiesa in frantumi di oggi, nei prossimi decenni e oltre?

“Karl Rahner – disse il cardinal Martini nell’ultima sua intervista, nel 2012, al Corriere della sera – usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore?”

Ecco ciò che ho inteso esplorare in Senza Chiesa e senza Dio, nella consapevolezza che si danno due narrazioni fondamentali sul futuro delle chiese (adotto il plurale, non casualmente) e del cristianesimo: una, minoritaria, ottimista, e un’altra, largamente prevalente, pessimista. Secondo la prima, le chiese sarebbero destinate a emergere trionfanti dall’attuale palude stigia: contro ogni probabilità, esse proseguiranno ad adempiere il loro mandato divino di evangelizzare i loro contemporanei.

Stando all’altra, per contro, il loro declino è inevitabile, a gioco medio-lungo, e il cristianesimo – come ogni altra religione, si presume – è destinato a perdere influenza e a tirare i remi in barca, mestamente. Come dicevo, per quanti si sentano coinvolti c’è da rimboccarsi le maniche ma ancor più il pensiero, perché da troppo tempo, come chiese, abbiamo smesso di pensare.

È un appello urgente pur se spesso dissimulato, davanti al quale è quasi naturale che ci si divida, anche all’interno delle comunità dei credenti: è stato così sempre, nella storia ecclesiale, ed è così nell’odierna stagione, nulla di strano!, purché il confronto – mi permetto di dire – non si traduca in divisioni preconcette e in un’acrimonia reciproca priva di pietas. Anche per questo, la partita è tutt’altro che chiusa. La posta in gioco è davvero alta (il che vale anche, ovvio, per l’odierno Cammino Sinodale).

Cosa significa ripensare da capo la visione cristiana? Partendo da dove?

Rispondo a partire da un dato che intendo evidenziare: l’abbandono delle pratiche e la cosiddetta crisi di Dio non stanno causando la scomparsa dei bisogni di senso, della consolazione e della ritualizzazione che costituivano il fondamento dell’antica domanda religiosa, anche se questi elementi si sono, in buona parte, trasformati e vengono reinvestiti altrove.

Occorre prenderne atto, come fa Giuliano Zanchi scrivendo da Bergamo, epicentro italiano della pandemia: “Mai come in questi momenti si può avere consapevolezza di quanto le nostre parole religiose siano consumate, estenuate dall’abuso, depotenziate dal controllo: esse ora scivolano sulla realtà, in questi giorni così brulicante, come acqua su una tela cerata. Non ce siamo presi cura che per blindare la loro immutabilità. Ora non abbiamo che fossili verbali utili solo alla stratigrafia di un mondo scomparso”.

Lo ribadisce un teologo ceco assai attento alle trasformazioni del cristianesimo, Tomàš Halík: “Forse è giunto il tempo di abbandonare molte di quelle parole pie che abbiamo continuamente sulle nostre bocche e sui nostri stendardi. Queste parole, a causa di un uso continuo, spesso troppo superficiale, sono consumate, usurate, hanno perso il loro significato e il loro peso, si sono svuotate, diventando leggere e facili. Altre invece sono sovraccariche, rigide e arrugginite; sono diventate troppo pesanti per riuscire a esprimere il messaggio del Vangelo, la buona novella”. 

Di fronte a questi scenari, dopo duemila anni, mi pare evidente che il cristianesimo, giunto ormai al suo inevitabile appassimento come sistema religioso, sia oggi convocato a radicarsi di nuovo nell’esigente logica della parola evangelica. Investire in formazione rimane l’unico modo possibile per preparare il futuro, per seminare futuro. E la formazione richiede inventiva, risorse economiche e mentali, lungimiranza, e la pazienza dei passi brevi nella coscienza dei tempi lunghi.

Certo, nel futuro contesto sempre più secolarizzato e post-secolare, quel che resta del cristianesimo e dei cristiani – non solo in Occidente – si troverà a operare in uno spazio pubblico affollato di proposte etiche, morali, spirituali e teologiche variopinte, non di rado in contrasto fra loro e destinate a confrontarsi con il basso continuo della permanenza di atteggiamenti e stili di vita pienamente secolarizzati. Qui siamo, con le macerie del cristianesimo di ieri ancora fumanti. Ma non servono, e non serviranno, posture passatiste. E non serve a nulla, neppure stavolta, secondo l’immagine di Numeri 11,5,  rimpiangere le cipolle egiziane…

La crisi potrebbe diventare un’occasione propizia
La Chiesa a quale conversione è chiamata?

Mi servo, per cercare di rispondere, di un esempio, ritengo eclatante, che traggo da un bel libro curato dal vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, Non è una parentesi. Durante la pandemia la Chiesa si è spostata nelle case, cosa che noi non avremmo mai fatto di nostra iniziativa. Non conta in quante, ma conta che sia avvenuto, e che in molte case si sia allestito, durante il triduo pasquale, un tavolo con la parola di Dio aperta, un lume acceso, un pane spezzato, un calice di vino, un mazzo di fiori. Conta che sia avvenuta una celebrazione domestica presieduta da una ministerialità familiare, laica, spesso femminile; che i riti abbiano ripreso posto nella vita e abbiano cominciato a sentirne il sapore.

Ecco quanto non si dovrebbe più fare: sequestrare nuovamente le celebrazioni e tornare a chiuderle nelle chiese, rendendole una volta ancora un’esclusiva clericale, a dispetto del linguaggio abituale della celebrazione comunitaria. Prendersi cura di quanto è appena sbocciato significherebbe incoraggiare piccoli riti personali e familiari, riti di fede alla misura del tempo, dello spazio e del luogo di una famiglia normale. Da questa ritualità familiare riattivata potrà forse un giorno nascere il coraggio di fare ciò che non avremmo mai fatto da soli: riaprire il dossier delle nostre intoccabili forme celebrative, affinché i riti tornino a ospitare la vita e in tal modo liberino la loro potenza generativa nel fornirle una forma nuova, redenta e salvata. Al riguardo, è significativa la testimonianza di don Ivo Seghedoni, presbitero di Modena e mio collega all’Istituto di scienze religiose dell’Emilia, ma anche parroco di una grande parrocchia cittadina. 

Don Ivo, ripensando al suo camminare pensoso nella chiesa vuota una domenica mattina, durante il lockdown nel 2020, annota: “Non si trattava di girare pensierosi dentro una chiesa vuota, quanto piuttosto di rendersi conto che la Chiesa era da un’altra parte. Stavamo cercando tra i morti. Ciò che era vivo non era lì: non lo poteva essere, perché lì la sua presenza era preclusa, ma c’era. Era altrove. Era dentro le case dove le famiglie vivevano la preghiera domestica. E lo facevano attivando tutta una serie di azioni pastorali che, in chiesa, non sarebbero state possibili. Lo facevano creando uno spazio adatto dentro l’ambiente feriale, prendendosi un tempo contrattato tra i vari membri di casa secondo un orario scelto con libertà e non imposto dal negozio parrocchiale… Offrendo ai giovani una testimonianza di una fede che non è fatta di osservanze stabilite, ma piuttosto di una scelta semplice, calda e bella, spoglia di rigidità e di abitudini…

Abbiamo assaporato i primi timidi segni della nascita di una Chiesa radunata nelle case e raccolta insieme dagli strumenti che ora abbiamo a disposizione, sentendo il sapore buono di un pane che non ha la ricchezza e la solennità di quello benedetto nelle nostre curatissime eucarestie domenicali, ma che ha la fragranza e la schiettezza di quello condiviso in famiglia. Diverso, ma anch’esso nutriente e sufficiente a continuare il cammino”.

Don Ivo concludeva offrendo un’interpretazione positiva di quell’affermazione che potrebbe spaventare più di qualcuno: la fine della civiltà parrocchiale. Una fine che non lascia il vuoto, perché, ai suoi occhi, è già in fioritura “l’aurora di una Chiesa che lascia lo spazio sacro”, “una Chiesa che non va in chiesa. O che non fa dell’andare in chiesa il suo distintivo. Il volto e la forma di una Chiesa che vive nelle case, di una Chiesa che si apre a una nuova missionarietà”.

Già il concilio, del resto, aveva reso evidente che la Chiesa del futuro non potrà essere semplicemente concepita come la restaurazione di un modello storicamente superato quale quello determinato dal concilio di Trento, ma dovrà fondarsi su una rigenerazione globale, capace di superare sia l’eurocentrismo che ha segnato gli ultimi secoli della sua storia, sia il tradizionale rigido steccato tra clero e laici, per coinvolgere l’intero popolo di Dio in un processo virtuoso di trasformazione creativa. Quanto lavoro… ma ne varrebbe la pena!

Come immagini la Chiesa del futuro?

Qualcosa ho già detto. Aggiungerei che, quando domandavano a Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Tibhirine, se avesse senso mantenere lì una minuscola comunità di religiosi come la loro, dato che in Algeria non erano autorizzate le conversioni al cristianesimo, lui di solito rispondeva che la cosa più importante non era fare numero, ma essere segno.

Peraltro, è la stessa storia di chi ha speso la vita nel nome di Gesù a dimostrarci che il nuovo emerge ben distante dall’equilibrio, ai confini del caos, in frangenti inattesi di irruzione della creatività nel grigiore della quotidianità. Ecco perché, a conti fatti, e a dispetto dei numerosi e chiassosi profeti di sventura (compagni ideali di quelli deprecati da Giovanni XXIII mentre introduceva, sessant’anni fa, il Vaticano II con il discorso Gaudet Mater Ecclesia), questo cambiamento d’epoca non solo non dovrebbe mettere paura, ma se affrontato con il piglio giusto potrà fare del bene al vangelo, alle chiese e alla loro credibilità (ma anche ai cosiddetti non credenti, e alla società tutta).

Infatti, “se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Quel che è certo è che il cristianesimo che abbiamo ereditato dal passato e in cui sono cresciute acriticamente molte generazioni – fra cui la mia, naturalmente – non funziona più: se intende risultare credibile ed essere praticato in un prossimo futuro, va ripensato da capo.

Anzi, forse ha ragione il domenicano Dominique Collin, per il quale il cristianesimo – a ben vedere – non esiste ancora… Guardare in faccia il nuovo è un’operazione complessa, e spesso dolorosa: in genere è più facile vedere ciò che conosciamo già, e non industriarsi a capire che il mondo che ci era familiare non è più quello in cui viviamo. Ma questo è quanto ci viene richiesto, niente di più e niente di meno, se vogliamo prendere sul serio la crisi.

Grazie a Paolo De Benedetti, anni fa, ho imparato che nell’ebraismo non tutte le discussioni talmudiche si concludono con una presa di posizione: in parecchi casi si chiudono con la parola tejku, acronimo della formula il tishbita Elia verrà e deciderà, che quindi significa sospeso. Infatti, non ci è dato, ora, di conoscere tutto. E anche le nostre chiese dovrebbero imparare a usare un po’ di più questa bella espressione…

Sì, a conti fatti questo potrebbe rivelarsi un kairòs, a dispetto di ogni apparenza, un tempo di straordinarie e sorprendenti opportunità, se ci crederemo e ci investiremo energia e passione. Se prevarrà la realtà. “La realtà è superiore all’idea” è uno dei principi che – com’ noto – guidano il pensiero di papa Francesco. Il quale ne parla, per la prima volta, nell’Evangelii gaudium, al numero 231, mentre affronta gli obiettivi, a lui particolarmente cari, del bene comune e della pace sociale, inserendolo fra i criteri per un discernimento di scelte capaci di favorire un’ordinata vita sociale ed ecclesiale: “La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà”. L’invito, perciò, è a vigilare attentamente su quelle forme di idealismo che – pur talvolta generose e mosse da buone intenzioni, ma non per questo innocue – rischiano di mortificare il reale. 

In effetti, come si legge nella Mishnà, nel trattato Pirkè Avot, in un detto di rabbi Tarfòn: “La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene” (2,18-19). Se c’è un tempo per ogni cosa, questo è il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi, tenendo conto che l’attuale cambiamento d’epoca richiede in primo luogo di mutare sguardi, cuori e pensieri: perché la Chiesa del futuro dipenderà dalla Chiesa di oggi, che ascolta e risponde al mondo in cui vive. 


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