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Maria dell'orto La libertà e l’intelligenza di Gesù verso tutti e tutte

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👉 MARSALA, 5 maggio 2017 
Maria dell’orto (Monastero di Bose) 👈

La libertà e l’intelligenza di Gesù verso tutti e tutte.

Alcune premesse indispensabili.

Non sono né una studiosa né un’intellettuale. Non un’esegeta né tanto meno una teologa. Non sono qui ad altro titolo che come donna che, volendo essere discepola di Gesù e vivendo la vita monastica, pratica una frequentazione assidua delle Scritture tutte e in particolare del Vangelo.

Ciò di cui desidero parlare è l’intelligenza e la libertà di Gesù, che emergono con tanta forza dai Vangeli, e che tanto ci stupiscono e ci affascinano.

Ancora di più di quanto fosse buono, mite, compassionevole e giusto, Gesù era intelligente, e libero. Non capisco perché non sia mai stato detto che era l’uomo più intelligente del mondo. Forse perché nella chiesa c’è stata spesso una certa diffidenza verso l’intelligenza, come se non fosse un dono dello Spirito santo ma una sua concorrente, come se fosse l’anticamera della disobbedienza all’autorità. Mentre l’intelligenza e la libertà sono proprio ciò che è indispensabile a un’obbedienza evangelica e dunque umana a tutti e a tutto, compresa l’autorità. E così, non ci si sofferma normalmente ad ammirare e a cercare di comprendere umanamente le sue parole. Così spesso ci sono state trasmesse come un messaggio pio, o altruista, o eroico e, soprattutto, come un messaggio religioso. Mentre Gesù dai Vangeli ci appare proprio come l’uomo meno “religioso” e il più umano che ci sia, il più libero dalla propria tradizione religiosa e culturale, uno che non fa mai nulla solo perché si è sempre fatto così! E poi, e questa è la libertà più importante, è libero dalla preoccupazione per se stesso.

Gesù non è venuto tra noi per indicare una via ideale per i migliori; dice infatti: ”Non sono venuto per i sani ma per i malati, non per i giusti ma per i peccatori”. Gesù, conoscendo la povertà della vita e le sue angustie, e sapendo che, almeno per i poveri, la vita è una povera e faticosissima cosa, in tutto ciò che dice e fa ci traccia un sentiero perché possiamo imparare a vivere nella libertà e nell’amore nonostante tutte le avversità che ci vengono da fuori e da dentro il cuore. Ogni parola di Gesù è una parola di libertà, che apre un sentiero – stretta è la strada come stretta è la porta - di libertà dalle nostre intime schiavitù e angustie, per poter vivere nell’amore le angustie che ci vengono da fuori di noi.

I Vangeli ci mostrano in molti episodi la libertà di Gesù: libertà dalla famiglia, dai legami e tradizioni e abitudini famigliari, e dalle abitudini e tradizioni e pregiudizi religiosi; le due appartenenze più forti al suo tempo, e forse ancora al nostro. Libertà che vive lui in prima persona e alla quale chiama anche noi.

Nei confronti della sua tradizione religiosa, Gesù non ha rigettato né lasciato cadere la Torà, la legge di Mosè, né il suo popolo Israele. Gesù ha lasciato cadere solo il Tempio, lo spazio sacro, perché escludeva. E ha detto “Voglio misericordia e non sacrifici” facendo sua la parola che Dio aveva detto per bocca del profeta Osea, e quella che aveva detta per bocca di Geremia: ” Io non ho parlato affatto di sacrifici quando vi feci uscire dall’Egitto, ma vi ho comandato di ascoltare la mia voce”. Per Gesù i sacrifici narrano un Dio religioso, cioè un Dio che esige offerte dagli umani, un dio divoratore e non donatore, mentre Gesù ci racconta di un Dio che ci ha donato il mondo perché lo condividiamo, un Dio tre volte misericordioso, compassionevole, amico degli esseri umani, che ci chiama tutti e tutte alla comunione con lui per insegnarci a vivere nell’amore e nella libertà. Già nel roveto ardente, che Gesù citerà a proposito della resurrezione, Mosè aveva ricevuto la meravigliosa rivelazione di un Dio che abita nella creatura senza affatto consumarla; c’era già lì la smentita dell’immagine di un fuoco divino divoratore; Shekinà è il nome ebraico della mite e umile presenza di Dio in noi e tra di noi.

E Gesù ha anche ridimensionato l’importanza della famiglia, perché anch’essa esclude quelli fuori, e spesso imprigionando quelli dentro.

Gesù non ha riconosciuto come pensiero di Dio, e dunque ha lasciato cadere, ha escluso, solo l’esclusione, e tutto ciò che era occasione di esclusione. Questa è la cosa meravigliosa che emerge a ogni passo nei Vangeli: Gesù non ha riconosciuto come intenzione e pensiero di Dio l’esclusione di nessuno e di nessuna. Basterebbe questa verità di Gesù a renderlo amabile al di sopra di tutto e di tutti per chi soffre esclusione, come tutte le persone troppo povere o schiave, come i malati, i pubblici peccatori, i ciechi e “indemoniati” – erano chiamati così i malati psichici o neurologici – e le donne, sempre escluse in molti modi.

C’è dunque la sua libertà dalla famiglia e dalle sue pretese “tradizionali”.

Pensiamo all’episodio di Mc 3.34-35, in cui la madre di Gesù e i suoi fratelli vanno a trovarlo mentre sta predicando attorniato da discepoli e discepole e dalla folla. Poiché non riescono a raggiungerlo, gli mandano a dire: ”Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti”. Gesù, girando lo sguardo attorno, risponde: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è per me fratello, sorella e madre.”

O quel passo, meraviglioso, di Lc 11,27-28 al quale si pensa troppo poco. Una donna nella folla, affascinata dall’autorevolezza di Gesù, dal suo potere sui demoni e dalla sua sapienza, esprime con entusiasmo la sua gioia e il suo riconoscimento di lui nell’unico modo insegnato all’immaginazione di una donna: “Beata colei che ti ha portato nel grembo, e le mammelle che ti hanno allattato!”, non riuscendo a immaginare con quell’uomo di Dio altra relazione possibile di beatitudine che quella materna.

E Gesù si dimostra straordinario dicendole: No! Non hai nessun bisogno di essere madre, mia madre, per essere beata. Ti basta ascoltare la parola di Dio che io racconto e che vivo. Ascoltare la parola di Dio e osservarla, metterla in pratica, viverla: ecco la beatitudine di una donna. Proprio come per un uomo. Per discepoli e discepole, la beatitudine è la stessa: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano”. Nessuno mai se non Gesù disse così a una donna, facendo capire, a lei e a noi, la possibilità di non essere, per forza, in una relazione famigliare di moglie e di madre, perché ciò che fa di noi delle donne di Dio è ascoltare e praticare la sua parola. Questa parola fonda la libertà delle discepole di Gesù dall’unico ruolo concesso a loro su questo pianeta, la maternità: non è obbligatorio, e non è l’unico!- dice Gesù.

Già nell’episodio della Visitazione – quel racconto simbolico pieno di echi della Scrittura e di anticipazioni evangeliche – Maria, la madre di Gesù, è dichiarata beata per aver ascoltato e creduto alla parola del Signore, e non per esserne diventata la madre. La maternità di Maria è il frutto e l’eloquenza del suo ascolto pieno di fede della Parola e dello Spirito del Signore. Ma la beatitudine le viene dalla parola ascoltata e creduta di tutto corpo e spirito e anima. La maternità è una grande eloquenza, straordinaria e ordinaria al contempo, di una discepola, non la prima e sola felicità, non l’obbligato destino. Il Vangelo è davvero beatitudine, almeno per le donne.
Basterebbe riflettere sull’impressione che suscita ancora oggi Gesù quando, nel Vangelo, si rivolge a sua madre chiamandola donna, e non madre: sembra una riduzione umiliante! Un misconoscimento difficilmente scusabile in Gesù! Mentre per Gesù donna significa molto di più: non è madre e basta!

Come abbiamo già visto in Mc 3.34-35, la sua famiglia, per Gesù nella sua vita adulta, non ha nessun peso, autorità, vincolo. E Gesù non si fa neppure una nuova famiglia. Egli sceglie per sé – cioè riconosce come vocazione - un altro modo di vivere, del tutto inusuale nella sua tradizione religiosa. Sceglie la vita comune fraterna, itinerante, con discepoli e discepole. Inventa la comunità. Gesù si è completamente sottratto a usi, costumi e frequentazioni famigliari, come già il suo amico e maestro Giovanni B., ma con due differenze: non nel deserto ma nella campagna per incontrare le persone nella vita quotidiana, e non vestito in modo diverso dagli altri, cioè non identificato e identificabile se non nell’incontro e nell’ascolto.

Questi brevi cenni ci hanno mostrato che nel suo vivere, parlare e incontrare, Gesù relativizza il primato della famiglia. Per lui la famiglia non è più l’unico e obbligato istituto di fedeltà a Dio, l’indispensabile luogo per la trasmissione della fede, della terra e dell’appartenenza a Israele, cioè dell’elezione di generazione in generazione. Perché Gesù è venuto a chiamare proprio quelli che erano esclusi da quella trasmissione di salvezza tramite la famiglia e il Tempio: a cominciare da lebbrosi, ciechi, malati, pubblici peccatori, stranieri, e le donne per molti aspetti. In questo modo ha fatto sì che anche tutti gli esclusi da Israele e dal Tempio perché impuri, avessero accesso alla Promessa e alla Parola di Dio. Anche il fatto che, in Mc 10.19, Gesù metta il 4° comandamento – Onora il padre e la madre - all’ultimo posto nell’elenco dei comandamenti, concorre a dire come Gesù ridimensioni il primato della famiglia. Quando Gesù dirà che c’è un solo Padre e che tutti siamo fratelli (e sorelle), inventa la comunità fraterna, e non una grande famiglia, una cosa veramente nuova.

E ascoltando tutte le sue parole e i suoi rimproveri sull’ipocrisia religiosa, sul vizio di voler apparire giusti e pii davanti agli altri, il suo martellante mettere in guardia discepoli e discepole da se stessi, capiamo che Gesù ci mette in guardia sempre e solo da noi stessi e dagli uomini religiosi, soprattutto da quello che ci abita! Solo da chi ha ambizioni religiose: “Guardatevi dai falsi profeti, da quelli che vengono dicendo:” Sono io.” Da quelli che agiscono solo per farsi vedere, per esporre, e imporre, la loro immagine davanti agli uomini. Anzi, Gesù dirà che dovremo dire di no a costoro(Mt 24.23-25).

Ma la libertà più grande è quella da se stessi. La libertà evangelica, la sua, che Gesù vive e alla quale ci chiama, è la libertà di chi non si dà pensiero di se stesso, della propria vita, e la cui sorgente è la fiducia nel Padre che è nei cieli. Solo così, solo grazie a questa libertà da se stesso Gesù è attento alla presenza e alle necessità altrui. La sua libertà da sé stesso la vediamo nel suo essere sempre vigile e attento a chi ha intorno, e a chi gli viene incontro. L’attenzione alla realtà umana e non umana -cioè alla creazione tutta- è frutto del suo non essere distratto e preoccupato di se stesso.

E anche se in Gesù la libertà e l’intelligenza naturalmente, come in ognuno di noi, sono sempre unite, cerco ora di sottolineare i luoghi in cui emerge con più forza, e più stupore per noi, la sua meravigliosa intelligenza. Che è poi solo sottolineare il suo insegnamento evangelico sulla vita.

Prima tra tutte, l’intelligenza che Gesù ha delle Scritture sante d’Israele. Gesù ascoltandole e leggendole, va sempre in profondità a cercarvi l’intenzione di Dio, la luce che Dio ci ha messo dentro nella sua compassione per noi, e il suo desiderio di noi, di chiamarci alla libertà per vivere nella comunione con lui. Gesù capisce e accoglie l’intenzione del Signore Dio che pervade tutte le Scritture, e vuole obbedire e compiere questo desiderio, questa supplica di Dio: di portare liberazione, luce e consolazione innanzitutto ai poveri tutti e tutte. Questo il primato che Gesù scopre nelle Scritture e che fa suo, che invera nella sua vita e predicazione: esaudire la supplica di Dio. E questa è la supplica di Dio nelle Scritture: che ascoltiamo la sua parola, che non restiamo preda degli idoli muti i quali, al contrario del vero Dio, sempre acconsentono alla nostra violenza e ingiustizia; che accogliamo gli stranieri, che provvediamo ai poveri, agli orfani e alle vedove, ai malati; che non ci lasciamo corrompere dal guadagno per acconsentire all’ingiustizia; che non facciamo ingiustizia né umiliazione ad alcuno e ad alcuna, neppure al nemico, lottando contro gli idoli che ci rendono ingiusti e anche stupidi.

E Gesù, nei vangeli di Matteo e di Luca, inizia la sua predicazione ai discepoli e alla folla col discorso della montagna, che si apre con le beatitudini. Gesù si rivolge ai poveri che soffrono sempre tante diverse situazioni di afflizione, e li dichiara beati rivelando che il Regno di Dio appartiene già a loro; cioè che non solo la loro povertà non è il segno e la prova che Dio li ha dimenticati, ma anzi, che è innanzitutto per loro il suo Regno che si è avvicinato loro adesso nella persona di Gesù. Non dimentichiamo che Gesù, per insegnarci a vedere la dignità di ogni persona povera e piccola, a noi che, invece di inchinarci davanti alla piccolezza e povertà la fuggiamo, inventerà quella parola, quella scusa meravigliosa: ”Non sapete che i loro angeli guardano sempre la faccia di Dio?” E questo, oltre a dire l’obbedienza di Gesù al cuore delle Scritture, dice la sua intelligenza umanissima. Gesù è un uomo attento e consapevole, e sa che il patire è la prima cosa nella vita degli umani, e ancor di più nella vita dei poveri e delle povere che non hanno nulla con cui ottundere il dolore, nasconderselo, consolarsene. Gesù vuole consolare innanzitutto, ma anche insegnare a vivere le povertà e le ingiustizie della vita in un modo evangelico, che è poi il suo modo di vivere e di morire, un modo che diventa benedizione per se stessi e per il mondo.

Gesù inizia con la lezione più grande: beati i miti, beati i pacificatori, gli affamati e assetati di giustizia. Beati coloro che hanno capito che del male ricevuto non ci ripaga affatto il male che facciamo per vendicarcene e scaricarcelo di dosso, beati coloro che hanno capito che vendicarsi moltiplica soltanto il nostro dolore spargendolo sugli altri e rendendolo eterno per noi. Gesù non giustifica in nulla il dolore e l’ingiustizia subìta, mai; anzi, ci vieta in radice già nel nostro cuore ogni ingiustizia e violenza sul nascere, prima che si mostri e divenga offesa al prossimo. Ma è proprio qui che vediamo la sua intelligenza umana e spirituale: per esperienza Gesù sa che è possibile restare in comunione con gli altri e con Dio anche soffrendo ingiustamente, mentre non è possibile facendo il male. Dunque, se non c’è altra alternativa, è meglio soffrirla l’ingiustizia piuttosto che farla. Gesù non parla mai del male in generale, ma del male fatto, e di quello subìto. Come i profeti, Gesù sa dire male del male agito, sa denunciarlo. Ma dichiara beati coloro che sapranno non ripagare con il male, il male ricevuto, perché costoro non aggiungeranno dolore a dolore per gli altri e per se stessi: questo è l’unico dolore che possiamo risparmiarci, a noi e agli altri! Solo l’amore, dato e ricevuto, ci può consolare del male ricevuto, mai il renderlo indietro. Solo l’amore è balsamo che consola le nostre ferite, quelle native e quelle ricevute poi. E ognuno di noi è invitato a scoprirlo nella sua carne, nella sua vita. E il perdono, a cui Gesù ci invita ripetutamente, è in questa stessa linea di pensiero. Il perdono è, prima di tutto, la possibilità di faticosa libertà per il cuore della vittima. Il perdono interrompe l’ossessione umiliante nel cuore della vittima, innanzitutto. L’aiuta a riconoscere che la propria vita continua ad appartenere al Signore, e non a chi le ha fatto del male. Come nell’A.T. il Signore Dio perdonava sempre il suo popolo per poter restare fedele alla propria verità di Dio che lo amava da sempre, e non perché il popolo se lo meritasse, così, il perdono dà alla vittima il potere di non restare ostaggio del nemico, come altrimenti avviene tramite l’odio e la voglia di vendetta e il ricordo ossessivo. E così rende possibile anche al nemico, se questi lo vorrà, un cammino di libertà. Ma è nell’interesse innanzitutto della vittima il perdono! E’ per lei che è una via di liberazione, di restituzione alla dignità di soggetto libero e non più ostaggio del nemico. E poi il sapere che quando perdoniamo assomigliamo al Padre celeste che sempre ci perdona, anche questo ci è di aiuto. Il perdono è la sola possibilità di continuare a vivere nell’amore anche dopo essere stati vittima di qualcuno. Gesù, infatti, si rivolge, rivolgendosi ai poveri, innanzitutto alle vittime dei ricchi e dei potenti! Non dimentichiamo che la guerra eterna e planetaria, che si ammanta poi di tutte le ideologie diverse, è quella dei ricchi contro i poveri. Ed è quasi una memoria del Magnificat cantato da sua madre quando profetizzava “Dio abbatte i potenti dai troni e innalza gli umili”. E Gesù pensa anche a ogni dolore che si riceve, e si procura purtroppo, nelle relazioni personali, tutti, poveri e ricchi, uomini e donne, ogni giorno....

Questa, per me, è meravigliosa intelligenza: perché è assolutamente vero, e ognuno e ognuna se ne può accorgere guardando nel proprio cuore. E’ questa conoscenza umana di Gesù del cuore umano che conquista! Ognuno di noi può guardarsi e ritrovarsi sempre nel Vangelo e nelle parole di Gesù: come soggetto del male fatto e di quello subìto, della fede come dell’empietà, del perdono che libera e pacifica e del risentimento che angoscia, della disperazione e della speranza. Quale altra parola è altrettanto veritiera, saggia, e ha la forza di farci desiderare la vera libertà, quella da noi stessi, per poter amare anche con intelligenza finalmente?

Finito che Gesù ebbe di interpretare alcuni passi della Torà per insegnare ad ascoltarla in profondità e mostrando che la sua interpretazione, lungi dall’annullarla, va alla radice del pensiero di Dio, in Matteo 6.19 Gesù comincia a dire delle parole nuove, degli insegnamenti e delle parabole che ci mostrano il suo senso invincibile della realtà, la sua percezione della vita tout court, il suo sguardo sapienziale e veritiero. Gesù ci mostra che è la nostra verità umana che ci impedisce l’arroganza, la sicurezza, che ci impedisce di fingerci potenti e autosufficienti.

“Non si può servire a due padroni”(Mt 6,24): non si può servire Dio e Mammona. Cioè: non accumulare beni, dice Gesù, perché in quel caso il tuo cuore non sarà più tuo ma loro. Non riuscirai ad amare nient’altro. Perché ciò che possiedi ti possiede. Perché l’unica signoria che non ci tenga in schiavitù è la signoria dell’amore, del Dio dell’amore, il Dio d’Israele e di Gesù. Come dice tutto l’A.T., solo i servi di Dio sono liberi! Che è la vera e spietata verità. Questo è l’unico aut-aut di Gesù! Come siamo lontani dal considerarlo tale! Quanti altri aut-aut la chiesa si è, spesso, inventata trascurando questo, l’unico detto da Gesù! E quando Gesù invia in missione i suoi discepoli a due a due, dicendo loro: “Annunciate l’Evangelo, guarite i malati” (Mt 10,9-10), chiede loro di non portare nulla con sé. Perché, se non perché l’unica riprova di aver potere sugli spiriti immondi altrui è averlo sugli spiriti immondi propri, cioè sulla propria brama di possesso, di garantirsi la vita da se stessi, di non doversi fidare di nessuno?

E questa sua parola in Mt 6,22-23: “La lucerna del tuo corpo è l’occhio; se esso è luminoso, tutto il tuo corpo sarà nella luce”. La luce che può illuminarci entra in noi da fuori, non viene da dentro! E viene in noi, nel nostro corpo, attraverso il nostro sguardo sugli altri e sulle altre, sulla realtà, su ogni creatura ed evento. Non si tratta di illuminare gli altri, ma di guardarli in modo tale che ci illuminino! E’ nelle mani del nostro sguardo l’essere nella luce o nelle tenebre! Il nostro sguardo è porta, è finestra di noi, anima e corpo. Lo sguardo che vede gli altri e altre con attenzione e compassione, lo sguardo che ascolta le lacrime che sono negli altri e nelle cose, illumina chi guarda come colui e colei che è guardato. Gesù ridà dignità e responsabilità a ciascuno e ciascuna, perché lo sguardo è potere umano per eccellenza, di cui disponiamo tutti e tutte, perché non è dato solo con gli occhi ma con tutta la nostra postura umana. Anche questa parola, che ci dà un compito e la responsabilità di noi stessi, sull’essere noi nella luce o nelle tenebre, tramite il nostro sguardo, il nostro rapporto con gli altri, dice, secondo me, l’intelligenza specialissima di Gesù. E’ un dire così umano, e così per nulla religioso, che ci riguarda tutti e tutte allo stesso modo: donne e uomini, sani e malati, ricchi e poveri, giudei e pagani. Le sue parole sono davvero luce ai nostri passi, la Torà fatta carne in mezzo a noi, perché le meditiamo nel cuore, e le facciamo.

Oppure quando dice in Mt7, 7-8: “Cercate, chiedete, bussate nella preghiera..”: indipendentemente e prima di ogni esaudimento, queste azioni sono già esercizi di verità, di abitare la nostra povera verità, in quanto ci insegnano a vivere la nostra verità di non bastare a se stessi, di non sapere , di non avere, di desiderare. Più perseveriamo nella preghiera, anche di domanda soprattutto dello Spirito santo, più combattiamo in noi la stoltezza dell’uomo che nel benessere non capisce del Ps 49, o la tremenda tiepidezza di Ap. 3, 16-18, e diventiamo liberi e vigili per accogliere l’invito del Signore, come Gesù dice nella parabola di Lc 14, 16-20, quando il Padrone del banchetto manda in giro i suoi servi a invitare , e tutti si scusano dicendo che hanno altro da fare... Anche qui, vediamo la stessa cosa: Gesù non ci insegna a essere religiosi ma finalmente umani! Capaci di accettare la nostra condizione bisognosa, vivendola nella libertà e per amore del prossimo. Ci insegna - questo è il Vangelo- il suo modo di vivere: nella libertà e per amore di chi abbiamo attorno, amici e nemici, vicini o lontani che siano dalle nostre abitudini, o pensieri, o inclinazioni affettive e culturali.

E anche la parola che forse ci sembra inumana “Chi vuol salvare la sua vita la perderà e solo chi la perderà la salverà”, dobbiamo scoprire che è vera! Che è obbedienza alla realtà, alla verità nostra. Che è un’impossibilità umana salvare davvero la propria vita! Che nella nostra vita umana è davvero così! Gesù dice che nella realtà abbiamo solo queste due alternative! Che finché la priorità della preoccupazione per la nostra vita ci tiene in ostaggio, non possiamo che esserne angosciati. Perché la vita è minacciata in se stessa! Perché non abbiamo il potere di aggiungere un solo cubito alla nostra statura! Perché non troveremo nessuno che abbia lo stesso nostro scopo nella sua vita, e dunque non potremo vivere in comunione di amore con nessuno! E dovremo sempre temere tutti e tutto! E anzi, rischieremo di temere i migliori - quelli che noi riteniamo i migliori! – quelli che possono attentare al nostro successo qualunque esso sia e per minuscolo che sia, e degli altri non ce ne importerà nulla! E di questa verità ne abbiamo tutti la prova: ogni volta che abbiamo voluto salvare la nostra vita a tutti i costi, anche contro altri, ci siamo ritrovati tra le mani una vita meno umana. A questi desideri e affanni del tutto anti-evangelici, ci costringe la preoccupazione per noi stessi, non la malvagità, dice Gesù! Ecco perché possiamo restare ammaliati dall’intelligenza di Gesù: perché è talmente vero ciò che dice! Chi di noi non lo prova in se stesso?

Gesù dice di essere venuto per i malati e non per i sani. Gesù non si imponeva a nessuno. Sono le persone povere, malate, escluse che sono attratte da lui e che lo attraggono, perché Gesù è venuto a narrare e a incarnare la misericordia amorosa di Dio per tutti quelli e quelle che l’ingiustizia umana, e l’ingiustizia della natura avevano escluso dalla possibilità di una vita dignitosa, dalla condivisione dei beni della terra e della comunione.

Altro esempio. Gesù non ha certo inventato il servizio: sapeva bene che il mondo trabocca da sempre di schiave e schiavi, di serve e di servi che servono i più grandi di loro, e dei loro gemiti! Gesù ha inventato il servizio cristiano: imparando da lui e seguendo le sue orme, servire i più piccoli, i più deboli di noi. E’ il più grande che deve servire i più piccoli! Questa è la rivoluzione! Non così come avviene nel mondo, ma in modo opposto avviene il servizio di chi vuol seguire Gesù. Servire i più grandi di noi è la necessità obbligata dei poveri e delle povere nel mondo, servire i più piccoli e poveri di noi, o come noi, è gratuità, è evangelo, è fraternità.

Un altro pensiero. Dalle cose materiali, dai beni, spesso in passato ci è stato insegnato un distacco ascetico e angosciato, come se fossero le cose a essere poco spirituali, e non invece che il condividerle è l’unico rapporto spirituale con esse, come Gesù ci insegna: dare un bicchier d’acqua – fresca precisa il Vangelo – a chi ha sete è gesto che avrà ricompensa nel mondo futuro, chiunque lo compia. Preoccuparci che altri, bisognosi come noi o di più, abbiano i beni più materiali del mondo, come cibo buono e sano, e acqua fresca e vesti decorose, è la cosa spirituale per eccellenza, è sfamare e dissetare il Signore stesso, come dirà Gesù in Mt 25. Evangelico è darsi pensiero per i bisogni altrui prima che per i propri. Accogliere nella parola del Signore Gesù l’amore che Dio ha per ciascuno/a di noi, ci chiede di amare non Dio ma gli altri e altre. Gesù non ci ha detto: Come io vi ho amato così amatemi. No! Come io ho amato voi, così amate gli altri, amici e nemici che siano. Lì mi incontrerete.

Un altro pensiero: Gesù ha pensato alla Pietà al contrario! Mi spiego. C’è una parola di Gesù che mostra la sua attenzione, del tutto controcorrente, verso le donne. Gesù provava vera pena per le donne. Quando parla della sciagura che avrebbe colpito Gerusalemme, dice “Guai alle donne incinte e che allattano in quei giorni” (Lc 21.23); e quando sta andando al Calvario: “Beate le sterili” e “piangete su di voi (e sui vostri figli)”. Gesù pensava la Pietà al rovescio: pensava la madre, la donna, oggetto del compianto amoroso. L’attenzione compassionevole di Gesù trovava sempre i più poveri, tra i poveri, i più soli tra i soli: e per lui sono le donne, prime quelle incinte o che allattano. Nel disastro generale, a loro è riservato il doppio del terrore e del dolore: per l’altro e per se stesse, così indispensabili all’altro. Parole di un’attualità sconvolgente: ogni giorno vediamo le spaventose tribolazioni delle popolazioni in fuga, e vediamo che le donne sono ancora le più miserabili, oggetto di torture e umiliazioni supplementari, spesso incinte e allattanti, e con piccoli da salvare. Ma ciò che le catastrofi aumentano esponenzialmente avviene già, nascosto, nella vita ordinaria.

E, non ultima cosa per importanza: l’intelligenza e la libertà interiore per imparare e ricevere rivelazione da chiunque. Il Vangelo non tace che Gesù ha saputo imparare molte cose anche dalle donne incontrate. Dalla donna peccatrice di Lc 7, ha imparato il gesto dell’amore più umile e più forte, e lo farà a sua volta ai discepoli all’ultima cena come culmine ed eloquenza del servizio dell’amore: lavare i piedi. Dalla povera vedova che getta i due spiccioli riceve rivelazione dell’amore, di Dio e degli umani, come dono intero di sé. E dalla donna pagana che lo supplica per la sua bambina, accoglie la rivelazione di essere stato inviato anche alle Genti e non solo a Israele. (E come Gesù comprende dalla fede di questa donna che Dio non lo ha eletto solo per Israele escludendo le Genti, così le chiese devono comprendere che Dio non ha eletto poi anche le Genti escludendo Israele.)

Ora dico una cosa forse troppo personale: Secondo me, una donna può sentire una grandissima attrazione verso Gesù e amarlo anche senza la fede! Perché per le donne Gesù è stato e rimane una meravigliosa meteora in un cielo buio: prima, e purtroppo anche dopo di lui, più nessuno ci ha trattate come lui. Solo lui ci ha viste, ascoltate, capite, accolte in relazioni di amicizia e di discepolato, riconosciute capaci di ascolto e di annuncio dell’Evangelo. Nei Vangeli, mai Gesù ha rifiutato una donna, o si è sdegnato con lei, o l’ha rimproverata. E mai una donna ha avuto atteggiamenti contro di lui. Nessuna l’ha abbandonato. Persino la moglie di Pilato dice che è un giusto, e supplica il marito di non nuocergli!

Ma il modo in cui Gesù ha vissuto tutta la sua vita lo contempliamo al sommo grado nella sua morte, quando, rifiutato da tutti, e tradito e rinnegato e abbandonato dai suoi discepoli, patisce la morte sommamente ingiusta e infamante di croce. La croce, infatti, è icona non solo della morte ma di tutta la vita di Gesù. E’ lì che lo vediamo, fino all’ultimo istante libero e intelligente, portare a compimento il suo amore, per noi e per tutti. Ed è lì che, col centurione pagano, vedendolo morire in quella mitezza, possiamo confessarlo come il Figlio di Dio, l’Emanuele, che ci ha raccontato in tutto la misericordia immensa del Dio d’Israele per tutti e per tutte. Senza minacciare vendetta, senza rancore verso i nemici che gli stanno facendo così tanto male, Gesù tace, ascolta e prega. Gesù neppure sulla croce ha difeso la sua vita e la sua innocenza, ma sempre la sua umanità: cioè ha lottato nel cuore per non perdere mai la libertà di figlio di Dio, la somiglianza col Dio misericordioso e compassionevole. Chiedendo a Dio di perdonare i sui nemici, dice la parola più intelligente e più luminosa e più libera, “ perché non sanno quel che fanno”, parola che sempre ci aiuterà: e a tentare di avere anche noi misericordia di coloro che ci fanno del male, e a riconoscere in quelle parole anche noi stessi. Ascoltando ingiurie, derisioni e tentazioni spaventose, Gesù resiste e non cede alla violenza, rivolgendo il suo lamento e la sua supplica angosciata soltanto a Dio col salmo del Servo sofferente del Signore, a quel Dio che, anche se tace, sempre ci ascolta.

E proprio perché il suo amore fu più grande e più forte della sua preoccupazione per se stesso, del suo diritto e del suo attaccamento alla propria vita, per questo fu anche più grande e più forte della morte. E Dio ha confermato tutta la vita di Gesù risuscitandolo dai morti, primizia di tutta l’umanità.
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