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Il secondo esodo e il desiderio di libertà

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Sui passi dell’Esodo
a cura di 

L’esperienza dell’uscita da un Paese per recarsi in un altro «dove scorre latte e miele» non è unica nella Bibbia ma si ripete, pur in situazioni diverse, con una solida costante: il desiderio della libertà! Il Paese da cui Israele esce, nel racconto del libro dell’Esodo, è, infatti, un Paese dove egli vive nei lacci della schiavitù, le cui maglie ogni giorno il Faraone rende più strette e insopportabili. Tale è l’intenzione del re: rendere odiosa la vita agli ebrei, così come la presenza degli stessi si era fatta odiosa per gli egiziani. Ma la schiavitù non coinvolge solo l’ambiente del lavoro – che per gli ebrei era atroce in quello “forzato” e finalizzato all’arricchimento dell’Egitto – o della regolamentazione delle nascite – per cui gli ebrei potevano solo allevare figlie femmine – ma è anche, e soprattutto, un clima, un’atmosfera, in cui si viene costretti ad ansimare: nell’aria viziata dell’odio, della discriminazione, dell’oppressione, della violenza, del disprezzo, di atti e parole tipiche di ogni regime. 

Gli schiavi vivono sempre nella paura della delazione, nel sospetto, nell’amarezza di non potersi fidare di nessuno fuori dalla porta della propria casa. Chi è schiavo è impedito a reclamare la giustizia, qualsiasi retta querela non è un diritto per lui. Il suo corpo e ogni sua risorsa materiale e morale, di braccia o di mente, sono colonizzati dai potenti che sfruttano a proprio uso e consumo i loro frutti. Lo schiavo non ha diritto di avere uno spazio per il proprio nome e i propri talenti che gli permetta di esserci per collaborare e, insieme agli altri, condividere felicità. Per tutte queste cose, la libertà è la prima “fame” per chi è schiavo e non la mera sopravvivenza. 

Nella storia biblica c’è dunque, anche un secondo esodo, dopo quello di Israele dall’Egitto. 
Dopo aver dimorato a lungo nella “terra promessa” data loro in dono da Dio, liberi dalla schiavitù, felici anche nei figli dei loro figli, gli ebrei sono ricaduti in un’altra forma di assoggettamento, questa volta non così dura come la prima ma lo stesso fonte di sofferenza e di tristezza: quello dei Babilonesi. E c’è un libro che racconta questa rinnovata esperienza che va sotto il nome di esilio. Più lieve ma più sottile e insidioso di quello egiziano perché preme sul cuore di Israele, sulla sua salute morale e spirituale, più che fisica. Ecco, allora, che a una nuova forma di schiavitù, occorre reagire con nuove forme di libertà, ancora tutte da scavare e da scoprire. 

“Fascinans et tremendum” è il canto del profeta Isaia: «Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò nel deserto una strada”». Il “secondo esodo” sarà più efficace del primo che, purtroppo, aveva visto morire tanti aspiranti alla libertà; quest’ultima è troppo cara per potervi mai rinunciare.
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