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Massimo Recalcati "Tra i banchi meno programmi più umanità"

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La Repubblica, lunedì 19 aprile 2021 

L’apertura definisce l’essenza della Scuola. Una “Scuola chiusa” è una contraddizione in termini. La vocazione di ogni Scuola è quella di rompere i muri, contrastare la segregazione, vincere l’analfabetismo in tutte le sue molteplici forme, aprire le menti, favorire una cultura dell’inclusione, fare esistere il trauma benefico della vita collettiva. La Scuola, da questo punto di vista, è sempre aperta. 

Ne abbiamo avuto testimonianza anche nel corso della cosiddetta Dad: la Scuola ha saputo restare aperta anche in un tempo nel quale l’emergenza sanitaria imponeva la sua chiusura. Ma adesso che la Scuola riapre anche fattualmente e i nostri figli tornano ad occupare i loro posti in aula assistiamo ad uno “strano” fenomeno. Predomina un senso profondo di precarietà (tra quanto torneranno a chiuderla?) e di depressione diffusa (studiare per cosa?). È un fatto diffuso e non trascurabile: diversi di loro vivono la riapertura più con angoscia che con sollievo. Il DSM ha formulato l’ipotesi del disturbo post-traumatico di adattamento per riferirsi alla difficoltà di reinserimento sociale dopo un evento (o una serie di eventi) particolarmente stressanti. È quello che accadde, per fare un esempio, ai reduci del Vietnam: come poter ritornare a vivere con fiducia i legami sociali? Come ristabilire la fiducia nell’altro dopo che l’altro è stato vissuto come minaccia di morte potenziale? Non è questa la stessa dinamica che si sta sviluppando di fronte alle perturbazioni emotive provocate dal Covid? 
Come ripristinare la prossimità e la relazione se la prossimità e la relazione sono state (e, tra l’altro, tali ancora restano) fattori di rischio di contagio? Molti ragazzi non vogliono tornare a Scuola e se tornano lo fanno trascinando con se stessi una profonda inquietudine. Come abbandonare una prigione che è divenuta il proprio rifugio? Riaprire i propri confini esterni ed interni non è una cosa semplice. Molto dipenderà da quale accoglienza la Scuola è disposta ad offrire ai nostri ragazzi. È difficile esigere un apprendimento adeguato quando le relazioni necessitano di essere ricostituite nel loro fondamento. È questo il tempo dove quello che più conta non può essere il raggiungimento dei cosiddetti obbiettivi didattici ma il ristabilimento della natura aperta della Scuola, del suo essere comunità. Si tratta innanzitutto di coltivare nuovamente la fiducia nella relazione tra insegnanti e allievi. Non ha alcun senso bombardare di verifiche i nostri figli quando questo anno scolastico, come quello precedente, è stato ed è ancora appeso ad un filo, quando chiusura e riapertura si sono alternate seguendo necessariamente il ritmo imprevedibile e destabilizzante dell’epidemia. 

Sta accadendo lo stesso in tutte le organizzazioni: la ricostruzione del tessuto relazionale è diventata la condizione basica per rendere possibile una ripartenza della stessa attività produttiva. Nessun tempo come il nostro ci ha insegnato che la relazione in qualunque organizzazione – Scuola compresa – non è un ornamento secondario rispetto al raggiungimento dei propri obbiettivi, ma la sua condizione di possibilità. Dunque, i docenti non farebbero torto alla loro professione se subordinassero la programmazione didattica al recupero del valore umano della relazione. È un mio accorato appello che rivolgo a loro e ai dirigenti scolastici: subordinate, vi prego, il rispetto dei programmi alla cura della relazione perché la didattica senza relazione non può esistere. Il presidente del Consiglio ha annunciato giustamente la necessità per il nostro Paese di percorrere la strada del debito. 

E perché questo non dovrebbe valere anche per la Scuola? Non bombardate, vi prego, i nostri ragazzi con verifiche a tappeto nel nome di un compimento formale dei programmi didattici. 

Quello che stanno vivendo non è un tempo perso, ma un tempo che potrebbe essere dedicato a ritessere i legami che costituiscono la vita comunitaria della Scuola; fare crescere lavori di gruppo, condivisione, sperimentazione, circolazione della parola, insomma un modo di praticare la didattica che tenga conto della situazione traumatica in cui siamo ancora immersi. Ma per fare questo si tratta di emanciparsi dal culto della produttività che ha schiacciato negli ultimi decenni la nostra Scuola sul paradigma efficientista dell’impresa. È l’occasione per ridimensionare profondamente questo paradigma che resta estraneo al fondamento umanistico della nostra Scuola. Non sarebbe meglio per un solo anno lasciare incompleti i programmi didattici per contribuire in modo decisivo ad evitare di identificare per sempre questa generazione con una generazione perduta, con una vittima irrecuperabile?
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