Emanuele Borsotti "Abitare la vita"
Dicembre Febbraio 2021
Abitare è una parola che deriva dal verbo habére che in latino vuol dire: trattenere, occuparsi, possedere e, come forma intensiva frequentativa, continuare ad
avere e quindi anche abitare in un luogo,
cioè avere una abitudine con quello spazio,
farsene quasi un abito, qualcosa che indossiamo e che aderisce radicalmente alla
nostra persona. L’uomo è un abitatore di
luoghi, di tempi, di storie, di memorie e
fa di tutto questo universo il suo habitat, il
suo abitare.
Il modo con cui noi uomini stiamo sulla
terra è l’abitare (Heidegger).
Bisogna però chiarire come abitiamo o
come dovremmo abitare. C’è un abitare
improprio che è uno sfiorare il paesaggio,
leggere i luoghi come un fondale della nostra vita, come un ambiente palcoscenico che ci resta estraneo, al quale noi non
aderiamo intimamente. Ѐ come se il paesaggio fosse un oggetto e noi un soggetto
ma senza una profonda relazione fra questi
due elementi. L’unico legame fra i due sarebbe una visione superficiale, un aspetto puramente visivo. Pensiamo alla nostra
società del selfie: oggi molte volte l’uomo
contemporaneo non vede neanche più ciò
che sta attraversando, ma frappone fra il
luogo e se stesso uno smarphone, un apparecchio fotografico e se va bene rivedrà
poi quel luogo nello scatto fatto. Quando
però noi scegliamo di fare un passo più in
profondità e non ci limitiamo allo sfiorare
turistico ecco che viviamo un’esperienza di
ancoraggio, cioè abbandoniamo l’esteriorità dello spettatore per entrare in un dialogo. Non si tratta, come diceva Barthes,
di limitarci a fotografare il mondo, ma si
tratta di rimanere, di percorrere tutta la
marezzatura dei luoghi, delle luci, dei momenti.
Questo ancorarsi al luogo è l’esperienza
che Cristo fa tante volte. In Marco 10,23
viene usata l’espressione: circumspicere
per indicare che Gesù guarda intorno, che
ha uno sguardo a 360 gradi ed è questo
sguardo che permette a Gesù di amare.
Guardarsi intorno è guardare anche dentro l’altro e fare il passo di uno sguardo che ama. Ecco allora l’invito a non fermarsi a
posare uno sguardo superficiale sui luoghi,
ma ad entrare in una relazione, ad essere
implicato dentro l’esperienza di quel luogo.
Ѐ l’esperienza pasquale di Cristo là dove,
in Giovanni, si dice che entra nel cenacolo, e “stette in mezzo”, in mezzo non solo
dell’ambiente, ma anche del ‘con’ e del
‘fra’ le persone. Ecco allora che
nel lasciarsi assorbire da un
ambiente e assorbire l’ambiente che ci ospita sta la
differenza tra la provvisorietà del turista in transito
e l’abitatore del luogo.
Se dunque non sfioriamo i luoghi, ma
li abitiamo veramente, dobbiamo confrontarci con l’esperienza di essere costruttori e ricostruttori. L’uomo abita
costruendo, costruisce per abitare, ma è
proprio perché l’uomo è un abitatore che
è in grado di costruire. Vivere è dunque
anche questo: costruire e ricostruire luoghi
e, attraverso la metafora del luogo, costruire e ricostruire l’esistenza di noi che
lo abitiamo. Partiamo da una suggestione
che ci viene dalla vecchia sapienza dell’imperatore Adriano - come immaginato dalla Yourcenar, nelle memorie di un grande
condottiero - che alla fine della vita fa un
bilancio e conclude dicendo: “Io ho costruito e ricostruito”. Costruire come sinonimo di collaborare con la terra, di “lavorare
con” e “faticare con” perché
labor in latino vuol dire innanzitutto fatica, quindi
lavoro. Collaborare con la
terra è imprimere il segno
dell’uomo in un paesaggio
che quindi ne resterà modificato per sempre. E in questo modo contribuiamo a una lenta trasformazione che
è la vita delle città, degli edifici, dei nostri
spazi vitali. E poi costruire è anche opera
di ricostruzione perché bisogna fare i conti
con la labilità delle cose e con il tempo,
grande scultore, ma anche grande distruttore. Quindi ricostruire è collaborare con
il tempo, con il passato, se ne coglie lo spirito, lo si modifica, lo si conserva e gli
si imprime un movimento propulsivo cercando di farlo arrivare verso l’avvenire. Ricostruire significa scoprire sotto le pietre il
segreto delle sorgenti, l’esperienza sorgiva
della vita. Quindi costruire è principalmente un atto di speranza: è dare forma
al presente, plasmare la materia, dare una
direzione alla vita e sporgerla verso l’avvenire, verso il durevole, verso quello che è
il lascito ereditario. Sempre dalla Yourcenar, Adriano dice: “Ogni edificio sorgeva
sulla pianta di un sogno”. Le cose sono
sempre costruende, sempre da costruire,
sempre da riedificare. Allo stesso modo la
nostra umanità, la nostra vita interiore, le
nostre profondità spirituali come i nostri
legami affettivi sono sempre incompiuti e quindi in costruzione
continua. Costruire come
speranza e ricostruire come
forma architettonica della
consolazione è questa l’idea che ci viene dalla Scrittura,
dall’AT e dagli scritti profetici.
Sono testi nei quali il verbo
ricostruire e il verbo consolare vengono
coniugati in parallelo e i paralleli sinonimici dell’ebraico ci dicono appunto che
c’è una profonda osmosi fra le due cose.
Ricostruire un edificio, ricostruirsi una vita
dopo una frattura significa fare un’opera
di architettura della consolazione. Ѐ l’esperienza di Israele dopo l’esilio, dopo la
distruzione di Gerusalemme quando il
Signore consola ricostruendola dalle sue
rovine, riaprendo un giardino là dove c’era solo un deserto. Questo induce in un
canto di gioia. E ancora possiamo dire che
la costruzione è un’opera di incontro. Costruire significa incontrare. Quando l’uomo costruisce lo fa a partire da un numero
di elementi architettonici basilari limitati.
La novità sta nel numero infinito di combinazioni di questi elementi di base e questo crea l’unicità. Unicità dell’incontro tra
l’uomo e un luogo e unicità dell’incontro
fra gli uomini all’interno di questo luogo.
E anche nell’incontro tra la mia vita e gli
incidenti dell’esistenza perché la vita è anche costruire nonostante gli incidenti, accettando anche un cambio di angolatura
che ci porta ad aprire vie nuove.
Le mie città nascono da incontri, dagli incontri dell’uomo con un angolo della terra
- imperatore Adriano.
Quando io mi rapporto con uno spazio
mi sto sostanzialmente rapportando con
del non-umano e paradossalmente il non
umano del luogo (vegetale, minerale) riesce a far vibrare le
corde dell’umano e tocca
il mio intimo. Ѐ il paradosso
di un uomo che si umanizza anche in virtù di quel non
umano. Sempre che si accetti
di compiere l’esercizio dell’attenzione. “L’attenzione è l’apertura dell’essere umano a ciò che lo
circonda, un’attenzione non solo ad extra,
ma anche ad intra rivolta verso ciò che è
in noi” (Zambrano). Attenzione deriva dal
verbo tendere quindi significa slanciarsi
verso, avere una direzione, voler procedere verso. Ma questa esperienza dell’abitare luoghi concreti, fisici, palpabili diventa
sempre porta verso qualcosa che supera la
fisicità del luogo. Quando Giovanni dice:
“Il vento soffia dove vuole, ne senti la
voce, ma non sai né da dove viene né dove
va” ci fa anche capire che, per esempio
attraverso lo stormire delle fronde, quel
luogo vegetale diventa il luogo di un’esperienza fisica dell’impalpabile. L’esperienza
dell’intangibile del vento mi si dà grazie al
luogo vegetale che si muove in virtù di quel passaggio. L’impalpabile diventa presenza.
(lo stesso si potrebbe dire di un altro impalpabile: la luce). L’esperienza della vita
spirituale, ma anche gli affetti, gli amori,
i dolori…funzionano come il
vento, come la luce. L’uomo
fa l’esperienza che qualcosa dell’ordine dello
spirituale si sprigiona a partire da ciò che
è fisico. Allora la frattura fra il fisico e lo
spirituale in certi momenti viene meno e i
luoghi diventano dei legami.
In Giovanni 1,14 si legge: “Il mistero di Dio
in Cristo è mistero di un Dio, di una Parola che viene ad abitare in mezzo a noi”.
“Maestro dove abiti”? e Gesù: “Venite e
vedete” e i discepoli fanno un’esperienza.
Questa esperienza principale che l’uomo
fa dell’abitare si radica in una prima abitazione, che è l’abitazione nel corpo. Il corpo nostra prima abitazione. L’uomo è un
corpo abitante e abitato. Il nostro corpo
abita innanzitutto nel corpo di una donna,
noi veniamo al mondo come abitanti e usciti da quella prima casa incominciamo
ad abitare nel mondo esterno, a coabitare con gli altri. E poi l’uomo abita il corpo
dell’altro; l’esperienza dell’amore fisico
della coppia è l’esperienza dell’abitare realmente le profondità del corpo
dell’altro. Questo avviene anche nell’esperienza
della fede quando nella comunione il mio corpo diventa l’abitazione del
corpo di Dio, e il corpo di Dio che abita
nel corpo dell’uomo crea il corpo della chiesa. Noi mangiamo ciò che siamo,
noi mangiamo quel corpo che stiamo diventando. Se questo è vero allora l’uomo
è il primo luogo per l’altro uomo. Prima
di trovare luoghi fisici che lo ospitano, il
cucciolo dell’uomo che viene al mondo
trova il suo primo luogo in un altro. Per il
bambino la figura genitoriale rappresenta
il luogo primario, il suo primo orizzonte è
lo sguardo della madre che si china sulla
culla. Quando poi diventa grande, si stacca dal luogo- corpo- materno e incomincia ad abitare i luoghi fisici dello spazio. E
allora ci affidiamo alla sintesi fulminea di
S. Agostino: “Amando, noi abitiamo con
il cuore” cioè noi abitiamo con il cuore là
dove si trovano i nostri affetti e tradotto
in un altro modo: dove è il nostro amore,
il nostro cuore, là noi abitiamo. Abitare un
luogo implica sempre delle scelte e chiede
anche di lasciarsi istruire dall’alterità del
luogo, lasciarsi educare dagli spazi in cui si
abita.
L’uomo come può abitare i luoghi? L’uomo abita la terra con merito perché fa
tante cose, ma bisogna aggiungere al merito delle cose che si fanno quella postura
poetica dell’abitare che Holderlin e altre
personalità del mondo della cultura hanno
così sintetizzato: “abitare poeticamente”.
Poeticamente ci rimanda al verbo poiein
che significa fare, abitare facendo e facendoci. Poetare significa aiutare noi stessi e
gli altri ad abitare la vita. Questa azione
dell’abitare poeticamente è per Holderlin
l’azione del misurare la distanza tra cielo
e terra. Noi abitiamo quando siamo capaci di custodire questa nostra duplice appartenenza alla terra sulla quale appoggiamo i piedi e al cielo verso il quale
protendiamo il capo. La grande sfida è vivere in una duplice dimensione: chi impara
ad avere una consuetudine buona, armonica con i luoghi fisici può ritrovarsi alla
scuola preziosa dove imparare ad abitare
amorevolmente, poeticamente se stesso;
chi sa abitare se stesso, i suoi spazi interiori è capace di abitare amorevolmente,
poeticamente i luoghi esterni. Ma questa
è un’arte che si apprende nel tempo, con
fatica e con pazienza. Con il coraggio di
osare l’originalità di ciascuno.