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Simona Segoloni "Sinodalità nella chiesa: come e perché"

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«Il sinodo dei vescovi mette a tema la sinodalità della chiesa e allo stesso tempo le chiese italiane vengono chiamate a celebrare un sinodo (quelle tedesche già lo stanno facendo): è inevitabile che si moltiplichino le riflessioni a tutti i livelli sul tema e il merito di aver portato la sinodalità fuori dagli articoli specialistici degli ecclesiologi per metterla (almeno) sulle labbra di vescovi e fedeli è indubbiamente di papa Francesco. Non che se occupassero solo gli ecclesiologi o che la chiesa abbia mai smesso di vivere questa dimensione essenziale, ma certo non era alla coscienza di tutti: passa la differenza che c’è fra respirare senza pensare e magari, immersi in altre attività, stressare il respiro o inalare ciò che non si dovrebbe, e respirare consapevolmente usando i muscoli necessari e facendo attenzione alla qualità dell’aria.


La sinodalità può essere considerata costitutiva della realtà ecclesiale in quanto consiste nel camminare insieme e non è possibile essere un unico popolo o – nell’immagine ancora più potente usata nelle lettere paoline – un unico corpo senza camminare insieme. D’altra parte si può camminare insieme in modo distratto, senza accorgersi degli altri, lasciando indietro qualcuno o preoccupandosi solo che chi guida percorra un sentiero che gli piaccia. Una cosa è dunque l’identità profonda della chiesa – essere un unico popolo che cammina insieme – altra è la consapevolezza che la chiesa ha di questa sua identità, perché da questa consapevolezza dipendono le prassi concrete che possono realizzare il camminare insieme ma anche impedirlo.

Dal discorso di papa Francesco (17 ottobre 2015) in occasione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi, l’indole sinodale della chiesa è stata continuamente richiamata e si è avviato un processo di sinodi (a cominciare da quello sulla famiglia) che ha cercato di tradurre in prassi tale rinnovata consapevolezza, fino alla promulgazione di una costituzione apostolica che si occupa proprio del Sinodo dei vescovi (Episcopalis communio) e fino ad un autorevole documento sul tema scritto dalla Commissione teologica internazionale. Pubblicazioni, convegni, seminari di studio si sono moltiplicati e anche nel vissuto delle chiese, nelle parole dei vescovi e dei presbiteri, come anche nell’attenzione della nostra gente si fa largo la parola sinodalità e si guarda ai sinodi come a dei luoghi in cui essa possa essere vissuta. Ma esattamente di che cosa si parla?».

In estrema sintesi il DNA della sinodalità consiste nell’esperienza – che la chiesa ha fatto fin dalla prima ora e ripetutamente – che il Signore si rende presente là dove due o tre si riuniscono nel suo nome. La presenza del Risorto è tangibile là dove i suoi discepoli si riuniscono spinti dallo Spirito, cioè dall’amore reciproco e dalla fede, e proprio in questo loro radunarsi in forza dello Spirito lui si mostra, parla, agisce. La prova più evidente di questa dinamica è proprio la celebrazione eucaristica: ciò che rende presente il Signore, ciò che ci permette di vederlo, ascoltarlo e mangiare di lui, è il nostro radunarsi per ascoltare insieme la sua parola e mangiare insieme il suo pane. Poiché, infatti, mangiamo un solo pane, noi siamo un unico corpo (così la prima lettera ai Corinzi) e questo è il corpo di Cristo, per cui è possibile vederlo e toccarlo nell’unità dei suoi che ne costituiscono le membra proprio mentre ne ripetono il gesto: spezzare l’unico pane e bere l’unico calice. La dinamica fondamentale dell’eucaristia che rende presente il Signore proprio nel radunarsi dei suoi che ne ripetono il gesto – sotto l’opera dello Spirito che li spinge nella carità l’uno verso l’altro e insieme verso tutti – si ripropone in ogni autentica esperienza ecclesiale: nella preghiera che accorda i cuori sulla volontà di Dio, nel servizio reciproco e condiviso, nella testimonianza del Vangelo che non è credibile se non a partire dalla vita fraterna e – arrivando così alla questione sinodale – nel discernimento e nella decisione di ciò che è da credere e da fare. La chiesa cioè per comprendere ciò che è secondo Dio, sia riguardo le cose da credere che riguardo le scelte pratiche da compiere, non ha altro modo che radunarsi e, sotto il dominio dello Spirito che spinge all’ascolto e alla stima reciproci, cercare ciò che permette di essere in unità: nel momento in cui, dentro queste dinamiche spirituali, si riesce a convenire su qualcosa, cioè a trovare l’accordo dei cuori, allora si può pensare che quanto si riesce a condividere sia secondo Dio, perché è proprio nell’unità ottenuta nella docilità allo Spirito che il Risorto viene reso presente (similmente a quanto vedevamo nell’eucaristia). I sinodi, quindi, non sono un luogo di incontro e confronto per dare qualche consiglio ai vescovi o ai presbiteri e non sono nemmeno uno spazio per fare esperienza di “comunione fraterna”, come non sono un “parlamento” (anche se ritengo inspiegabile il timore di tanti che la chiesa assuma modalità di governo democratico, mentre non abbiamo avuto troppe esitazioni nell’assumere le modalità assolutistiche imperiali che ancora in troppi difendono). Un sinodo è un radunarsi di credenti perché ciascuno e ciascuna – in questo contesto vescovi e presbiteri, come anche il papa sono in mezzo a tutti gli altri e le altre – possa ascoltare lo Spirito nell’ascoltare l’altro/a e possa offrire ciò che lo Spirito gli/ le suggerisce. Questo ascolto reciproco, dominato dalla stima e dalla parresia (schiettezza), è capace di condurre verso ciò che è vero e buono, verso ciò che lo Spirito dice alle chiese e che – con buona probabilità – sarà qualcosa di diverso da quello che pensavano tutti prima di radunarsi e dare l’avvio al processo.

Un sinodo non è dunque un’assemblea per confrontarsi né tanto meno uno strumento per aiutare chi ha responsabilità a chiarirsi le idee, si tratta invece di un processo spirituale in cui il coinvolgimento dei credenti e delle credenti deve essere ampio e autentico, sgombro di incomodi perché lo Spirito che dimora nei cuori di tutti possa agire, suggerire, smuovere, convertire e condurre là dove lui sa essere la vita. In un processo del genere non esistono persone più importanti di altre, perché lo Spirito potrebbe suggerire la verità più profonda al più giovane – come accadde a Daniele davanti alle accuse fatte all’innocente Susanna – o al più improbabile: come accadde a Gesù davanti alla donna cananea che mostrò al Signore che Dio non fa preferenza di persone, ma offre il suo pane a chiunque si avvicini. Per vivere tutto questo occorre comprendere e vivere la chiesa come una fraternità/sororità e darsi delle norme adeguate a tale comprensione, che facilitino le relazioni fraterne, il confronto e il processo di ascolto reciproco che solo può condurre all’unità e quindi a rendere presente il Signore. È una dinamica squisitamente spirituale, ma proprio in quanto tale occorre darle carne e per un’istituzione – quale la chiesa è – tale carne consiste in norme, istituti, procedure che permettano di vivere ciò che lo Spirito ci dona di sperimentare. Abbiamo le riflessioni e gli strumenti, abbiamo anche il desiderio di iniziare a condividere il cammino non solo a parole e nelle buone intenzioni, abbiamo anche un contesto culturale favorevole, speriamo davvero non ci manchi la fede che la chiesa ha sempre avuto e che il primo evangelista fissò così: dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro. 

Teologa, docente di Teologia sistematica all’Istituto teologico di Assisi, vicepresidente del Coordinamento teologhe italiane 

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