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Sorelle di Bose Storie d’amore bisognose di salvezza

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01 dicembre 2016
Matteo 1, 18-24

«Di Gesù Messia, la genesi avvenne così. Essendosi fidanzata sua madre Maria a Giuseppe, prima che convenissero [ad abitare insieme] si trovò incinta da Spirito santo. Giuseppe, suo sposo, che era giusto e non voleva esporla all’infamia, decise di rilasciarla di nascosto. Mentr’egli meditava queste cose (…)».


Dio entra nella storia degli umani, che non è priva di negatività e nudità, per ridestare vita e riprendere vie di fecondità. Il racconto di Matteo ce lo ricorda. Il quadro genealogico presentato poco prima della nostra pericope racchiude la storia in una serie di generazioni che, dopo un lungo elenco, termina con l’irrompere di una novità: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù il Cristo». Il lettore è avvertito che ciò che è generato è da Spirito santo, ma Giuseppe non sa, deve camminare in solitudine e si trova solo di fronte a un evento inatteso, indesiderato, che muta la sua vita.

Di fronte a quella imprevista maternità di Maria a lui fidanzata, la legge gli chiedeva di denunciare pubblicamente la sua sposa, ma il cuore gli proibiva di farlo e aveva deciso di ripudiarla in segreto. Ora, egli reagisce a questo evento drammatico assumendolo e mostrando la sua giustizia: Giuseppe, si dice, è giusto. E questo essere giusto significa anzitutto essere umano. L’uomo giusto è colui che riflette qualcosa della giustizia stessa di Dio e Dio non è mai un esecutore di sentenze. Il Dio giudice è sempre coinvolto nelle vicende del suo popolo, soffre, con-soffre con le vittime del male. La sua è una giustizia relazionale, sempre in rapporto a qualcuno, a un volto preciso, non a un’idea o a una norma. La giustizia così umana diventa obbedienza all’altro, responsabilità e custodia dell’altro. La giustizia di Giuseppe diventa obbedienza radicale agli eventi, a Maria, a Dio e alla parola di Dio e allora diventa spazio salvifico, spazio cioè per l’azione di Dio stesso. La giustizia di Giuseppe si arricchisce della fede nelle parole dell’angelo che gli chiedono di non temere. Il testo sottolinea l’attività diciamo così di riflessione, di travaglio interiore di Giuseppe, come agitato da molti pensieri alla ricerca di una qualche soluzione. In questo umanissimo ponderare di Giuseppe, in questo discernere, ci viene detto che si fa strada una luce attraverso l’immagine del sogno; il sogno rivela una parola, e la parola della Scrittura ascoltata diventa luce per la situazione di tenebre e di morte in cui Giuseppe si trova. Al suo risveglio non è che abbia compreso, ma ha obbedito e obbedendo manifesta la sua fede, il suo affidarsi: il suo è un movimento di abbandono non una razionalizzazione, e la fede-fiducia gli dona la libertà e il coraggio di prendere con sé Maria.

Anche a noi, nelle nostre notti, è chiesto di ascoltare e credere. Ascoltare le parole folli delle Scritture e credere all’incredibile fa sì che si crei nelle nostre povere vite uno spazio per l’azione di Dio. Perché la storia di salvezza si è sempre fatta strada attraverso storie umane, storie lacerate, che chiedevano salvezza; anche la storia tra Giuseppe e Maria è una storia più che mai bisognosa di salvezza, di redenzione (vv. 20-21). Giuseppe salva la sua storia con Maria e salva anche la storia di salvezza perché egli adempirà il compito paterno di dare il nome Gesù al bambino. Tutto quello che pensava di aver perso egli lo riceve, tutto ciò che aveva scelto, tutto ciò che poteva prendere dall’inizio alla fine lo riceve: Maria, un figlio... Forse anche noi abbiamo davvero solo ciò che riceviamo; anche quanto scegliamo, quanto crediamo di fare nostro, in realtà è oggetto di una relazione profonda solo nel momento in cui lo cogliamo come dono, come risorto dopo essere morto. L’amore si fonda sull’accettazione di una perdita: questo ci insegna la vicenda di Giuseppe con Maria, perché solo così le nostre storie d’amore tanto bisognose di salvezza possono diventare storie salvate e storie che salvano.

a cura delle sorelle di Bose
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