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Vito Mancuso "Il credo del Cardinal Martini “Vorrei individui pensanti”. Nel nome della virtù"

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Estratto dalla prefazione a

Carlo Maria Martini, La forza delle virtù.
Per dare il meglio di sé


“Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”. Proseguiva: “Chi riflette sarà guidato nel suo cammino”. Così Carlo Maria Martini dichiarava al confratello gesuita Georg Sporschill durante una delle loro conversazioni notturne a Gerusalemme nel 2007. Ed è proprio per onorare il pensiero che io scrivo questa mia prefazione a questo suo libro sulle virtù, uscito originariamente nel 1993 ma che si può considerare quasi una novità editoriale essendo stato allora pubblicato dalla cooperativa cattolica milanese In dialogo e rimasto per lo più nei circuiti diocesani. Onorare il pensiero significa non solo far emergere il valore del libro ma anche presentare alcune osservazioni critiche scaturite dalla lettura, come farò io in questo scritto, sicuro che Martini avrebbe gradito tale procedimento alla luce del motto episcopale che aveva scelto, “pro veritate adversa diligere”, un detto di Gregorio Magno che letteralmente significa “per amore della verità amare le cose avverse” e che egli amava tradurre “essere contento delle contraddizioni”.
Nella frase riportata all’inizio Martini afferma che prima viene il pensiero e solo dopo la fede. Questo significa che egli intendeva la fede non tanto come accettazione di un insieme di dottrine stabilite nel passato da altri a cui bisogna obbedire senza pensare, ma piuttosto come una particolare disposizione del pensiero. Fede, quindi, non tanto come fides quae creditur, quanto piuttosto come fides qua creditur: non tanto cioè come confessione di dottrine e di dogmi, quanto piuttosto come atteggiamento della mente e del cuore. La fede in questa prospettiva è quella disposizione che porta la mente non a voler capire un fenomeno (questo è il compito della ragione), ma a contribuire a farlo crescere e fruttificare, vale a dire quella disposizione che sa dire alle situazioni e alle persone “io credo in te”, “mi fido di te”, facendo sì che ognuno dia il meglio di sé; la fede, insomma, come lievito evangelico. Per quanto mi riguarda, posso dire che Martini in un momento delicato della mia esistenza mi fece sperimentare sulla mia persona questa preziosa fede fiduciale …

Un lavoro interiore
L’obiettivo dell’opera è enunciato dal sottotitolo: “dare il meglio di sé”. Detto così non è di nulla di originale, visto che non sono pochi in questo mondo a voler dare il meglio di sé, come accade nello studio universitario, sul lavoro, nello sport e in molti altri ambiti. Il punto decisivo però consiste nel fine per il quale ci si dispone a dare il meglio di sé, impegno che può essere assunto per due motivi molto diversi: per diventare migliori rispetto a se stessi, o per risultare i migliori rispetto ad altri. Credo non sia difficile constatare che è proprio questa seconda finalità a essere maggiormente perseguita nel nostro mondo, dove ben pochi si curano di essere migliori e pressoché tutti ambiscono a essere i migliori.
L’aggettivo “migliore” è un comparativo, ma con l’articolo determinativo diventa superlativo, il grado dell’aggettivo che esprime superiorità. Ed è proprio la superiorità ciò che l’istinto e la cultura da sempre dominante suggeriscono, come mostra già Omero nell’Iliade facendo dare a Peleo il seguente consiglio ad Achille, suo figlio per questo detto “il Pelide”: “Primeggiare sempre ed essere superiore agli altri”. È questo che solitamente i più ricercano quando danno il meglio di sé: essere i migliori e così affermare la propria volontà di potenza, una potenza esercitata sugli altri e che si rivela in realtà volontà di potere, di ottenere cioè una vittoria che è sempre prima di tutto sconfitta di altri. Ma tutto ciò con la virtù non ha molto a che fare, perché per la virtù conta piuttosto la vittoria su di sé, non sugli altri, come testimoniamo unanimemente le grandi tradizioni spirituali. Si legge nel libro biblico dei Proverbi: “Chi domina se stesso vale più di chi conquista una città”. Ha scritto Cicerone: “Tutto sta in questo: che tu sappia comandare a te stesso”. Ribadisce Seneca: “Il dominio di se stessi è il più grande dominio”. Dichiara il Dhammapada, il libro sacro più venerato del buddhismo: “La vittoria su se stessi è la massima vittoria, ha molto più valore che soggiogare gli altri. Questa vittoria nessuno la può contraffare né carpire”. Gesù affermava il medesimo concetto con queste parole: “Quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?”.
Questo è anche l’obiettivo perseguito da Martini nel trattare la forza delle virtù come recita il titolo di questo prezioso piccolo saggio: essere migliori rispetto a se stessi, migliori come esseri umani, del tutto a prescindere da rapporti di supremazia su altri. La partita qui non è esteriore, ma interiore; non si gioca con altri, ma interamente nel rapporto di sé con sé. Ma se si tratta di dare il meglio di sé per raggiungere la virtù, che cosa significa concretamente raggiungere la virtù?
Significa esercitare l’intelligenza per comprendere in profondità le varie situazioni della vita e acquisire quella penetrante ponderazione delle cose che si chiama saggezza, termine che designa nel modo più adeguato la prima virtù cardinale tradizionalmente detta prudenza (un nome sbagliato perché rimanda piuttosto alla cautela e non ai veri atteggiamenti in gioco nella prima virtù cardinali, cioè discernimento, senso di responsabilità, capacità di decidere, vigilanza mentale). Dare il meglio di sé significa inoltre esercitare la volontà in modo da perseguire non il proprio scontato interesse, ma ciò che è equo e corretto per tutti, cioè la giustizia (seconda virtù cardinale). Significa altresì mantenere la parola data, perseverare, resistere, avere coraggio nel prendere strade nuove, esercitando così la fortezza (terza virtù cardinale). Significa infine procedere con equilibrio e centrare quel giusto mezzo acquisendo il quale una frase o un’azione risultano come la grande musica, “ben temperata”, praticando appunto la temperanza (quarta virtù cardinale). Saggezza, giustizia, fortezza e temperanza costituiscono le cosiddette virtù cardinali. A esse in questo libro Martini fa seguire la trattazione delle tre virtù teologali, cioè fede, speranza e carità. Queste sette virtù costituiscono nel loro insieme il canone occidentale di quelle disposizioni della nostra energia interiore dette virtù e definibili “forze del bene”, il cui esercizio quotidiano fa diventare migliori sia come esseri umani sia come cultori della vita spirituale.

Per un’etica universale
Martini osserva che il termine virtù viene dal mondo greco, in particolare da Platone e da Aristotele nelle cui opere esso ricorre a profusione, specificando poi che nella Bibbia vi è invece un unico passo che lo presenta, Sapienza 8,7: “Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza”. Tale passo fa parte di un libro scritto originariamente in greco e per questo accolto come canonico solo dai cattolici e dagli ortodossi, mentre gli ebrei e i protestanti lo considerano apocrifo e non lo includono nel loro canone biblico, per cui si può concludere che nella Bibbia ebraica il termine virtù è completamente assente.
Ovviamente non si tratta solo di una questione terminologica, perché nomen e res sono sempre strettamente connessi e anzi prima viene la res, la realtà, la quale solo in un secondo tempo viene nominata dalla mente mediante uno specifico termine. Il dato terminologico indica quindi che anche l'esperienza della virtù in quanto espressione del meglio dell’essere umano nasce in ambito non ebraico e non cristiano, in particolare nella religione dei nostri antenati greci e latini solitamente detta paganesimo e che io preferisco chiamare religione classica perché paganesimo ha una sfumatura abbastanza negativa. L’esperienza e il concetto della virtù e della sua pratica è sorta nella Grecia antica e forse ancor più nella Roma antica (la Roma repubblicana di Cincinnato e di Catone), come si comprende a prima vita leggendo le opere dei filosofi greci e romani, in particolare Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca, Epitteto, Marco Aurelio, Plotino. È a loro che noi dobbiamo la formulazione delle virtù cardinali e il concetto di virtù. Martini lo riconosce esplicitamente scrivendo che le quattro virtù cardinali, descritte come “caratteristiche di ogni uomo onesto”, si ritrovano “nel pensiero filosofico di Socrate come è presentato da Platone e nei trattati di Platone e di Aristotele”, aggiungendo che “sant'Ambrogio ne parla appoggiandosi sugli scritti di Cicerone, mostrando così di non disdegnare affatto la grande sapienza pagana”. Senza i filosofi classici noi avremmo avuto le virtù teologali, ma non le virtù che riguardano ogni essere umano in quanto agente morale capace di responsabilità e per questo dette cardinali, cioè tali da definire i cardini.

Ma se questo è vero (come storiograficamente è), non possono che risuonare del tutto sorprendenti le parole di Martini secondo cui le virtù cardinali rappresentano “atteggiamenti fondamentali che definiscono un progetto cristiano di uomo e di donna”. Com’è possibile che un progetto antropologico cristiano possa essere definito da insegnamenti etici proposti da filosofi non cristiani, e per questo da Dante, in conformità a tutta la tradizione, esclusi dalla salvezza? Non si tratta di una contraddizione abbastanza palese, persino imbarazzante? Oppure no? Oppure, ben più che una contraddizione, questo dato rivela qualcosa di molto più interessante e più incoraggiante? A mio avviso ci troviamo in presenza dell’attestazione dell’universalità dell’esperienza etica, la quale appare accessibile e praticabile ai più alti livelli da parte di ogni essere umano nella misura in cui ricerca la giustizia, del tutto a prescindere dalla sua appartenenza religiosa.

Vito Mancuso, La Stampa 26 agosto 2022

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