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La dimensione cristiana deve recuperare la cura delle persone e la pratica dell’ascolto

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Don Alfredo Jacopozzi e il dialogo tra psicologia e spiritualità 
di Chiara Dino 

«Nel labirinto della contemporaneità il malessere colpisce tutti». L’analisi, impietosa ma aderente al vero è di don Alfredo Jacopozzi, direttore dell’Ufficio Cultura della Curia a Firenze, docente di Filosofia e Storia delle Religioni alla Facoltà teologica, cappellano alla parrocchia di Poggio Imperiale. L’11 parteciperà a al secondo incontro del ciclo organizzato dall’Istituto Stensen e dedicato a far dialogare la dimensione della psicologia e quella dello spirito. Un ciclo spalmato su 4 sabati che parte domani. 

Don Jacopozzi, prima c’erano preti, poi la gente ha preferito gli psicologi, e va detto, la Chiesa li ha visti sempre con il fumo negli occhi perché prendevano il posto dei confessori. Ora invece si parla di dialogo. Ma è possibile? 
«È necessario e auspicabile per dare una risposta a chi si dibatte dentro il malessere contemporaneo». 

Perché la psicologia non basta? 
«Per due ordini di ragioni. Prima di tutto perché credo che la psicologia, negli ultimi anni, si stia riducendo a una sorta di riparazione dell’anima per continuare a combattere nella vita, mentre l’uomo ha bisogno di qualcosa in più; e poi perché questa non tiene conto della dimensione spirituale della vita. Mi spiego meglio: la visione antropologica dell’uomo, dal punto di vista cristiano, prevede una tripartizione corpo, anima e spirito, tripartizione che ora si è persa in favore di un dualismo corpo/anima, che tralascia lo spirito». 

Ma che differenza c’è tra anima e spirito? 
«Consideri l’anima come un sinonimo della psiche: se lavoro su di essa resto su un piano che ha a che fare con l’individuo e la sua dimensione umana. La dimensione dello spirito fa fare un passo ulteriore, lo spirito ci fa vedere un oltre che ci identifica ognuno con le sue differenze. Io contesto una certa psicologia che ci vuole omologare, quei manuali che ci spiegano come si diventa felici in 15 mosse». 

E però lei come prete cerca l’alleanza con gli psicologi. Perché? 
«Perché oggi, la dimensione cristiana deve recuperare la cura delle persone. La Chiesa dà più importanza alla struttura e alle gerarchie, o ancora alla sua organizzazione. Occorre invece curare le persone». 

È come se dicesse: lo psicologo può aiutare il prete a recuperare la cura delle persone e il prete può aiutare lo psicologo a non omologare le persone con cure che valgono un po’ per tutti. Ma ci sono differenze di fondo. Se vado dallo psicologo lui non mi parlerà mai di colpa o peccato, la Chiesa sì. 
«Questo è un tema enorme: in fondo però se andiamo a toccare la dimensione spirituale in profondità dovremmo parlare di peccato e non di colpa. La colpa è lacerante, nella colpa si rimane inchiodati. Mentre il peccato è amartia che vuol dire sbagliare il centro, il decentrarsi. Ecco perché nel cammino spirituale si procede per ritrovare il centro, il divino. Trovare il centro significa ritrovare una dimensione altra per muoversi in una condizione di libertà, levità, leggerezza nel senso calviniano del termine e credo che quando si sperimenta questo si coglie che siamo in una dimensione altra». 

Ma lei crede che la Chiesa sia pronta a questa alleanza? 
«In passato c’è stata un’alzata di scudi delle gerarchie cattoliche contro la psicologia. Ora le cose stanno un po’ cambiando Molti autori cattolici hanno anche una solida preparazione psicologica. Penso a ad Anselm Grün, un monaco benedettino tedesco, i cui libri sono stati tradotti in Italia, lui è anche psicoterapeuta». 

Resta il fatto che se chiedo aiuto a uno psicologo lui mi aiuta a superare traumi e paure o in alcuni casi ad accettarli, se vado da un prete mi dice non sei solo, affidati a Dio: è ben diverso... 
«A mio avviso la psicologia può aiutarti a trovare le cause di una certa situazione, la dimensione religiosa spirituale in qualche modo porta a una tensione positiva, a uno sviluppo che poi conduce a quella leggerezza calviniana di cui si parlava prima». 

Lei ci riesce a toccare quella leggerezza? 
«Sì, forse anche per la mia storia personale: dopo una giovinezza da contestatore in Potere Operaio io ho avuto una forte crisi esistenziale. A 20 anni conobbi un monaco a Camaldoli: lui faceva meditazione e con lui e grazie a lui andai più volte in degli ashram in India a fare meditazione buddista, oggi pratico meditazione cristiana un po’ come fanno anche i Ricostruttori». 

Dunque la meditazione resta centrale. Mai pensato di sposare altre religioni? Buddista? 
«No. oggi sono sereno così. Anche se non nego che, per esempio le comunità buddiste, sia la Soka che la Tibetana, sia i cristiani ortodossi abbiano più a cura le persone. Questi ultimi hanno ancora la figura del padre spirituale che ti segue e ti accoglie, tra i buddisti c’è una comunità che si sostiene». 

Cosa sta facendo la Chiesa per incentivare il dialogo tra anima e spirito, psiche e Dio? 
«La Chiesa ha delle punte avanzate come i Ricostruttori o le organizzazioni di meditazione cristiana. Tutte realtà che, però, fino a pochi anni fa, venivano viste come comunità new age. Da 5 anni a questa parte ci guardano con più attenzione ma restiamo delle realtà molto marginali». 

Dunque c’è molto da fare: penso anche al tema dell’accoglienza dei gay o di chi pratica l’aborto... 
«Sì è vero: i preti hanno abbandonato la pratica dell’ascolto, la confessione è diventata solo un apparato giuridico. Essa è invece accoglienza e redenzione. Per tutti»
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