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Monastero di Bose "L'amore che ci strappa alla morte"

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5 aprile 2020 
Domenica delle palme 
Passione del Signore

Qui pati pro ímpiis dignátus est ínnocens,
et pro scelerátis indébite condemnári.
Cuius mors delícta nostra detérsit,
et iustificatiónem nobis resurréctio comparávit.

Il Cristo, che era senza peccato,
accettò la passione per noi peccatori
e, consegnandosi a un’ingiusta condanna,
portò il peso dei nostri peccati.
Con la sua morte lavò le nostre colpe
e con la sua risurrezione ci acquistò la salvezza.

Messale romano, Prefazio per la domenica delle Palme

L’antica tradizione romana, attestata dai sermoni di papa Leone Magno, conosceva la lettura della passione del Signore fin dalla domenica precedente la Pasqua, la nostra domenica delle Palme. In questa domenica, nel mercoledì e nel venerdì della Settimana santa erano letti i testi dei capitoli 26-27 del Vangelo di Matteo, 22-23 di Luca e 18-19 di Giovanni. Solo molto più tardi fu introdotta a Roma la processione delle Palme, che la chiesa di Gerusalemme celebrava già nel IV secolo, quando aveva cominciato a rivivere liturgicamente gli eventi della vita di Gesù, secondo l’ordine cronologico e nei luoghi in cui si erano svolti.

Il Vangelo di Giovanni precisa il quadro temporale. “Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania” (Gv 12,1) e lì, nella casa di Lazzaro, Maria unse i suoi piedi con un nardo prezioso. Gesù collega questo gesto alla sua morte: il nardo non va venduto, è bene che Maria “lo conservi per il giorno della mia sepoltura” (Gv 12,7).

Il giorno seguente avviene l’ingresso in Gerusalemme: ingresso trionfale, certo, ma segnato dalla presenza della morte. La figura di Lazzaro, colui che Gesù aveva risuscitato dai morti, ritorna insistentemente con la sua doppia valenza (morte-resurrezione) e incornicia il racconto dell’ingresso in Gerusalemme (cf. Gv 12,1.2.9.10.17). Questo quadro è proprio a Giovanni, ma in tutti i vangeli ritroviamo il legame tra l’entrata in Gerusalemme di Gesù, la sua condanna e la sua morte.

La liturgia di Gerusalemme mantenne la pluralità di significati dei testi e sottolineò il loro legame con i luoghi: proclamazione della regalità di Gesù, acclamazione del Veniente, ingresso nella grande Settimana della Pasqua, ingresso nella Terra promessa (suggerito dal nome di Betania che rimanda al luogo del battesimo al di là del Giordano in Gv 1,28 e 10,40), annuncio dell’ingresso escatologico nel Regno (l’ascensione di Gesù al cielo è posta da Luca sul Monte degli ulivi e proprio dal luogo che ne faceva memoria partiva la processione delle Palme).

Il Veniente, colui che fa il suo ingresso nella città santa, è colui che è venuto nel mondo per fare la volontà del Padre (cf. Eb 10,5.7.9), che “verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi” (Mc 8,38), che viene nella vita della chiesa in ogni celebrazione eucaristica, in cui associa i credenti e l’umanità al mistero della sua morte e resurrezione: “Santo, santo, santo! Benedetto colui che viene!”, proclamano i cristiani di ogni tradizione prima dell’anafora eucaristica.

“Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna”, ricorda la Lettera agli Ebrei (9,11-12). A questa luce possiamo leggere il prefazio odierno.

Questo prefazio compare nel Sacramentario Gregoriano per il mercoledì dopo le Palme, come pure nella tradizione mozarabica, in quella gallicana e in quella ambrosiana. In questi testi si legge: Qui innocens pro impii voluit pati. Questa è l’unica differenza.

Il linguaggio di questo prefazio è abbastanza difficile per noi oggi e infatti tutte le traduzioni nelle lingue moderne l’hanno reso con una certa libertà. Il testo latino rimanda in modo preciso a Isaia 53 (impii: Is 53,9, sceleratis: Is 53,12) e alla Lettera ai Romani (delicta e iustificationem: Rm 4,25 e 5,16; inoltre in Rm 4,24 ricorre la formula suscitavit a mortuis, che si può mettere in parallelo con la coppia di termini mors e resurrectio del nostro prefazio). Il testo liturgico va perciò letto alla luce della figura del servo del Signore di Isaia 53 e del discorso di Paolo nei capitoli 4-5 ai Romani sulla giustificazione per fede, sull’“abbondanza della grazia e del dono della giustizia per mezzo di Gesù Cristo” (Rm 5,17).

Una rilevanza particolare ha nel nostro testo il tema della volontà. Voluit pati, dicevano i prefazi antichi, pati dignatus est, dice il nostro: c’è una volontà di Cristo, un suo accondiscendere che va compreso bene.

L’unico testo evangelico che esplicita la volontà di Gesù e del Padre è il passo di Giovanni 6,38-40: “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato … Questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno”. La volontà di Dio è che l’uomo abbia la vita eterna, la volontà di Gesù è strappare l’uomo alla morte. È per questa salvezza, per la nostra salvezza decretata dall'abbondanza della grazia divina, che Gesù è venuto e, guardando a questo fine, ha accondisceso al dolore della nostra morte. Nel dibattito sulla volontà umana di Cristo che lacerò la chiesa del VII secolo, Massimo il Confessore, riferendosi all’agonia del Getsemani, scrive: “Divenuto per noi come noi, diceva in modo umano a Dio e Padre: ‘Non si attui la mia, ma la tua volontà’, poiché egli, che è per natura Dio, anche come uomo aveva come volontà l’adempimento della volontà del Padre … Egli si rivela come colui che vuole e opera la nostra salvezza: da un lato acconsentendo a questa insieme con il Padre e con lo Spirito, dall’altro facendosi obbediente per questa al Padre fino alla morte e alla morte di croce e realizzando lui stesso, mediante il mistero dell’incarnazione, il grande piano di salvezza per noi” (Opuscoli 6). Come uomo, Gesù ha desiderato e voluto la salvezza dell’umanità, la stessa salvezza che Dio voleva. In se stesso ha reso la volontà umana capace di desiderare liberamente ciò che Dio Padre desidera. Recuperando questa libertà, l’uomo è giustificato, reso giusto, strappato alla morte.

Scriveva Bernardo: “Così come è detto: ‘Se non crederete non comprenderete’, si può ugualmente senza errore dire: se non desidererete, non amerete perfettamente” (Lettere 18). L’amore che vince la morte, l’amore libero è insieme un dono di grazia e il frutto di un desiderio esercitato, provato nella tentazione, trasfigurato nell’ascolto e nella comprensione del mistero di Dio.

Fonte: Monastero di Bose
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