Vito Mancuso "Sui migranti restiamo "italiani brava gente" ma se perdiamo la pietas tradiamo noi stessi"
Penso sia più che legittimo il desiderio di proteggere la nostra nazione e la nostra identità di italiani,
perché ritengo naturale la paura che ci coglie nel vedere intere zone delle nostre città ormai non più
nostre ma dominio di altre etnie e di altre civiltà. Si tratta di una paura radicata nella biologia,
coincidente con quel medesimo istinto che porta gli animali a proteggere il loro territorio, e
dimenticarla significa ignorare la natura e quindi produrre necessariamente cattiva politica.
Se però, per ascoltare la natura, si calpesta la cultura; se però, per rimanere "italiani", si corre il
rischio di non essere più "umani", e in qualche occasione non lo è si più davvero, allora è la
catastrofe. A che serve infatti essere italiani, se, essendolo, non si è anche e prima di tutto umani? Il
concetto di italianità si inscrive intrinsecamente in quello di umanità, ne è una declinazione. C'è di
sicuro un bel po' di retorica nel detto «italiani brava gente», perché non è per nulla vero che noi
siamo sempre brava gente. In esso però è contenuto anche l'ideale a cui noi in quanto italiani
intendiamo aspirare: cioè anzitutto quello di essere "bravi", e bravi non nel senso di precisi, di forti,
di irreprensibili, ma nel senso di umani. Magari imprecisi, ma accoglienti. Magari ritardatari, ma
generosi. Magari indisciplinati, ma ospitali. Ed è proprio per questo che se, per rimanere italiani,
calpestiamo il nostro essere umani, la nostra sconfitta è totale.
Dico totale perché perdiamo rispetto a noi stessi e alla nostra più profonda identità. Veniamo da
lontano noi italiani, siamo antichi. I nostri padri latini, oltre duemila e cinquecento anni fa,
ponevano a fondamento del loro vivere l'insieme di valori che chiamavano mos maiorum, "l'usanza
degli antenati", il modo di essere di coloro grazie a cui essi erano venuti al mondo. E tra i loro
valori fondamentali vi era, in posizione privilegiata, ciò che essi chiamavano pietas, qualcosa di più
della nostra semplice pietà: pietas infatti è la capacità di empatia verso chi soffre, sapendo fare
propria la sofferenza altrui.
È chiaro che a fondamento del nostro stare al mondo, e ancor più a fondamento del governo di uno
Stato, non vi può essere solo la pietas e infatti i nostri padri conoscevano anche altri valori quali
virtus, maiestas, fides, gravitas (virtù, dignità, fiducia, severità). Ma la pietas è essenziale per
generare nelle coscienze quel modo di guardare il mondo che è il più nobile di tutti, riassunto così
dalla celebre sentenza di Terenzio: Homo sum, nihil humani a me alienum puto. Ovvero: «Sono un
uomo, nulla di ciò che è umano mi è estraneo». Traducibile anche: «Sono un essere umano, non
rimango indifferente a nulla che riguardi altri esseri umani».
Per questo io penso che se c'è oggi una nazione che ha il dovere, anzitutto per una questione
genetica, di esercitare una politica all'insegna della non-indifferenza rispetto all'umano, questa
nazione è l'Italia. Se non vuole tradire se stessa. Vi sono popoli che si possono permettere di essere
indifferenti? Penso di no, ma a maggior ragione noi non ce lo possiamo permettere, perché siamo
gli eredi diretti della cultura classica e cristiana, e quando non abbiamo pietas cadiamo in plateale
contraddizione con la nostra essenza. E stiamo male. Diventiamo cattivi. Anzi, captivi, che in latino
significa "prigionieri". Non accogliendo gli altri, imprigioniamo noi.
Per il più grande poeta latino, Virgilio, mantovano, eletto da Dante a guida e padre, provare pietà
per la sofferenza altrui è il contrassegno più nobile di un essere umano. E se alla classicità
aggiungiamo la cultura cristiana, da cui pure ognuno di noi, credente o non-credente, proviene, il
quadro è completo: essere italiani, nel senso morale e non solo geografico del termine, significa
essere il contrario di indifferenti. Significa prendere parte, partecipare, aiutare. Significa guardare,
salvare, uscire allo scoperto e stringere la mano tesa verso di noi. Soprattutto la mano di chi è in
mare in balìa della forza delle onde, perché noi più di altri popoli viviamo del mare e con il mare.
Prendendo a prestito un modo di dire americano e parlando della sua scuola di Barbiana
sull'Appennino fiorentino, don Lorenzo Milani esaltava così il più bello spirito italiano: «Su una
parete della nostra scuola c'è scritto grande "I care". È il motto intraducibile dei giovani americani
migliori. "Me ne importa, mi sta a cuore". È il contrario esatto del motto fascista "Me ne frego"».
Oggi sono le neuroscienze a insegnarci che l'empatia è strettamente associata alla natura umana
universale. Se voi sorridete a un neonato è molto probabile che anche lui vi sorrida, se voi avete
dieci neonati in una stanza di ospedale e uno di loro inizia a piangere è probabile che anche gli altri
lo facciano. Lo stesso vale per noi adulti che, entrando in un ambiente nervoso oppure sereno, ci
conformiamo istintivamente rispetto a esso. Non ci pensiamo, la condizione arriva da sé, perché noi
siamo contagiabili non solo biologicamente ma anche emotivamente: possiamo ricevere e
trasmettere non solo virus e batteri, ma anche emozioni e sentimenti.
La scoperta dei "neuroni specchio", avvenuta a Parma nel 1992 e poi mondialmente confermata,
dimostra che in noi esiste una predisposizione naturale a identificarsi con l'altro, a vedere che l'altro
è "come me". Per cui, se lo vedo compiere un gesto o subirlo, inizio a provare dentro di me le sue
stesse emozioni. Mi immedesimo con lui, il suo pathos diviene il mio pathos. Così anche la sua
morte per mare diviene anche la mia, la morte di una parte di me. Muore la mia pietas.
Pietà l'è morta.
Per questo alcuni di noi l'altro giorno hanno tirato dei peluche contro le auto dei politici: era per
protestare, facendolo nel nome della politica migliore, quella che sa trasmettere emozioni e
sentimenti positivi, e soprattutto nel nome dei cento e più morti annegati, dei loro familiari, e anche
di se stessi e di tutti noi. Italiani.