Enzo Bianchi "Sommesso elogio della vecchiaia"
di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose
In questi giorni del propagarsi del coronavirus non è consolante per gli anziani ascoltare i martellanti bollettini che insistono sul fatto che i morti erano, per l’appunto, vecchi, per di più segnati da alcune patologie. Gli anziani reagiscono a questi annunci con fastidio, più che con paura, perché si sentono interpellati ancora una volta per ragioni mediche, demografiche ed economiche.
Non ci si rivolge invece ad essi come a uomini e donne tuttora presenti tra di noi, che vorrebbero aggiungere vita ai loro giorni sempre più precari.
L’esistenza umana è sempre stata scandita in alcune precise stagioni, le cosiddette tappe della vita: infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia. Ebbene, oggi nel nostro Occidente la vecchiaia non è solo un dato biologico ma è una stagione resa più pesante da ragioni culturali. I vecchi sono improduttivi e, di conseguenza, sono percepiti come persone dalla scarsa rilevanza sociale. Il più delle volte sono ritenuti insignificanti, privati anche della parola, perché da loro non si vuole ascoltare più nulla. Nel peggiore dei casi, sono addirittura abbandonati.
Dobbiamo forse affermare che si invecchia solo per morire? Al contrario, non è forse la vecchiaia anche il tempo necessario per compiere la vita, per comprenderla e leggerla nel suo dipanarsi come un tappeto, dunque per scoprire e conoscere meglio se stessi? Non è la vecchiaia il tempo per mostrare, attraverso le rughe del volto, un’anamnesi di ciò che abbiamo vissuto? Con grande intelligenza e ottimo senso dell’umorismo James Hillman affermava che «la chirurgia estetica è un crimine contro l’umanità», perché vuole cancellare le tracce dell’umanizzazione, la memoria della fatica, del dolore, della gioia e dell’amore che si sono vissuti nel volgere dei giorni e delle stagioni.
Proprio la vecchiaia può essere la stagione più propizia all’amore, non più nel senso di un eros travolgente, ma in quello di un amore che va in profondità e insegna ad affrontare con consapevolezza la lotta contro la morte. Lotta che racchiude in sé una serie di battaglie da affrontare nell’ultima stagione della vita: contro il cinismo, contro la rinuncia alla passione e allo stupore… E ancora, la battaglia per evitare lo spegnersi della gratuità, del "disinteresse", del primato del vivere e dell’essere sull’avere e sul fare.
Mi diceva un uomo che nel secondo dopoguerra aveva fatto diversi mestieri per sopravvivere, lui e la sua famiglia: «Nella vita occorre inventarsi tanti mestieri. Ma soprattutto, se campi, occorre inventarsi la vecchiaia, che non può essere il mestiere di morire».
Per questo in Grecia i vecchi vengono chiamati kalógheroi, "begli anziani", e durante la festa con cui contano gli anni della vecchiaia si canta loro: «Che tu sia saggio, sapiente, così vivrai a lungo!».
Non ci si rivolge invece ad essi come a uomini e donne tuttora presenti tra di noi, che vorrebbero aggiungere vita ai loro giorni sempre più precari.
L’esistenza umana è sempre stata scandita in alcune precise stagioni, le cosiddette tappe della vita: infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia. Ebbene, oggi nel nostro Occidente la vecchiaia non è solo un dato biologico ma è una stagione resa più pesante da ragioni culturali. I vecchi sono improduttivi e, di conseguenza, sono percepiti come persone dalla scarsa rilevanza sociale. Il più delle volte sono ritenuti insignificanti, privati anche della parola, perché da loro non si vuole ascoltare più nulla. Nel peggiore dei casi, sono addirittura abbandonati.
Dobbiamo forse affermare che si invecchia solo per morire? Al contrario, non è forse la vecchiaia anche il tempo necessario per compiere la vita, per comprenderla e leggerla nel suo dipanarsi come un tappeto, dunque per scoprire e conoscere meglio se stessi? Non è la vecchiaia il tempo per mostrare, attraverso le rughe del volto, un’anamnesi di ciò che abbiamo vissuto? Con grande intelligenza e ottimo senso dell’umorismo James Hillman affermava che «la chirurgia estetica è un crimine contro l’umanità», perché vuole cancellare le tracce dell’umanizzazione, la memoria della fatica, del dolore, della gioia e dell’amore che si sono vissuti nel volgere dei giorni e delle stagioni.
Proprio la vecchiaia può essere la stagione più propizia all’amore, non più nel senso di un eros travolgente, ma in quello di un amore che va in profondità e insegna ad affrontare con consapevolezza la lotta contro la morte. Lotta che racchiude in sé una serie di battaglie da affrontare nell’ultima stagione della vita: contro il cinismo, contro la rinuncia alla passione e allo stupore… E ancora, la battaglia per evitare lo spegnersi della gratuità, del "disinteresse", del primato del vivere e dell’essere sull’avere e sul fare.
Mi diceva un uomo che nel secondo dopoguerra aveva fatto diversi mestieri per sopravvivere, lui e la sua famiglia: «Nella vita occorre inventarsi tanti mestieri. Ma soprattutto, se campi, occorre inventarsi la vecchiaia, che non può essere il mestiere di morire».
Per questo in Grecia i vecchi vengono chiamati kalógheroi, "begli anziani", e durante la festa con cui contano gli anni della vecchiaia si canta loro: «Che tu sia saggio, sapiente, così vivrai a lungo!».