Luciano Manicardi "Intercedere"
«È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa … È avvenuto,
quindi può accadere di nuovo». Le parole di Primo Levi si riferiscono ad
Auschwitz, ma le possiamo applicare alla guerra che a detta di molti era
inimmaginabile, impensabile, imprevedibile, forse persino impossibile, in
Europa. E invece…
Qui non si tratta di compiere valutazioni su ciò che su un piano geopolitico e strategico ha potuto portare all’attuale conflitto, scoprendo che
così imprevedibile e impensabile forse non era, e nemmeno di reagire con
il disincanto un po’ cinico di Régis Debray che afferma che «le cose vanno
sempre così. La guerra entra in gioco quando la storia si rimette in marcia.
La pace c’è quando dominano le arti della memoria». Dunque, «nessun
panico… È come se le grandi vacanze dell’Europa dovessero finire… È
suonata la campanella della fine della ricreazione».
No, qui la riflessione vuole nascere da un contesto di fede, e attenersi
ai limiti che tale ottica presenta. Ma che è inevitabile per un credente, che
di fronte a tale tragedia, come del resto di fronte a ogni altra guerra, anche
quelle passate sotto silenzio, anche quelle più lontane e meno narrate dai
media, si sente scosso, lacerato, turbato anche sul piano della fede. E non
può evitare le domande che ne nascono e che evidenziano la sua inermità,
il suo brancolare avanzando un po’ a tentoni, a volte anche il suo smarrimento e a tratti, perfino la sua confusione. Il suo interrogarsi lo porta a
ritenere che se ciò che era avvenuto in passato è avvenuto di nuovo oggi
è perché il male è un possibile sempre praticabile, a cui si può resistere, che
si può combattere, ma che può vincere il cuore umano con la sua forza
attrattiva.
Pascal lo diceva: «il male è facile, agevole, ce n’è un’infinità; il bene è
quasi unico». Al tempo stesso, il male è anche una storia di mali, una rete
di eventi che ne scatenano altri, è costruito dal concorso di tanti, e dunque
è facile, ma anche complesso, è singolare, ma anche plurale, è personale
ma anche pubblico, sociale, politico, è uno ma anche molteplice. Il poeta
Wystan Hugh Audenaff erma che «il male non è mai straordinario ed è
sempre umano. Divide il letto con noi e siede alla nostra tavola». Così
intimo all’uomo, «accovacciato alla sua porta», direbbe la Scrittura (Gen
4,7), eppure nemico dell’uomo stesso, di cui vuole fare la sua preda. Ma la
parola biblica afferma la possibilità dell’uomo di dominarlo e non farsene
dominare: «Tu, dominalo!» (Gen 4,7). Il divenire umani – perché questo è
il compito dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, dell’uomo
che ospita in sé quell’umano che è dono e responsabilità al tempo stesso
– comporta la lotta contro la tendenza alla violenza, comporta l’addomesticamento dell’istinto cattivo, comporta il nominare il male e fuggirlo.
Insomma, il divenire umani deve guardarsi dalla sempre possibile caduta
nell’inumano, cioè, dal rendere l’altro uomo una cosa, reificarlo, nullificarlo, cancellarne il volto, l’unicità, la preziosità insita nella sua precarietà. E
la storia ci dice che l’inumano è una possibilità costante dell’umano. Che
tuttavia, mentre annichilisce il volto dell’altro (che prima di essere ‘altro’
è, più fondamentalmente, ‘simile’, ‘un mio simile’) deturpa anche il volto
dell’oppressore e ferisce l’umano che è in lui.
Ora, guardare alla guerra a partire dalla fede comporta anche l’attraversamento di regioni interiori abitate da timori e da dubbi, da senso di
inutilità e di sterilità, da domande che faticano a trovare risposte. E anche
da risposte che, appena ce le siamo date, subito ci appaiono bisognose di
revisione, insufficienti, non all’altezza. E ci obbligano a cercare e a scavare
ancora. E il credente cerca luce nel vangelo, nella vita di Gesù narrata nei
vangeli. In Lc 13,1-5 a Gesù viene esposto da «alcuni» un fatto di sangue
sacrilego: Pilato aveva fatto uccidere dei Galilei mescolando il loro sangue
a quello dei sacrifici durante una cerimonia religiosa. Come reagisce Gesù?
Non resta indifferente a un fatto che riguarda quel mondo che è il destinatario della cura e della sollecitudine di Dio. Se ne lascia interpellare e ferire.
E non va in cerca di un colpevole, ma guarda gli eventi dal punto di vista delle vittime, dei sofferenti, di chi è morto in un amen, di chi ha visto la
sua vita recisa improvvisamente e senza un perché, come anche i diciotto
periti nel crollo della torre di Siloe. Gesù non dà risposte spiritualizzanti e
tranquillizzanti, non si adagia su stereotipi teologici, non tira in ballo la volontà di Dio, non cerca di giustificare Dio, non pretende di trovare un senso
là dove domina l’assurdo, ma rende transitivo quell’evento distante e di cui né
lui né i suoi seguaci hanno alcuna responsabilità, cogliendovi una parola per
loro. E la parola è un urgente invito a conversione. Non certo che Dio mandi
eventi calamitosi perché l’uomo si converta. Sarebbe blasfemo. Ma per non
abbandonare gli eventi a se stessi e perché gli eventi non abbandonino noi, e
restino accadimenti senza nesso, occorre ascoltarli e porli in relazione con noi.
Con quell’invito a conversione, mi sembra che Gesù cerchi di dare un
volto a chi è rimasto senza volto, perduto nell’anonimato di macerie che
l’hanno sepolto o di una violenza brutale e cieca che ne ha troncato l’esistenza. Gesù chiede che il volto e il nome perduti delle vittime trovino un
riflesso nel volto e nel nome dei suoi discepoli. Gesù chiede responsabilità.
Di farsi rispondenti a ciò che non si è subito direttamente e che nemmeno
si è causato in prima persona, ma che non ci può rimanere estraneo perché
riguarda quegli esseri umani che sono nostri fratelli. Così, mentre la violenza brutale e cieca nega la fraternità spegnendo l’umanità di chi viene ucciso
e anche di chi uccide, la risposta che Gesù vi dà tende a ricostruire legami
di fraternità basati sull’elementare verità espressa con semplice potenza da
Lattanzio: «Il principale vincolo che unisce gli uomini è l’umanità. Siamo
fratelli». Gesù assume l’evento distruttivo della fraternità umana e ne fa il
luogo di ricostruzione di tale rapporto. Come se dicesse: Riconosci che il
male che ha scatenato la violenza è anche in te, non puoi ritenertene esente. E ancora: Assumi la sofferenza dell’altro come criterio di giudizio e di
orientamento nel mondo, come criterio di prassi.
LA RIVISTA DEL CLERO ITALIANO Fascicolo n°3 del 2022